Si sente il peso delle “istituzioni” internazionali (Bce, Ue e Fmi) come di quelle nazionali, perché già nel tracciare il quadro della crisi Visco si “dimentica” sia la sua origine che la sua evoluzione.
Nel 2015 l’economia italiana è tornata a crescere per la prima volta dall’avvio della crisi del debito sovrano. Vi sono chiari segnali positivi, soprattutto per la domanda interna. L’attività economica rimane però lontana dai livelli precedenti la crisi; è soggetta alle stesse incognite che gravano sull’economia globale ed europea.Nell’inconsueto mix di verità e propaganda, infatti, Visco parla di “crisi del debito sovrano” (2011, dunque) saltando a pie’ pari ogni riferimento alla vera data di inizio (2007, i mutui subprime, e 2008, il fallimento di Lehmann Brothers). In questo modo può continuare a sostenere la menzogna delle “istituzioni” sovranazionali per cui l’inceppamento dell’economia globale non sarebbe dovuto alle contraddizioni specifiche del capitalismo attuale – finanziarizzazione senza controllo, shadow banking, esplosione del debito privato – e dunque sarebbero giustificate le politiche di austerità, le “riforme strutturali” e istituzionali che fanno pagare per intero il conto a chi lavora, restringendo al contempo gli spazi e la sostanza della democrazia.
Va da sé che “sbagliando” la diagnosi ne possa derivare soltanto una terapia altrettanto sbagliata.
Ed è un vero peccato – un crimine, sul piano scientifico – perché in realtà Visco avrebbe molte cose interessanti da dire. E alcune le dice anche.
Scontata la difesa della politica monetaria del suo superiore gerarchico – la Bce peraltro guidata dal suo predecessore in via XX Settembre, Mario Draghi – anche se non esagera nel delinearne gli effetti positivi:
Si tratta di misure di portata eccezionale. Gli acquisti di attività finanziarie hanno raggiunto il 9,4 per cento del prodotto dell’area lo scorso 20 maggio, si porteranno al 17 per cento nel marzo 2017. Negli altri principali paesi avanzati gli interventi delle banche centrali hanno assunto dimensioni ancora più ampie: circa il 20 per cento del PIL negli Stati Uniti e nel Regno Unito, più del 60 in Giappone.Si potrebbe ironizzare a lungo sulla dimensione dei costi (il 17% del Pil dell’eurozona) per ottenere benefici calcolati nel +0,5% del Pil stesso (metà della “crescita” italiana, bisognerebbe peraltro sottolineare), ma giustamente Visco valorizza la parte relativamente piena del bicchiere, evitando così di esser collocato tra i critici teutonici della stessa Bce.
L’evidenza attesta l’efficacia delle misure espansive. Il costo del credito all’economia si è ridotto e la frammentazione finanziaria nell’area dell’euro si è attenuata. Le misure hanno favorito la flessione dei rendimenti e hanno sostenuto i prezzi di una vasta gamma di attività finanziarie, con riflessi positivi sui consumi, attraverso effetti ricchezza, e sugli investimenti, attraverso la riduzione del costo del capitale. Hanno alimentato la fiducia di imprese e famiglie. Secondo le nostre stime, in assenza delle misure di politica monetaria introdotte tra la metà del 2014 e la fine del 2015 sia il tasso di crescita annuo dei prezzi sia quello del prodotto sarebbero inferiori, nell’area, di circa mezzo punto percentuale nel triennio 2015-17. Per l’Italia, gli effetti stimati sono più pronunciati.
Ma almeno non lascia spazio a ottimismi (governativi) eccessivi:
Per la politica monetaria la sfida principale resta il permanere dell’inflazione su livelli eccessivamente bassi; la variazione dei prezzi è tornata negativa nei primi mesi di quest’anno. Il fenomeno non è limitato all’area dell’euro, è connesso in larga parte con il calo del prezzo del petrolio, ma dipende anche, in misura rilevante, da dinamiche interne: i margini inutilizzati di capacità produttiva e di forza lavoro sono più ampi che in altre economie avanzate.Non omette, e questo torna a suo onore, il dettaglio velenoso: i problemi dell’economia continentale, deflazione in testa, non sono addebitabili ai soli fattori esogeni (petrolio, ecc), perché se “i margini inutilizzati di capacità produttiva e di forza lavoro sono più ampi che in altre economie avanzate” significa che l’attuale configurazione produttiva continentale (Germania compresa, dunque) soffre di “sovracapacità produttiva”. Siamo insomma in piena crisi di sovrapproduzione. Più che in altre aree, certo, ma non diversamente da altre aree.
Inevitabile, con queste premesse, parlare dei rischi derivanti da una crescita che non arriva e che non può neanche arrivare fin quando il sistema delle imprese continua il suo “sciopero degli investimenti”:
In rapporto al PIL, gli investimenti restano però ancora molto al di sotto dei valori osservati prima della crisi, su livelli minimi nel confronto storico. In prospettiva, l’andamento della domanda estera è il principale fattore di incertezza: secondo le imprese si sono intensificati i rischi geopolitici, che hanno un impatto negativo sull’attività economica, sia per l’effetto diretto sulle esportazioni, sia per la maggiore cautela che inducono nei piani di investimento.Non a caso, dunque, Visco ripone le sue speranze altrove, rispetto alle esportazioni:
I guadagni di occupazione potranno essere ampliati se si consoliderà la ripresa della domanda interna.In questo intreccio tra investimenti (privati e pubblici) assenti e domanda interna necessariamente da sostenere nasce probabilmente il suo discutibilissimo “ok” alla strategia economica renziana (in realtà di Pier Carlo Padoan), fatta discendere da un classico esercizio matematico:
L’aumento dell’incidenza del debito pubblico sul prodotto, da poco meno del 100 per cento nel 2007 a quasi il 133 lo scorso anno, è soprattutto il portato della crisi. Se in questo periodo il prodotto reale fosse aumentato in linea con il decennio precedente e il deflatore in linea con l’obiettivo di inflazione nell’area dell’euro, il peso del debito sarebbe aumentato di soli tre punti percentuali, un incremento di poco inferiore a quello derivante dal sostegno finanziario fornito dall’Italia ai paesi in difficoltà; tenendo conto delle ricadute positive di una maggiore crescita sul disavanzo pubblico, il peso del debito si sarebbe ridotto. Questo semplice esercizio rende evidenti i rischi ai quali è esposta l’economia di un paese in grave ritardo competitivo e l’importanza di riforme strutturali volte a sostenerne il potenziale di crescita; esse sono tanto più necessarie in presenza di un debito pubblico così elevato.Insomma: i margini per un intervento pubblico sulla dinamica economica erano strettissimi, e lo sono ancora, ma “per fortuna” si è evitato di stringere quanto avrebbero voluto e preteso le “istituzioni” e la Troika:
Dal 2014, alla fine di un triennio particolarmente duro per l’economia italiana, la politica di bilancio è divenuta moderatamente espansiva. Il Governo mira a conciliare il sostegno alla ripresa con la riduzione del rapporto tra debito pubblico e PIL, opportunamente indicata come obiettivo strategico. Nei suoi piani la riduzione dovrebbe iniziare quest’anno e rafforzarsi nel triennio successivo. L’evoluzione del contesto macroeconomico rischia di ostacolare il conseguimento di questo obiettivo nel 2016; uno stretto controllo dei conti pubblici e la realizzazione del programma di privatizzazioni possono consentire di avvicinare il più possibile il rapporto tra debito e prodotto a quanto programmato e garantirne una riduzione significativa nel 2017.Dopo di che il via libera alle ulteriori misure che si vanno addensando nel disegno della “legge di stabilità” 2016 non potrebbe essere più pieno:
Per sostenere una ripresa più rapida e duratura è necessario il rilancio di investimenti pubblici mirati, anche in infrastrutture immateriali, a lungo differiti; sono importanti un’ulteriore riduzione del cuneo fiscale gravante sul lavoro, il rafforzamento di incentivi per l’innovazione, il sostegno ai redditi dei meno abbienti, particolarmente colpiti dalla crisi. Se i margini oggi disponibili nel bilancio sono limitati, è comunque possibile programmare l’attuazione di questi interventi su un orizzonte temporale più ampio.Si capisce benissimo che il contenzioso con l’Unione Europea a guida tedesca si è andato inspessendo nel corso degli ultimi mesi, ben al di là delle dichiarazioni di facciata di un leaderino sfacciato e pretenzioso:
I risultati conseguiti sono importanti ma disomogenei. Le limitazioni alle leve nazionali sono state rapidamente poste in atto; l’introduzione e la piena condivisione degli strumenti sovranazionali segnano invece un ritardo. Anche per gli interventi comuni a sostegno di singoli paesi membri in difficoltà si è scelta la strada di una condivisione dei rischi contenuta. Con l’istituzione dell’ESM è stato superato il tenore restrittivo della clausola di divieto di salvataggio prevista dai Trattati europei che avrebbe impedito qualunque forma di assistenza; tuttavia, la capacità finanziaria del fondo è modesta, sostenuta da garanzie limitate dei paesi membri.L’Unione Europea ha dunque seguito due velocità diverse, a seconda che si dovesse centralizzare il controllo di gestione delle finanze pubbliche (l’austerità è stata imposta con velocità e ferocia, senza troppe mediazioni) oppure costruire gli strumenti di politica fiscale, finanziaria ed economica comuni (nessuna “condivisione dei rischi”, continuano a ripetere i “virtuosi del Nord”, rinviando sine die misure che – in un’ottica strettamente capitalistica – darebbero stabilità continentale, sia pure a un costo alto e condiviso).
Il nuovo disegno istituzionale e molte delle decisioni che ne sono scaturite sono stati soprattutto indirizzati a ridurre i rischi propri di ciascuno Stato o dei singoli intermediari bancari, anche prescindendo da possibili implicazioni sistemiche. È, questa, una situazione di vulnerabilità: vi è il pericolo non solo che le autorità nazionali ed europee non siano in grado di reagire adeguatamente a shock di ampia portata, ma che abbiano anche difficoltà a evitare effetti di contagio originati da tensioni di carattere circoscritto. Una effettiva riduzione dei rischi complessivi richiede che adeguate reti di sicurezza basate su strumenti sovranazionali affianchino le misure pensate per ridurre fragilità specifiche.Il “nazionalismo dei forti” prevale ai tavoli di trattativa tra gli Stati, certamente. Ma per “i mercati”, e segnatamente per la speculazione finanziaria, questa differenziazione dei rischi-paese è un’occasione per pasteggiare a spese altrui (nostre, banale persino dirlo).
Dove Visco sorprende ancora, purtroppo in negativo, è nel trattare il problema-banche. Ossia quello che istituzionalmente è il suo campo operativo principale, dopo la perdita della sovranità monetaria.
Parte con una lamentazione non priva di senso:
Nel caso del sistema bancario si è pressoché annullata la possibilità di utilizzare risorse pubbliche, nazionali o comuni, come strumento di prevenzione e gestione delle crisi. L’esperienza internazionale mostra che, a fronte di un fallimento del mercato, un intervento pubblico tempestivo può evitare una distruzione di ricchezza, senza necessariamente generare perdite per lo Stato, anzi spesso producendo guadagni. Andrebbero recuperati più ampi margini per interventi di questo tipo, per quanto di natura eccezionale.E se non può intervenire lo Stato – come è avvenuto in altre crisi bancarie, anche tedesche – allora gli strumenti diventano improvvisamente inesistenti:
[...] la posizione assunta dalla Commissione europea in materia di aiuti di stato esclude l’utilizzo, a fini preventivi e di ordinata gestione delle crisi, degli schemi di assicurazione obbligatoria dei depositi, sebbene tali fondi siano di natura privata, essendo finanziati e autonomamente gestiti dagli intermediari; l’efficace conduzione dei processi di risanamento richiederebbe invece l’utilizzo di tutti gli strumenti a disposizione. Non vi è motivo per considerare come impropri aiuti di stato iniziative che contribuiscono a correggere fallimenti del mercato senza ledere la concorrenza. Un’interpretazione rigida della normativa sugli aiuti di Stato, poco attenta alla stabilità finanziaria, ha anche ostacolato l’ipotesi di istituire una società per la gestione dei crediti deteriorati delle banche italiane.Per questa via Visco arriva infine al varco dove tutti lo attendevano: il salvataggio delle quattro banche, a cominciare da quella Etruria:
Con la condivisione delle perdite da parte di azionisti e creditori subordinati (burden sharing) e con le misure di salvataggio interno (bail-in), che prevedono il possibile coinvolgimento di altri creditori, si è deciso di proteggere i contribuenti, imponendo invece un costo diretto a risparmiatori e investitori. La nuova normativa costituisce una risposta a vicende occorse in sistemi bancari diversi da quello italiano, direttamente colpiti dalla crisi finanziaria globale e sostenuti da massicci aiuti di stato. Essa è pensata per contrastare, com’è giusto, comportamenti opportunistici delle banche, ma nella sua applicazione va ricercato un equilibrio tra questo obiettivo e quello della stabilità. Diversamente da quanto proposto dalla delegazione italiana nelle sedi ufficiali, non è stato previsto un sufficiente periodo transitorio che consentisse a tutti i soggetti coinvolti di acquisire piena consapevolezza del nuovo regime, né si è esclusa l’applicazione delle norme agli strumenti di debito già collocati, anche al dettaglio.La responsabilità è insomma soprattutto dell’Unione Europea, che non ha voluto nemmeno discutere di un “periodo transitorio” nell’applicazione delle nuove norme (bail in), anche se ovviamente c’è tutta la condanna postuma possibile per gli organismi dirigenti delle banche fallite, che hanno nascosto problemi, sofferenze, veri e propri falsi in bilancio, fino alla catastrofe finale.
Ma neanche una parola sulle responsabilità della stessa Bankitalia, che avrebbe dovuto “sorvegliare”. In parte Visco rimanda alla oggettivamente grande documentazione fornita durante la crisi dei “quattro”, comprese le audizioni davanti al Parlamento. Ma resta comunque la (pessima) sensazione che Palazzo Koch abbia voluto intervenire il più tardi possibile, seguendo prassi già seguite in passato, ritrovandosi poi inabilitata ad intervenire operativamente nel momento in cui le “nuove regole” venivano velocemente imposte come uniche.
Le crisi bancarie costituiscono sempre per le autorità di supervisione un passaggio delicato. La Vigilanza è chiamata a ridurre per quanto possibile la probabilità che i dissesti si verifichino e a contenerne le ricadute. Questa responsabilità richiede di riflettere sempre sulle cause delle crisi, su come identificarle più rapidamente, su come migliorare gli interventi ispettivi e a distanza. Ma non va dimenticato un punto importante: gli ordinamenti e il modello di vigilanza prudenziale che si sono andati affermando a livello internazionale negli anni, sotto la spinta del Comitato di Basilea, giustamente valorizzano l’autonomia imprenditoriale delle banche. L’autorità di vigilanza non può sostituirsi sistematicamente nelle loro scelte gestionali.Questa oggettiva impotenza si ripercuote anche sulle prospettiva del sistema bancario italiano, oberato da crediti deteriorati, sofferenze e carenze di governance (tradotto: amministratori fraudolenti, spesso di bassa qualità professionale).
Al netto delle svalutazioni già apportate dalle banche, il valore dei crediti deteriorati è di poco inferiore a 200 miliardi. Più della metà si riferisce a situazioni in cui la difficoltà dei debitori è temporanea. Se ci si concentra sulle sole sofferenze, il valore netto è pari a meno di 90 miliardi.Visco è obbligato a difenderne la funzione, ma è fin troppo chiaro – calcolatrice alla mano – che il neonato Fondo Atlante, messo insieme con piccolissimi contributi dal sistema bancario stesso, non è assolutamente in grado di far fronte a eventuali (già in corso) nuove crisi di istituti di credito nazionali.
Le sua Considerazioni, insomma, alla fin fine si risolvono in un’autodifesa che rivela l’indebolimento fenomenale di quella che resta tuttora la più attrezzata “riserva di cervelli” nel bel mezzo di una classe dirigente fatta di corsari dalla vista cortissima.
Una debolezza che non nasce oggi, certamente, ma che si va accentuando col passare del tempo e le “strette” imposte dall’Unione Europea; e soprattutto dalla Germania. Bastava dare un’occhiata, stamattina, all’intervista data da Luigi Zingales al Fatto per averne la conferma: “il governo e Visco devono chiamare la Troika”, che in questo momento sarebbe quasi più “tollerante degli uomini di Angela Merkel”.
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