Due donne con problemi giuridici soggiornano presso una comunità
terapeutica di recupero per persone con sofferenze psicologiche e
disturbi mentali. Beatrice Morandini Valdirana (Valeria Bruni Tedeschi),
è una (ex) ricca e annoiata donna dell’upper class berlusconiana,
isterica, logorroica, impicciona, vanagloriosa, in comunità per reati
legati alla truffa e bancarotta; Donatella Morelli (Micaela Ramazzotti),
è una proletaria livornese chiusa in sé stessa, violenta e taciturna,
obbligata alle cure mentali dopo diversi episodi di violenza, nonché
aver tentato il suicidio. Le due non potrebbero essere più diverse,
eppure la strabordanza di Beatrice – sempre alla ricerca di qualcuno con
cui parlare o, meglio, “civettare” – fa poco a poco breccia in
Donatella. Durante un permesso di lavoro esterno alla comunità, le due
fuggono, dando vita ad una sorta di road movie all’italiana sulla falsa riga di Thelma&Louise. Una
fuga che, ovviamente, servirà alle due protagoniste come catarsi
psicologica andando al fondo dei loro problemi, delle motivazioni e
circostanze che li hanno prodotti.
Il film ci consegna un Virzì diverso dal solito. La commedia è sempre
più sullo sfondo, mentre assume maggior valore la narrazione di un
paesaggio sociale capace di incidere e cambiare le persone. Non è allora
una commedia, ma neanche un film di denuncia, da cui il regista si
tiene volontariamente alla larga, e fa bene. E’ un film che mischia in
maniera equilibrata due elementi: la condizione di classe che forma il
comportamento delle due protagoniste, ne origina la “malattia”, che
finirà per cristallizzare in forma psicologicamente deviata tutti i tic e
gli stili di vita delle classi dalle quali le due provengono; e la
condizione di donne, ambedue – nonostante le opposte provenienze –
vittime “in quanto donne”, sfruttate da un contesto maschile abietto,
prevaricatore, carnefice. Siamo ciò da cui proveniamo, e quello che
facciamo trova sempre una ragione nelle condizioni di vita che lo hanno
lentamente prodotto: questo uno dei messaggi forti del film, e in questo
senso il taglio “materialistico” convince in quanto anti-didascalico e
anti-schematico. Non c’è redenzione possibile, almeno per la proletaria
Donatella Morelli. C’è solo sofferenza, attenuata forse dall’amicizia,
ma niente illusione. Una vita serena, dignitosa anche nella povertà,
“all’altezza” degli standard sociali, è impensabile per una donna che ha
vissuto sulla propria pelle i frutti concreti di questi “standard”. C’è
solo violenza inespressa e traumatica, rassegnazione individuale,
sconfitta. Se la condizione è vissuta anche dall’esuberante, scontenta e
viziata Beatrice, è solo perché al regista preme mettere al centro un
valore di amicizia che dovrebbe travalicare le differenze di classe. Un
passaggio forse debole, anche se pure per la ricca Beatrice,
sostanzialmente “soprammobile” femminile di uomini d’affari che se ne
servono scaricandola al momento opportuno, rientra in fin dei conti tra
le vittime della società. Anche per lei, la fine non può che essere il
ritorno nella comunità, l’espiazione di una pena determinata per tutte e
due dalle condizioni d’appartenenza.
Paolo Virzì è uno dei registi più interessanti di questo ventennio. Se ne Il capitale umano sembrava aver abbandonato la commedia capace in qualche modo di rassicurare una condizione umana in difficoltà (da Ovosodo a Tutta la vita davanti a La prima cosa bella, le
difficoltà sociali – apertamente di classe – venivano stemperate dalla
natura leggera della descrizione), qui la commedia rientra senza però
generare un film “leggero”: si ride poco, e il tratto drammatico prevale
nettamente. La descrizione dei personaggi è il punto forte, ma
d’altronde Virzì è un maestro proprio in questo, nel dirigere gli attori
e nel dargli profondità grazie ad una sceneggiatura senza passi falsi.
Rimane la sensazione di “via di mezzo”, ma è una via di mezzo alta,
senza cedimenti a facili progressismi anti-psichiatrici, ma senza
neanche legittimare versioni post-moderne della vicenda umana: siamo ciò
da cui proveniamo, le nostre azioni sono il risultato della nostra
condizione materiale d’esistenza. Di questi tempi, non è poco.
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