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22/05/2016

L'Africa al buio salta nella "rivoluzione digitale" (?)

di Giorgia Grifoni

La chiamano la “quarta rivoluzione industriale” e giurano che è proprio grazie alla “trasformazione digitale” che l’Africa diventerà “l’Asia del futuro”. Questi, e molti altri, gli slogan che hanno scandito il World Economic Forum Africa di Kigali, in Rwanda, il 26esimo incontro tra esponenti del mondo politico ed economico del Continente nero. Tenutosi dall’11 al 13 maggio scorso alla presenza di 1200 rappresentanti di 70 paesi, il forum regionale ha suscitato entusiasmo e speranza per la sterzata promessa alle economie nazionali – quasi tutte fortemente in crisi – del continente. Ma, come la storia ignorata insegna, i delegati sembrano aver fatto i conti senza l’oste.

Già il titolo del meeting di quest’anno – “Connettere l’Africa attraverso una trasformazione digitale” – non sarà certo sfuggito agli esperti di affari africani: affascinante, sì, ma forse irrealistico. Come può un continente in cui meno della metà della popolazione ha elettricità in casa propria assistere e partecipare a una rivoluzione digitale? L’accesso all’energia, come spiega Siseko Njobeni sulle colonne del portale sudafricano Independent online, è un fattore fondamentale per la crescita economica e lo sviluppo di cui hanno bisogno le nazioni africane. E se la Nigeria – tanto per fare un nome a caso – siede su grandi riserve di petrolio ma milioni dei suoi abitanti non hanno accesso all’energia elettrica, come potranno questi essere parte di questa “trasformazione digitale”?

Secondo i dati della Banca Mondiale, solo il 24 per cento degli abitanti dell’Africa sub-sahariana ha accesso all’elettricità, contro una media del 40 per cento delle altre nazioni povere del globo. Nell’area di riferimento, 25 paesi lottano contro blackout quotidiani. I bambini in età scolare non sono in grado di leggere dopo il tramonto, le aziende non possono crescere e le cliniche non possono conservare in frigorifero medicine o vaccini. La mancanza di energia, spiega la Banca Mondiale, è un ostacolo alla crescita economica, ai posti di lavoro e ai mezzi di sussistenza.

Le ragioni di una tale situazione sono numerose: nonostante il continente sia ricco di materie prime e di fonti rinnovabili, la distribuzione equa dei proventi non è mai stata realizzata. Le esportazioni di materie prime rappresentano la base delle economie nazionali, per cui non resta molto con cui costruire le infrastrutture necessarie e smarcarsi dalla dipendenza dall’esterno. Burocrazia e corruzione bloccano grandi investimenti – come l’impianto idroelettrico Grand Inga della Repubblica Democratica del Congo – e piccoli progetti di energie rinnovabili che, come spiega Njobeni e come ripetuto da molti delegati al summit, sono fondamentali perché avranno “un impatto immediato”. Inutile, quindi, parlare di robotica, nanotecnologie e biotech quando non si ha neanche una connessione a internet.

Altro piccolo problema a cui il forum sembra aver guardato con eccessivo ottimismo è che le economie di mezzo continente sono quasi in bancarotta. Una realtà originatasi dal crollo delle quotazioni delle materie prime che ha portato a una forte svalutazione delle monete nazionali rispetto al dollaro, con il conseguente aumento dei debiti pubblici. Secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale, per la prima volta dalla fine degli anni ’90 la crescita media africana subirà una battuta d’arresto, con il Pil che si fermerà al 3 per cento contro il 5-8 per cento degli scorsi anni. I settori più colpiti dal crollo delle materie prime come petrolio e rame stanno portando paesi esportatori come Zambia, Angola, Mozambico, Malawi, Nigeria, Gabon, Congo sull’orlo del default.

Nuove politiche di austerity si stanno via via introducendo nei vari paesi del continente, e il dissenso verso le economie basate sull’export sta prendendo piede sempre più violentemente nelle capitali africane. Lo illustra Patrick Bond, docente di Economia politica all’Università del Witwatersrand, in un articolo per il portale The Conversation. Bond cita i dati 2015 della Banca Africana di Sviluppo, secondo la quale dal 2011 al 2014 ci sono state cinque volte più manifestazioni annuali che in tutti gli anni 2000. Quasi tutte le proteste vertevano su inadeguati salari e condizioni di lavoro, bassa qualità dei servizi pubblici, divisioni sociali, repressione di stato e mancanza di riforme politiche. Moltissime manifestazioni sono state organizzate in ogni angolo del continente dal 2012, anno di quello che è conosciuto come il “Massacro di Marikana”, quando 34 minatori sudafricani furono assassinati dalla polizia durante uno sciopero del settore.

Uno degli argomenti più ricorrenti al forum è stato quindi quello di “diversificare le economie”, puntando sulla cooperazione regionale, sull’agricoltura e sugli investimenti stranieri nell’industrializzazione locale. Se la Cina è impegnata soprattutto in Africa orientale con decine di progetti che hanno portato il suo giro di affari, tra import ed export, a 220 miliardi di dollari, i rischi per delle economie che non si sono mai veramente sviluppate sono notevoli.  Quegli stessi investimenti tanto profetizzati negli anni hanno portato le multinazionali – con la complicità dei governanti corrotti – a derubare le società africane delle loro materie lasciando enormi buchi fiscali.

I responsabili non sono solo gli illeciti fiscali, che secondo l’African Union Panel dedicato ammontano a 80 miliardi di dollari persi ogni anno: sono soprattutto i flussi finanziari leciti ad aver messo in ginocchio decine di economie del continente. Profitti e dividendi pagati in moneta forte, come spiega Bond, portati all’estero legalmente grazie al controllo dei cambi non regolamentato. Si pensi al Sudafrica che, grazie al deficit commerciale e al deflusso dei profitti, ha visto passare il suo debito estero dai 32 miliardi di dollari del 2000 ai 140 di oggi.

Se la cooperazione regionale è ancora in alto mare, la virata verso l’agricoltura tanto osannata a Kigali porta con sé il rischio di land grabbing, di cui l’Africa è una nota vittima: milioni di ettari presi in gestione dalle multinazionali straniere e destinate a colture che non sfioreranno nemmeno il mercato africano. Come sempre.

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