di Michele Paris
Per il governo
americano, qualsiasi palcoscenico internazionale in Asia orientale è
diventato ormai l’occasione per sollevare la questione delle contese
territoriali nei mari che bagnano la Cina e per moltiplicare polemiche e
tensioni nei confronti di Pechino. Questo stesso copione si è ripetuto a
Singapore e nella capitale cinese, dove sono andati in scena due attesi
eventi annuali, rispettivamente il cosiddetto “Dialogo Shangri-La”,
organizzato dall’Istituto Internazionale per gli Studi Strategici
britannico, e il “Dialogo Strategico ed Economico” tra le prime due
potenze economiche del pianeta.
Il primo appuntamento ha riunito
nel fine settimana vari ministri di paesi asiatici, europei e del
continente americano. Durante il summit si è assistito alla definizione
delle rispettive posizioni di USA e Cina sulle dispute sempre più accese
nel Mar Cinese Meridionale. Il clima minaccioso osservato a Singapore è
stato in qualche modo amplificato dalla consapevolezza dell’imminenza
di un verdetto molto delicato di un tribunale ONU con sede a L’Aia, in
Olanda, sulla legittimità delle rivendicazioni cinesi sulle isole
Spratly, nel Mar Cinese Meridionale.
La causa è stata intentata
dal governo delle Filippine, il quale rivendica queste stesse isole, in
seguito alle pressioni di Washington e l’esito dovrebbe essere quasi
certamente sfavorevole a Pechino. Il governo cinese ha già fatto sapere
di non avere alcuna intenzione di riconoscere il risultato di un
procedimento la cui legittimità non ha mai riconosciuto.
A
Singapore erano comunque presenti per gli Stati Uniti il segretario alla
Difesa, Ashton Carter, e il comandante delle forze armate USA nel
Pacifico, ammiraglio Harry Harris. Sabato, il “falco” Carter è stato
protagonista di un discorso provocatorio che ha ricordato il massiccio
dispiegamento di armamenti americani nella regione “Asia-Pacifico”.
Il
capo del Pentagono ha anche elencato una serie di paesi alleati, a
cominciare da Australia e Giappone, o con cui gli USA hanno siglato
accordi di partnership militare. In maniera assurda, Carter ha
assicurato che le manovre del suo paese in Estremo Oriente “non sono
dirette contro nessun paese in particolare”, salvo contraddirsi subito
dopo nel ricordare le “ansie crescenti... per le attività della Cina nei
mari, nel cyberspazio e nei cieli della regione”.
Carter ha
infine proposto nel suo intervento un’immagine ampiamente riportata
dalla stampa internazionale riguardo alla Cina, la quale rischierebbe di
“erigere una Grande Muraglia di auto-isolamento”. Ferma restando la
discutibilità di questa asserzione, viste le relazioni
economico-commerciali fittissime intrattenute da Pechino praticamente
con tutti i propri vicini, le parole del segretario alla Difesa USA
hanno evocato scenari di guerra, a cui lo stesso Carter ha fatto
riferimento esplicito nel corso di altri eventi della due giorni di
Singapore.
In particolare, Carter ha affermato che un eventuale
impulso all’attività di costruzione da parte di Pechino sulle isole
oggetto del prossimo verdetto del tribunale de L’Aia potrebbe spingere
gli USA e altri paesi nella regione ad “agire” in un modo che farebbe
aumentare le tensioni e l’isolamento della Cina. L’ammiraglio Harris,
invece, ha parlato della presunta volontà americana di collaborare con
la Cina, assicurando tuttavia che il suo paese “deve essere pronto al
confronto militare, nel caso fosse necessario”.
La
risposta del governo cinese alle provocazioni degli Stati Uniti è stata
altrettanto minacciosa e con ogni probabilità irrobustita
dall’irritazione per le iniziative di Washington nei mesi scorsi, come
il ripetuto invio di imbarcazioni da guerra al largo delle isole contese
e controllate da Pechino in missioni ufficialmente destinate ad
affermare il principio della “libertà di navigazione” nel Mar Cinese
Meridionale.
Il vice-capo di Stato Maggiore cinese, ammiraglio
Sun Jianguo, ha ricordato come “alcuni paesi con ambizioni egemoniche
hanno fatto in modo che paesi più piccoli si sentano autorizzati a
provocare quelli più grandi”. La Cina, ha proseguito l’alto ufficiale di
Pechino, “non tollererà le conseguenze né consentirà intrusioni nella
propria sovranità e nella propria sicurezza, o rimarrà indifferente nei
confronti dei paesi che intendono alimentare il caos nel Mar Cinese
Meridionale”.
Molti ministri presenti a Singapore hanno
assecondato la linea americana, puntando il dito sostanzialmente contro
la Cina per le tensioni nella regione. Soprattutto il rappresentante del
Vietnam, paese recentemente visitato dal presidente Obama, ha usato
toni minacciosi nell’ipotizzare un possibile “conflitto militare” se
Pechino non dovesse ammorbidire le proprie posizioni.
Il “Dialogo
Shangri-La” ha registrato dunque la tendenza all’inasprirsi dello
scontro tra USA e Cina in parallelo al procedere delle operazioni
americane di accerchiamento ai danni di quest’ultimo paese. Le ragioni
dietro la strategia americana hanno a che fare con i tentativi di
ostacolare l’ascesa della Cina a potenza in grado di minacciare la
supremazia di Washington nel continente asiatico.
Le tensioni
esplosive tra i due paesi hanno segnato solo un parziale e apparente
allentamento nella prima giornata del vertice bilaterale in programma
tra lunedì e martedì a Pechino. La sessione inaugurale del “Dialogo
Strategico ed Economico” ha visto la presenza del presidente cinese, Xi
Jinping, il quale ha auspicato relazioni basate sulla “fiducia
reciproca” tra USA e Cina, in modo da gestire i conflitti ed evitare
“errori di valutazione strategici”. Per il numero uno del Partito
Comunista Cinese, inoltre, “l’oceano Pacifico dovrebbe essere un teatro
di cooperazione” e non un’area nella quale si manifestano le rivalità
tra le potenze mondiali.
A ribadire nel concreto la posizione
ufficiale cinese sulle contese territoriali è stato il Consigliere di
Stato, Yang Jiechi, ovvero uno degli architetti della politica estera di
Pechino. Yang ha ricordato la consuetudine di discutere con i paesi del
sud-est asiatico le dispute territoriali, seguendo il principio
preferito dalla Cina, cioè il perseguimento di trattative bilaterali e
senza ingerenze di paesi terzi, con un chiaro riferimento agli Stati
Uniti.
Il segretario di Stato USA, John Kerry, sempre dalla
capitale cinese ha invece invitato Pechino a non annunciare in maniera
“unilaterale” la creazione di una Zona di Identificazione per la Difesa
Aerea (ADIZ) nelle aree contese del Mar Cinese Meridionale. L’ADIZ è
un’area situata al di fuori dello spazio aereo di un determinato paese e
impone ai velivoli che l’attraversano di fornire informazioni sulla
loro rotta alle autorità, in modo che esse abbiano tempo a sufficienza
per identificare possibili minacce e prendere le misure necessarie a
prevenirle. La Cina aveva già adottato questa iniziativa due anni fa nel
Mar Cinese Orientale, suscitando le proteste degli Stati Uniti.
Il
“Dialogo Strategico ed Economico” tra USA e Cina si tiene annualmente
da circa un decennio, ma l’obiettivo di attenuare le tensioni bilaterali
e di ridurre la distanza tra le rispettive posizioni sulle questioni
più controverse è stato in larga misura mancato sotto la spinta di
fattori oggettivi, determinati in sostanza dall’evoluzione degli
interessi strategici di Washington.
Il vertice bilaterale in
corso questa settimana prevede colloqui incentrati non solo sulle
questioni legate alla sicurezza e alla politica estera, ma anche
all’economia. Anche su questo fronte i rappresentanti
dell’amministrazione Obama hanno fatto pressioni sulle loro controparti
cinesi.
Oltre
alle solite accuse rivolte a Pechino circa la violazione della
proprietà intellettuale di molte aziende americane, il segretario al
Tesoro USA, Jack Lew, ha sollevato una questione molto dibattuta negli
ultimi mesi negli Stati Uniti e non solo. Lew ha cioè invitato il
governo a porre rimedio all’eccesso di produzione che si riscontra in
vari settori industriali cinesi.
Soprattutto la produzione in
eccesso di acciaio e alluminio cinesi sta inondando i mercati globali di
questo materiale, spingendo verso il basso le quotazioni con effetti
rovinosi sulle industrie occidentali. Il governo di Pechino, da parte
sua, aveva in realtà già annunciato qualche settimana fa iniziative per
ridimensionare alcuni settori industriali dominati dai colossi pubblici,
con tutte le conseguenze del caso in termini di perdita di posti di
lavoro.
La questione si incrocia però con un’altra vicenda
delicata, quella del riconoscimento dello status ufficiale di “economia
di mercato” da parte di Stati Uniti e Unione Europea. Ciò consentirebbe
alla Cina di evitare l’imposizione di dazi doganali punitivi sui propri
prodotti destinati alle esportazioni, ma anche in questo caso la
decisione finale dipenderà da fattori non solo economici, bensì, in
definitiva, dagli sviluppi nell’immediato futuro della rivalità tra
Washington e Pechino.
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