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01/08/2016

La ‘rivoluzione’ armena nella disputa tra Usa e Turchia

Si sono arresi nella tarda serata di ieri la ventina di uomini del gruppo armato del “Sasna Tsrer” (più o meno “I coraggiosi di Sasuna”, dal nome dell’omonimo distretto nell’antica Grande Armenia, oggi in territorio turco) che dal 17 luglio erano rimasti asserragliati nel Comando di polizia di Erevan, tenendo in ostaggio poliziotti e personale sanitario. Tutti i membri del gruppo si sono dichiarati “prigionieri di guerra”; la decisione sulla resa non è stata presa a cuor leggero, tuttavia, hanno detto, l’obiettivo principale è stato raggiunto: “risvegliare il popolo e sollevarlo alla lotta contro il regime”. In effetti, nelle due settimane durante le quali sono rimasti padroni dell’area, continuando a sparare contro il Servizio di sicurezza che circondava la zona, si sono ripetute manifestazioni a loro sostegno, organizzate da gruppi di opposizione, con la richiesta di dimissioni del presidente Serzh Sargsjan.

L’obiettivo con cui i “Sasna Tsrer” avevano iniziato l’azione, quello della liberazione del leader del movimento “Parlamento costituente”, Zhirair Sefiljan, arrestato il 20 giugno per possesso e trasporto illegale di armi, è via via passato in secondo piano e si può ipotizzare che fosse solo uno specchio con cui si volevano attirare gruppi di scontenti, riunendoli sotto la bandiera della liberazione di un famoso comandante della guerra nel Nagorno-Karabakh, quale era stato Sefiljan. Ad ogni modo, pare che le manifestazioni di strada abbiano trovato terreno favorevole nella scarsissima popolarità del Partito repubblicano al potere e del presidente Sargsjan, anch’egli veterano della guerra contro gli azeri. Di contro, scrive Vjaceslav Mikhajlov su eadaily.com, da parte dei leader di “Sasna Tsrer” sarebbero a più riprese risuonati slogan per una “lotta di liberazione nazionale contro il colonialismo russo”. Slogan che avrebbero trovato buona presa negli “orientamenti filo-occidentali di gran parte dei manifestanti, così come di moltissimi giovani funzionari della stessa amministrazione presidenziale, come hanno evidenziato le dimostrazioni di “elettromajdan” che nei mesi passati hanno interessato buona parte del Caucaso”. Comunque, se di contrapposizione tra filo-occidentali di governo e filo-yankee di piazza si è trattato, gli analisti notano come perno di tutti gli schieramenti, nell’attesa delle elezioni di primavera, resti la questione del Nagorno.

Così, Irina Alksnis su news-front.info, lancia un appello all’Armenia a fermare la corsa verso un’ennesima majdan; anche se, sostiene, l’eventuale vittoria di un’altra “rivoluzione colorata” toglierebbe un peso a Mosca nella regione. Da venti anni, scrive Alksnis, il Cremlino fa di tutto per mantenere congelato il conflitto azero-armeno per il N-K, di fatto, però, sostenendo Erevan, con gran disappunto non solo di Baku, ma della stessa Ankara, schierata coi “fratelli” azeri, nelle sue ambizioni neo-ottomane. Il gioco è complesso, scrive Alksnis: Erdoğan, pur di mantenere il potere personale, sta parzialmente “smontando” le voglie di grandezza turche; a loro volta, gli USA giocano contro il leader azero Il’kham Aliev e, per questo, Baku si distanzia repentinamente da Washington. Si aspetta soltanto che “l’Azerbajdzhan cada nelle mani di Mosca come una mela matura”; ma c’è la questione del Nagorno, con l’appoggio del Cremlino all’Armenia. Ecco, sostiene Alksnis: la “vittoria del “popolo insorto e della democrazia”, cioè un colpo di stato in Armenia, eliminerebbe il rompicapo rappresentato dal Nagorno per Mosca, che a quel punto se ne potrebbe lavare le mani”. In ogni caso, è chiaro che, sul momento, Baku tenti di approfittare pienamente dell’instabilità in Armenia; perciò, conclude Alksnis, al posto dei “rivoluzionari” armeni, ci penserei due volte prima di andare avanti su quella strada. Anche se non si può dimenticare che qualcuno tra i più lontani “amici dei rivoluzionari” ha probabilmente già deciso per loro se debbano fermarsi o proseguire.

Ma, lì a due passi dal labirinto caucasico, si incunea insistentemente un attore di cui si paventa da tempo la presenza sempre meno ipotetica: è di venerdì la dichiarazione del vice premier della Crimea, Ruslan Balbek, a proposito di campi di addestramento per terroristi dello Stato Islamico nel sud della regione di Kherson, al confine con la Crimea, con l’aperto beneplacito di Kiev. Se la maggior parte degli osservatori, con motivazioni diverse – aree del Caucaso o dell’Asia centrale ex sovietica si presterebbero meglio allo scopo; l’opposizione statunitense alla cosa, ecc. – sono restii a credere alla presenza di tali campi di addestramento, è però risaputo che dal 2014 combattono dalla parte di Kiev battaglioni quali “Crimea”, “Sceicco Mansur” e “Jokhar Dudaev” (composti in gran parte di cittadini di ex repubbliche o territori sovietici), accanto a formazioni come “Hizb ut-Tahrir” o “Fratelli musulmani”, precedentemente attive in Crimea e, dopo la riunione di questa alla Russia, traghettate in Ucraina. La lotta dell’Ucraina e di vari raggruppamenti islamisti contro il comune nemico russo, fa sì che Kiev “legalizzi” volentieri la posizione anagrafica di molti terroristi, che ricevono così la possibilità di entrare in Russia e nella UE come “cittadini ucraini”.

La presenza di simili basi nella regione di Kherson, se confermata, materializzerebbe in ogni caso un ulteriore fattore di attrito tra gli USA e la loro “guerra” contro il terrorismo cosiddetto islamista, da un lato e i paesi – tra i quali la Turchia – che lo sostengono e finanziano, dall’altro. E l’attrito sferraglia su un binario in cui, almeno teoricamente, Washington e Ankara sembrerebbero viaggiare in parallelo: quello dell’Ucraina; pur se gli interessi dell’uno rispetto all’ex repubblica sovietica parrebbero concentrati sulle sue risorse naturali e sul suo ruolo di avamposto antirusso, mentre le preoccupazioni dell’altra sembrano limitarsi alle aree meridionali e al fronte panturco che dovrebbe riunire i “fratelli” azeri, i tatari di Crimea e altre minoranze di cui Ankara vorrebbe farsi paladina. Rimane la questione del comune collante antirusso nell’area strategica del mar Nero; ma, anche qui, le brame di grandezza regionale della mezzaluna potrebbero non armonizzarsi con gli interessi più globali dell’aquila calva yankee.

Tra gli oltre 1.500 raggruppamenti islamisti che combattono in Siria, scriveva nei giorni scorsi Russkaja Vesna, solo pochissimi sono dichiarati illegali dai paesi occidentali e del Medio Oriente: la maggior parte di essi è definita “opposizione moderata” e i loro membri possono muoversi liberamente in quei paesi, come anche in Ucraina. Secondo il direttore del Centro per Ucraina e Bielorussia dell’Università di Mosca, Bogdan Bezpalko, la presenza di raggruppamenti islamisti in Ucraina è vantaggiosa per la pressione che gli USA possono esercitare sulla UE: “se gli americani, attraverso quei raggruppamenti, possono destabilizzare Europa, Russia e Cina, allora gli USA rimarrebbero l’unica “isola tranquilla” su cui affluirebbero soldi da tutto il mondo”.

Una pressione che, lo ricordano i non pochi attentati, tra Istanbul e Ankara, hanno preceduto il fallito golpe, riguarda anche la Turchia che insieme, tra gli altri, ad Azerbajdzhan e Armenia, figura quale “partner di dialogo” della SCO, la Shanghai Cooperation Organisation in cui non nasconde, al pari di Erevan e Baku, di ambire a rivestire un ruolo non secondario quale segmento importante sulla “Via della Seta” e il transito di prodotti energetici tra Oriente e Occidente. Una integrazione più fattiva nella SCO del “ponte” terrestre tra Caspio e mar Nero, unita a diverse crepe nel fronte USA antirusso costituito da Turchia-Georgia-Azerbajdzhan, il relativo riavvicinamento tra Mosca e Ankara e una certa propensione di Baku a lasciare per ora in secondo piano la collaborazione con le economie in crisi di UE e USA, potrebbe spingere Washington a tentare ora la carta armena.

Ragion per cui, gli ultimi avvenimenti di Erevan non costituiscono la conclusione di una vicenda, ma solo la continuazione di un percorso “colorato” nel Caucaso e nell’Asia centrale ex sovietici, cui si aggiunge la propensione turca a non abbandonare i “fratelli” azeri.

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