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04/08/2016

Riforma Renzi: un Capo di Stato ostaggio della maggioranza?

Devo chiedere scusa per due errori in cui sono incorso ieri, scrivendo che il partito di maggioranza riceve un premio, alla Camera, tale da raggiungere i 354 seggi. Inconsciamente ho confuso la percentuale del premio (appunto il 54% dei seggi) con la cifra assoluta che è di 340 seggi. In secondo luogo la maggioranza richiesta è dei 3/5 dell’assemblea cioè 438 voti quindi alla maggioranza ne servono altri 98.

Spero sarete comprensivi: sto finendo il libro e con questo caldo è facile fare pasticci. Comunque non cambia molto: il partito di maggioranza, per raggiungere i 438 seggi necessari ad eleggersi da solo il Capo dello stato, ha bisogno non di 12-13 seggi ma di 98, considerato che al Senato è ragionevole che disponga di almeno un terzo dell’assemblea (31-32 seggi) che può trovare consensi fra i 5 senatori di nomina presidenziale, che può ottenere qualche seggio in più con liste civetta alla Camera, inoltre aggiungere voti i deputati eletti all’estero (che non si computano nel totale del premio di maggioranza) o fra i parlamentari delle minoranze nazionali, e che può sempre trovare qualche Scilipoti o Razzi di passaggio, mi pare che il problema no sia di ardua soluzione e le valutazioni che facevamo non cambiano.

Oggi parliamo di un altro aspetto sempre riguardante il Presidente della Repubblica ed i suoi rapporti con la maggioranza.

C’è un punto della riforma Costituzionale di Renzi particolarmente delicato, che riguarda la messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica. L’art 90 della  Costituzione (rimasto invariato) stabilisce che il Presidente risponde solo per i reati di alto tradimento o di attentato alla Costituzione e a decidere sulla messa in stato d’accusa è il Parlamento in seduta comune che procede a maggioranza assoluta degli aventi diritto. Con la normativa, questo significa (ricordiamo 630 deputati + 100 senatori + 2 o 3 ex Presidenti = 732/3) circa 367 voti.  Ma la maggioranza di governo ne avrebbe già 340 alla Camera. Si immagina che fra i senatori ne abbia una trentina, considerato che è piuttosto difficile che un partito che ha vinto le elezioni politiche non abbia poi almeno un terzo dei senatori espressi dagli enti locali, per cui, con 370-5 voti il partito di maggioranza avrebbe già i voti necessari  per spedire il Capo dello Stato davanti all’Alta Corte e senza contare altre aggiunte.

Ma, si osserverà, è difficile che un Presidente incorra in reati così gravi come i due appena menzionati, e che comunque occorrerebbe dimostrare la fondatezza delle accuse. L’obiezione non tiene conto di due cose:

a. i due reati, soprattutto quello di attentato alla Costituzione, sono assai indeterminati e dipendono da complesse valutazioni politico-giuridiche non predeterminabili (ad esempio, nel 1992 il Pds chiese la messa in stato d’accusa del Presidente Cossiga sostenendo che gli eccessi esternatori e la prassi del Presidente verso la magistratura, alteravano i rapporti istituzionali e, perciò stesso, costituivano attentato alla Costituzione; nel 2014 il M5s, con valutazioni analoghe, propose la messa in stato d’accusa di Napolitano);

b. per deferire il Capo dello Stato all’Alta Corte, non è affatto necessario produrre prove, essendo ad insindacabile giudizio del Parlamento la valutazione del se sussistano elementi sufficienti. Per cui, il Presidente, magari sarà assolto dall’Alta Corte, ma, intanto, è evidente che debba dimettersi dalla sua carica, essendo del tutto impensabile che un Capo dello Stato in stato d’accusa resti al suo posto.

L’evento è improbabile sinché il Presidente sia in sintonia con la maggioranza parlamentare, ma immaginiamo il caso di un Presidente eletto da una maggioranza del partito A, che si trovi in carica dopo elezioni che segnino la vittoria del partito B. Sappiamo per esperienza che in questi casi si sviluppa un’evidente tensione fra Quirinale e Governo (come nel caso del rapporto fra Berlusconi e Scalfaro nel 1994-96). Cosa accadrebbe se il partito di maggioranza ritenesse insopportabile il livello della tensione? Oppure, più semplicemente, se per suoi calcoli politici, avesse interesse a liberare la poltrona del Capo dello Stato? Sin qui, la messa in stato d’accusa del Presidente ha trovato due forti limiti: la composizione bicamerale, con un Senato dove, dal 1994 in poi, la maggioranza ha sempre goduto di un limite risicatissimo di vantaggio e, in secondo luogo, il carattere di coalizione delle maggioranze (per cui, ad esempio, il gruppo di Casini non era disponibile ad allinearsi alla maggioranza di centro destra  di cui era parte, per mettere in stato d’accusa Scalfaro). L’architettura istituzionale prevista dalle riforme di Renzi sopprime entrambe queste condizioni, in primo luogo perché attribuisce il premio al singolo partito di maggioranza relativa e secondariamente perché riduce il Senato ad una frazione poco influente ai fini della maggioranza nel Parlamento in seduta comune.

Un simile ordinamento ha in sé tutte le premesse per violente crisi istituzionali. Ad esempio, cosa accadrebbe se si scatenasse una gara a chi arriva prima fra il Presidente che punta allo scioglimento anticipato del Parlamento e la maggioranza che cerca di sbarrargli la strada mettendolo in stato d’accusa?

Di fatto, in questo ordinamento, il Presidente diventa un ostaggio nelle mani della maggioranza governativa e, con questo dato viene meno anche la funzione di controllo ed arbitrato del Presidente della Repubblica. Si sarebbe potuto modificare l’art 90 prevedendo una maggioranza più alta per la decisione (ad esempio i 2/3), oppure spostare la decisione ad altro organo (ad esempio il Senato integrato da componenti designati dal Consiglio Superiore della Magistratura e del Consiglio di Stato) ma è significativo che non ci si sia pensato.

Si può farlo ancora? Quando si parla di nuovi assetti costituzionali, non contano le intenzioni e gli impegni futuri, quello che conta è quello che c’è scritto nel testo sottoposto a giudizio referendario, dopo potrebbe non esserci il tempo o il modo di fare l’ulteriore revisione costituzionale. Dunque, un altro evidente esempio dello “sbilanciamento esecutivista” di questa riforma.

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