di Chiara Cruciati – Il Manifesto
I sospetti della prima ora
hanno trovato conferma: il massacro di Capodanno al club Reina di
Istanbul è opera dello Stato Islamico. Il gruppo ha rivendicato
l’attentato e l’uccisione di 39 persone sull’agenzia Amaq,
definendo il responsabile un «eroico soldato del califfato che ha
attaccato il più famoso nightclub dove i cristiani celebravano la loro
festa pagana» e aggiungendo che ha agito «in risposta agli ordini» del
leader al-Baghdadi.
Non è ancora chiaro se l’azione sia imputabile ad una cellula
direttamente collegata con la leadership islamista (voci parlano della
stessa che attaccò l’aeroporto della città a giugno) o se per
“ordini” si intendono le dichiarazioni dell’autoproclamato “califfo” che
in passato ha fatto appello ad aspiranti adepti a colpire nei paesi di
residenza.
Ma ormai è palese la rottura tra Ankara e Isis, tra un
governo che ha permesso mobilità e ampliamento del raggio d’azione
islamista in chiave anti-Assad e anti-kurda e un movimento che guarda il
cambio di rotta turco come un tradimento. Negli ultimi giorni
il governo dell’Akp aveva fatto arrestare decine di sospetti membri
dello Stato Islamico, i cui luoghi di reclutamento – secondo numerosi
attivisti – erano noti da tempo alle autorità. Un totale di 147 in una
settimana, detenuti in diverse province del paese, da Smirne a ovest a
Hatay, Adana e Mersin a sud.
Ieri, mentre terminavano le procedure di identificazione delle 39
salme (11 cittadini turchi e 28 stranieri, per lo più da paesi arabi),
la polizia ha compiuto altri otto arresti, persone apparentemente
collegate all’attacco al Reina e al responsabile, forse proveniente da
Uzbekistan, Kirghizistan o Xinjiang cinese e tuttora in fuga.
Non mancano le critiche verso le forze di sicurezza: erano 25mila i
soldati dispiegati a Istanbul la notte del 31 dicembre, ma non è stato
comunque possibile fermare un uomo armato di kalashnikov e 120
munizioni, che ha viaggiato su un taxi per un’ora prima di arrivare nel
quartiere di Ortakoy, scendere e camminare per 5 minuti fino al club. In
molti imputano alla massiva campagna di epurazione – partita dopo il
fallito golpe del 15 luglio – una maggiore inefficienza delle forze di
sicurezza, decapitate e indebolite da arresti e sospensioni.
Un pugno di ferro contro qualsiasi presunta minaccia all’autoritarismo: ieri
membri del gruppo di sinistra Halkevleri, del Partito Socialista degli
Oppressi e del suo gruppo giovanile, la Federazione dei Giovani
Socialisti, sono stati arrestati mentre commemoravano la strage al
Reina. I discorsi tenuti durante il raduno sono stati filmati e
pubblicati sulla piattaforma Twitter del Ministero degli Interni
accompagnati dalla richiesta di intervenire contro i «traditori». Il
Ministero ha risposto: «La vostra richiesta è stata girata alle unità
anti-terrorismo. Per favore informateci su qualsiasi cosa vediate».
Poco dopo il post è stato cancellato dalla pagina sommersa da un’ondata
di critiche.
Ma basta a trasmettere l’atmosfera che si respira in Turchia,
un paese spinto dal suo governo verso una nuova forma di nazionalismo
islamista, infarcito di paura per i nemici interni che Ankara ha
fabbricato e terrorizzato da quelli che si è attirato con politiche
scellerate. E se i kurdi sono in cima alla lista (subito il Pkk
ha fatto sapere ieri di non essere responsabile dell’attacco), il
presidente Erdogan evita di assumersi la responsabilità di aver
trascinato il paese sul baratro, tra una quasi guerra civile con la
comunità kurda e la destabilizzazione apparentemente irreversibile del
Medio Oriente.
Ieri, durante l’incontro con l’esecutivo al palazzo presidenziale di Ankara, Erdogan
ha accusato i terroristi di voler generare il caos. Ma il caos è già
realtà, la Turchia è divisa e debole, preda di gruppi terroristici non
più controllabili dal governo e polarizzata da politiche repressive che
hanno condotto all’arresto di 10 deputati di opposizione, tutti del
partito pro-kurdo Hdp, e di oltre 140 giornalisti.
La stessa tempistica del massacro del Reina dice molto: giovedì sono
stati annunciati l’accordo Turchia-Russia-Iran sul negoziato siriano e
la tregua in tutto il paese; sabato il Consiglio di Sicurezza dell’Onu
li ha accolti in una risoluzione. Si legittima così la road map
turco-russa, fondata sulla permanenza almeno temporanea al potere del
presidente Assad e la sconfessione dei gruppi che per anni sono serviti a
farlo cadere e ora si ribellano all’abbandono dell’obiettivo comune, la
nascita di un”sultanato” sunnita.
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