Mentre si presentano le candidature alla presidenza iraniana - c’è tempo sino a domani quindi entro il 26 aprile il Consiglio dei Guardiani esporrà il suo parere - l’unica figura di spicco sicura al giudizio delle urne è il presidente uscente Rohani. Una sua rielezione è probabile. Dal 1981 l’elettorato ha sempre offerto un secondo mandato a chi veniva scelto nel quadriennio precedente e l’eterna sfida fra riformisti e conservatori, rilanciata anche stavolta, ha vissuto momenti alterni. Hassan Rohani appartiene a una categoria che, comunque, ha una tradizione nell’Iran khomeinista, quella dei pragmatici. Che ha avuto in Rafsanjani un campione di diplomazia divisa sul fronte dell’osservanza ai dogmi khomeinisti, aperture a una certa privatizzazione di attività commerciali e imprenditoriali e pure patteggiamenti coi riformisti radicali, quei Mousavi e Karoubi, che quattro anni fa grazie ai suoi buoni uffici hanno condotto il voto riformista e giovanile verso Rohani. Allora venne battuto il candidato dei Pasdaran Qalibaf. Da quell’esperienza il fronte conservatore ha imparato una lezione: evitare le divisioni, tant’è che scommetterà su uno o due elementi. Per ora Qalibaf ha rinunciato, gli oltranzisti saranno rappresentati Rajsi, custode del santuario Imam Reza a Mashad e Baqaei, che fu capo staff di Ahmadinejad. La notizia che quest’ultimo ha lanciato una nuova candidatura sembra una mossa sviante, perché nessuna ‘istituzione’ l’accetterà. Nel 2013 i tradizionalisti frammentarono il voto attorno a tre figure, più o meno conservatrici, laiche e clericali. Credevano che i quorum elettorali fossero più bassi, vista la dichiarazione di astensione proclamata fino alla vigilia dai riformisti di quella che era stata l’Onda verde. Invece la convergenza dei consensi radicali sul ‘centrista’ diplomatico Rohani li mise all’angolo.
Ora la partita si riapre e il presidente uscente, che ha avuto momenti di ampio successo e credito soprattutto per l’uscita dalla nerissima fase delle sanzioni (non è terminata perché sulle finanze del Paese pende il blocco delle transazioni bancarie) viene giudicato pure sul versante economico. E’ vero che il Pil è in ripresa e segna un invidiabile 7.2% ma diversi analisti, anche i non detrattori verso il regime degli ayatollah, descrivono la situazione attuale come malaticcia. C’è molta progettualità, diverse pianificazioni che riguardano, ad esempio, pure il nostro Paese che ha proposto investimenti nelle infrastrutture di trasporti e sanità. Sono progetti firmati col governo Renzi per la creazioni di linee e treni superveloci (se ne occupano Gavio e Trenitalia) su tratte d’interesse turistico fra Teheran, Qom, Esfahan, Mashhad, e l’edificazione di strutture ospedaliere affidate alla Pessina costruzioni, società del gruppo imprenditoriale coinvolto nella recente querelle di presunti favori con l’ex premier: appalti in cambio di finanziamenti al quotidiano L’Unità. Ma questi sono “affari” tutti italiani. Sulle urne iraniane potrà pesare il malcontento dei ceti a basso reddito - non solo i mostazzafin da decenni serbatoio di voto per il partito dei pasdaran - che dopo quindici mesi dalla caduta dell’embargo non vedono sbocchi lavorativi, con una disoccupazione cronicizzata al 12%. E per i tanti giovani le percentuali salgono al 30%, come in Occidente. Sulle politiche economiche in caduta, o comunque, non nella ripresa sperata s’è anche pronunciato Khamenei, e quando parla la Guida Suprema giunge automatica la promozione o la bocciatura d’ogni iniziativa. Però la massima autorità della nazione, dopo l’esperienza estremista di Ahmadinejad, diffida di personaggi sconosciuti. Soprattutto se conducono mosse azzardate contro il clero sciita, come quella di promuovere un superpotere laico che mettesse ai margini “il governo del clero”. Di lì la lista nera in cui è finito l’ex presidente.
Così nelle apparizioni pubbliche che conducono alle presidenziali si sono sentiti pronunciamenti di Khamenei favorevoli a una scelta d’un Capo di Stato esperto, per evitare avventure con politici inadatti. S’è sentito anche un Rohani battagliero che quasi infiammava i sostenitori delle posizioni più dure quando ha detto che “L’Iran è il Paese dei leoni, nessuno può cercare di avvantaggiarsi di questa magnifica nazione”. Concetti rivolti alle minacce dello staff di Trump che potevano stare in bocca al ministro della Difesa, una Guardia della Rivoluzione. Nel conseguente cerchiobottismo, sembra che Khamenei e Rohani, stiano trovando una quadratura delle spigolose contraddizioni che continuano ad attanagliare un pezzo di Iran. Una parte dell’opposizione riformista di area intellettuale, critica la mancanza di coraggio dell’ayatollah-presidente attorno alla repressione di pensieri e costumi; questione additata dai tradizionalisti come un cavallo di Troia del pensiero lassista e corrotto dell’Occidente lanciato contro i tratti salienti della Rivoluzione islamica. Tanto che le manifestazioni popolari del 2009, concentrate soprattutto a Teheran, che avevano riavviato scontri di piazza fra basij e studenti furono bollate come contestazione organizzate dall’esterno (s’accusava la Cia) per operare un colpo di Stato alla stregua di quello antico contro Mossadeq. Fantasmi di regime? Forse. Certamente i contrasti anche interni non sono secondari, in tutti i fronti menzionati. Ma un aspetto che gli avversari di ideuzze aggressive devono meditare è il senso d’appartenenza degli iraniani. Davanti a possibili attacchi esterni tutti s’unificano: clericali e laici, apparati, correnti politiche e generazioni. S’innesca quello spirito leonino, menzionato da Rohani, che risponde diventando un’unica diga contro i nemici della patria e di ciò che rappresenta.
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