Il
reato di tortura entra nell’ordinamento italiano. Ma la norma non piace
a nessuno e fa acqua da tutte le parti: scritta male, con grandi
margini di discrezionalità nelle mani dei giudici, è difficile da
applicare. E limita la possibilità delle vittime di vedere giustizia.
«Il corpo prova dolore. Il corpo inesorabilmente c’è e non trova riparo e l’anima si aliena da sé».
Non conosco una definizione più esatta e spietata di “tortura”, parola impronunciabile fino a pochi giorni fa, almeno nel nostro ordinamento.
Non conosco una definizione più esatta e spietata di “tortura”, parola impronunciabile fino a pochi giorni fa, almeno nel nostro ordinamento.
Eppure,
nel nostro tempo, nel nostro paese, quella parola si compie lacerando
corpi e anime. E ora, finalmente, quella parola è stata pronunciata. Ed è
stata scritta in una norma, l’articolo 613 bis del codice penale. Una legge che però sarà, nella maggior parte dei casi, inadatta a punire chi quella parola agisce.
Una legge che non piace a nessuno
Abbiamo letto in queste settimane i commenti sdegnati di ong e associazioni a tutela dei diritti umani, giustamente preoccupate da un testo di legge atteso da decenni che riesce a deludere tutti e a fare letteralmente imbestialire i sindacati di polizia, che alla loro impunità tengono tanto.
La legge, infatti, scritta in italiano maldestro,
impone, perché possa configurarsi il reato di tortura, la previsione
della pluralità delle condotte violente, il riferimento alla
verificabilità del trauma psichico, la prova della crudeltà del
torturatore e della minorata difesa del torturato e i tempi di
prescrizione ordinari, limitando così le possibilità per la vittima di
vedere giustizia.
Nel testo approvato la tortura è un reato generico,
che quindi può essere commesso da chiunque e non soltanto da un
pubblico ufficiale (in quest’ultimo caso è prevista un’aggravante).
Eppure una speciale categoria di pubblici ufficiali, vale a dire le
forze dell’ordine, si sono immediatamente sentite chiamate in causa e
hanno reagito, all’approvazione della legge, con quella stessa arrogante
violenza sottesa alla condotta criminale che la norma vorrebbe vietare e
punire.
Inapplicabile ai fatti del G8 di Genova
Si tratta di una legge scritta male, che lascia un margine di discrezionalità altissima nelle mani dei giudici e costringe le vittime a una sorta di probatio diabolica.
Anche i magistrati
che si sono occupati dei processi relativi all’irruzione alla scuola
Diaz e sui fatti avvenuti alla caserma di Genova Bolzaneto durante il G8
di Genova avevano provato ad opporsi all’approvazione di questa normativa, scrivendo una lettera alla presidente della Camera, Laura Boldrini.
E spiegando che, con una simile norma, non si riuscirebbe a punire
neppure quei i reati commessi dalle forze dell’ordine in
quell’indimenticabile luglio 2001 genovese.
«Ci pare si debba riflettere su questo paradosso: una nuova legge, volta a colmare un vuoto normativo in una materia disciplinata da convenzioni internazionali, sarebbe in concreto inapplicabile a fatti analoghi a quelli verificatisi a Genova, che sono già stati qualificati come tortura dalla Corte Europea, garante della applicazione di quelle convenzioni.».
I
magistrati sottolineano che «è infatti indiscutibile: che alcune delle
più gravi condotte accertate nei processi di cui si tratta siano state
realizzate con unica azione; che le acute sofferenze mentali cui sono
state sottoposte molte delle vittime abbiano provocato per ciascuna
conseguenze diverse non in ragione della maggiore o minore gravità della
condotta, ma in ragione della differente personalità di coloro che
l’hanno subita; che – come attestano le evidenze scientifiche – nulla
consente di definire in termini di maggiore gravità e intensità la
sofferenze provocate al momento dell’inflizione di una tortura di tipo
psicologico da quelle che residuano e – come richiesto dalla legge in
corso di approvazione – si manifestano in un trauma “verificabile” (e
dunque diagnosticabile e duraturo)».
«La necessità, imposta dalla norma, di inquadrare la relazione tra l’autore e la vittima
(quest’ultima deve essere privata della libertà personale; oppure
affidata alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza
dell’autore del reato; ovvero trovarsi in condizioni di minorata
difesa) è conseguenza della scelta di configurare la tortura come un
reato comune, ma esclude dall’ambito operativo della fattispecie molte delle situazioni in cui si sono trovate le vittime dell’irruzione nella scuola Diaz
che non erano sottoposte a privazione della libertà personale da parte
delle forze di Polizia e non si trovavano in una situazione
necessariamente riconducibile al sintagma della “minorata difesa”».
Una legge con tante scappatoie
Che
fosse una brutta legge lo aveva già evidenziato, quasi gridando, il
Commissario per i diritti umani presso il Consiglio d’Europa, Nils Muižnieks,
in una lettera indirizzata il 16 giugno ai presidenti del Senato, della
Camera, delle commissioni Giustizia dei due rami parlamentari e al
presidente della commissione straordinaria Diritti umani del Senato,
sottolineando come la norma in discussione fosse contraria alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani e distante dalla Convenzione Onu del 1984 e capace di garantire “scappatoie per impunità”.
E
sono proprio queste scappatoie di impunità a preoccuparci. In un paese
dove la tortura è ancora un tabù, non perché non la si agisca o non ci
si allei con capi di Stato che la utilizzano quotidianamente, ma perché
ne si nega la sua pratica, le sacche di impunità sono un rischio concreto ed evidente.
E il fatto che il legislatore abbia tentennato così a lungo prima di
introdurre nel codice penale una norma che la vietasse per poi cedere alle pressioni delle divise
(nella parte in cui si prevede la tortura non è un reato proprio delle
stesse) la dice lunga sulla effettiva volontà di punire tale abominio.
Espulsioni verso paesi di tortura
In
Italia, peraltro, la tortura non solo è praticata fino alle estreme
conseguenze (basta leggere, oltre alle sentenze della Cedu sui fatti di
Genova e la celeberrima “Torreggiani / Italia sulle condizioni
carcerarie”, il formidabile libro di Luigi Manconi e Valentina Calderone “Quando hanno aperto la cella”), ma è prassi consolidata pure l’espulsione di cittadini stranieri verso paesi (amici) dove la tortura viene praticata con fiera ostentazione.
Per fare solo un esempio tragicamente noto a tutti, nell’Egitto di Al Sisi, dove Giulio Regeni è stato sequestrato, torturato e ucciso
nella (per ora) totale impunità, e dove almeno tre persone al giorno
subiscono la stessa sorte di Giulio, le nostre autorità hanno rimandato coattivamente giusto qualche settimana fa una trentina di profughi sbarcati a Lampedusa,
che non hanno neppure avuto la possibilità di presentare richiesta di
protezione internazionale, come sarebbe stato loro diritto fare.
A voler vedere il bicchiere mezzo pieno, si può leggere con una qualche cauta speranza la nuova formulazione dell’articolo 19 del testo unico sull’immigrazione riguardo il divieto di espulsione che ora, in virtù della nuova normativa in tema di tortura, prevede:
«Non sono ammessi il respingimento o l’espulsione o l’estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura. Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell’esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani».
Una lotta che continua
Da
domani, dunque, dovrebbero immediatamente cessare i rimpatri forzati e i
respingimenti verso l’Egitto, ma anche verso il Sudan, Turchia, Libia e
tutti gli altri Paesi dove i diritti umani sono sistematicamente
violati (e per farsi un’idea di quali e quanti siano basterebbe leggere
l’implacabile rapporto di Amnesty International).
Non sarà cosi, ovviamente. Toccherà ancora una volta vigilare e denunciare.
Fino
a quando questa, che è la più indicibile delle parole, sparirà non
dalle nostre (cattive) leggi o dalle (ottime) convenzioni, ma dal nostro
agire e, direi, dalla nostra “cultura” – e non perché resa invisibile e
sottile, ma perché se ne sarà percepito l’orrore e la vergogna e
perché, magari, si sarà provveduto a formare adeguatamente i pubblici
ufficiali per evitare che, come direbbe la filosofa Donatella Di Cesare, «ogni
potere diventi una tentazione di eccesso, ogni forza una promessa di
brutalità, ogni pena la minaccia di un supplizio, ogni interrogatorio il
rischio di una tortura».
Ho
personalmente visto tanti di quei corpi che «ci sono, ci sono, ci sono e
non trovano riparo» e di quelle anime mutilate. Assistere impotenti
all’impunità di chi ha compiuto su questi corpi e su queste anime «un
furto di umanità», come direbbe Adriano Zamperini, annichilendole e annientandole, a sua volta «cagiona acute sofferenze», aggiunge tormento al tormento, tortura alla tortura.
*
Alessandra Ballerini è un’avvocata impegnata nella difesa dei diritti
umani. Tra le altre cose, ha partecipato come consulente della
commissione Diritti umani del Senato per il monitoraggio dei centri di
accoglienza e di detenzione per stranieri e alla stesura del Libro
Bianco sui Centri di permanenza temporanea e assistenza (Cpta). Lavora
con il centro antiviolenza di Genova ed è socia di Adif, Associazione
diritti e frontiere. È osservatrice di Antigone per la Liguria e quindi
autorizzata a visitarne le carceri. Fa parte dell’associazione Avvocato
di strada che opera per la tutela dei senza dimora. Collabora con
Amnesty International ed è consulente di Terres des Hommes.
Da Osservatorio Diritti
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