02/10/2017
L’italico zelo contro la Corea del Nord
Il 29 settembre il Comitato intercoreano per la pace ha pubblicato un Libro bianco con le condanne espresse da varie parti del mondo all’indirizzo di Donald Trump, dopo il discorso all’ONU, con cui “ha insultato i vertici della nostra Repubblica, lanciando parole folli sulla completa distruzione di decine di milioni di coreani”. Non solo i leader, i politici, i media e gli esperti di tutto il mondo, scrive la KCNA, ma gli americani stessi hanno criticato e deriso le dichiarazioni di Trump, definendolo “Hitler del XXI secolo”, “ignorante in politica e analfabeta”, e qualificando il suo discorso come quello che ha trasformato “le Nazioni Unite in un’arena di minacce di guerra”. Il Trump affetto da “pazzia senile e gli Stati Uniti impero del male, che hanno osato gettare la sfida della dichiarazione di guerra alla nostra repubblica e al nostro popolo” scrive la KCNA, “dovranno pagare per un crimine che sconvolge il mondo”.
Così, indispettita per tanto asiatico ardire nel qualificare per quello che sono le parole di Trump, la servitù di casa, nella persona dell’italico Ministro degli esteri, Angelino Alfano, si affretta a fustigare quel piccolo popolo che ha osato attribuire al padrone titoli così insolenti e rivela al quotidiano di regime di aver “preso una decisione forte e cioè di interrompere la procedura di accreditamento dell’ambasciatore della Repubblica Popolare Democratica di Corea. L’ambasciatore dovrà lasciare l’Italia”.
Inoltre, forse dimentico del fatto che il paese di cui si trova a esser ministro (?) mantiene sul proprio territorio, insieme alla Germania, il più alto numero di ordigni nucleari americani, il suddetto ha sentenziato che “L’Italia, che presiede il Comitato Sanzioni del Consiglio di Sicurezza, chiede alla comunità internazionale di mantenere alta la pressione sul regime», pensando alla portaerei di regime “Ronald Reagan” e ai relativi vascelli di scorta (incrociatori, cacciatorpediniere e sommergibili atomici) in navigazione verso la penisola coreana, in vista delle ennesime e praticamente ininterrotte manovre con la flotta sudcoreana.
Questo, tanto per non lasciar raffreddare l’atmosfera, dopo che bombardieri strategici USA B-1B avevano sorvolato la settimana scorsa la linea di separazione tra le due Coree e dopo che, a puro scopo di svago, forze yankee e sudcoreane avevano proceduto a “esercitazioni” col sistema THAAD, così, tanto per sfogare la stizza di non poter metter le mani su quelle ricchezze nordcoreane – ferro, oro, magnesite, zinco, rame, calcare, molibdeno, grafite, ecc. – che Korea Resources Corporation valuta a circa tremila miliardi di dollari e The Economist a oltre diecimila miliardi: risorse sfruttate da una quarantina di imprese, tra cinesi, giapponesi, francesi e svizzere.
Si comprende dunque che l’appetito yankee abbia qualche fondamento e così, se il valletto mediterraneo si limita a mostrarsi impettito, il padrone mette a punto un master plan per ridurre in cenere gli ICBM della RDPC. I militari USA, scrive Kris Osborn su The International Interest, hanno perfezionato il Exoatmospheric Kill Vehicle, o EKV, messo a punto dalla Raytheon e già testato alcuni mesi fa dal Missile Defense Agency col sistema Midcourse Defense basato a terra e in grado di distruggere un missile balistico intercontinentale. Il test – ovviamente, nessun media dell’italico regime si è sognato di parlare di “provocazione” – è stato effettuato su un missile balistico intercontinentale, dal Reagan Test Site nell’atollo Kwajalein, nelle Isole Marshall. Secondo i militari USA, si tratta di un passo fondamentale verso un nuovo sistema denominato Multi-Object Kill Vehicle (MOKV) e si progetta di integrarne la tecnologia sul Standard 3 o SM-3, un razzo intercettore in grado di colpire gli ICBM. Il “kill vehilce” non ha esplosivi, ma usa l’energia cinetica per eliminare il bersaglio, con un impatto che equivale a un camion di 10 tonnellate che viaggi a 600 miglia orarie. Secondo Steve Nicholls, della Raytheon, il MOKV potrebbe costituire un nuovo passo sulla scia delle reaganiane “Star Wars”; la traiettoria di un ICBM comprende infatti una fase iniziale di spinta, una intermedia, sopra l’atmosfera terrestre e una fase terminale, sull’obiettivo e il MOKV è progettato per distruggere i missili nemici nella fase intermedia, nello spazio.
Il riferimento è, in maniera nemmeno troppo velata, ai missili che Pyongyang sta sperimentando, a garanzia della propria sicurezza. E infatti la stessa The National Interest rimane sul tema coreano, indicando però, ma solo per ragioni di tatticismo, quattro motivi per cui gli USA non dovrebbero inviare armi nucleari in Giappone o Corea del Sud. Zachary Keck, del Nonproliferation Policy Education Center, scrive che sebbene il governo di Seoul si dichiari contrario al dislocamento di armi nucleari tattiche, vari parlamentari e media sudcoreani stanno spingendo fortemente in quella direzione.
La NBC News riferisce che l’amministrazione Trump “non esclude” il dispiegamento di armi nucleari tattiche in Corea del Sud e una delegazione parlamentare sudcoreana, in visita a Washington a inizio settembre, le ha richieste apertamente. La questione è stata posta anche dall’ex Ministro della difesa giapponese Shigeru Ishiba, nonostante l’impegno di Tokyo a non detenere armi nucleari sul territorio giapponese: e Ishiba è indicato quale possibile successore di Shinzo Abe.
Ho più volte sostenuto, scrive Zachary Keck, che gli Stati Uniti dovrebbero usare la minaccia nordcoreana per rafforzare la presenza militare nella regione Asia-Pacifico; tuttavia, ci sono almeno quattro motivi principali per cui l’America non dovrebbe dislocare armi nucleari in Corea del Sud o in Giappone. Gli Stati Uniti cominciarono a dispiegare armi nucleari tattiche in Asia e in Europa nel 1950 solo perché i primi bombardieri della guerra fredda, i B-29 e i B-50, non erano in grado di effettuare il volo di andata e ritorno dagli Stati Uniti all’Unione Sovietica (o alla Corea del Nord) e gli USA, fino al 1959, non disponevano di missili con sufficiente portata. Ma anche i primi B-52 che decollavano dagli Stati Uniti impiegavano troppo tempo per arrivare sull’obiettivo e gli ICBM basati in USA erano oltremodo imprecisi e quindi non idonei contro obiettivi tattici. Solo a partire dagli anni ’80, i missili a lungo raggio con base a terra o sul mare sono divenuti estremamente precisi.
Dunque, basare armi nucleari tattiche in Giappone o Corea del Sud non avrebbe utilità militare, scrive Keck. Nel caso del Giappone, in base al Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty (IFN), la portata dei missili là dislocabili non sarebbe sufficiente a raggiungere la Corea del Nord. Un missile balistico con raggio inferiore ai 500 km potrebbe raggiungere la Corea del Nord dalla Corea del Sud, ma dovrebbe esser basato in vicinanza del confine, dove sarebbe particolarmente vulnerabile. Ma, soprattutto, le capacità convenzionali di Stati Uniti e Corea del Sud sono più che sufficienti contro la Corea del Nord.
Inoltre, le testate atomiche in Corea del Sud richiederebbero personale americano e, in base al tipo, potrebbero distogliere risorse sudcoreane o giapponesi: ad esempio, in Europa varie bombe tattiche USA sono mantenute dagli Stati Uniti, mentre gli alleati si preoccupano di riadattare alcuni dei loro aerei per portarle. Ciò sarebbe controproducente in Corea del Sud o Giappone, nel momento in cui l’attenzione è concentrata sul miglioramento delle capacità convenzionali e si creerebbero obiettivi appetibili per la Corea del Nord (e forse la Cina) in caso di conflitto. “Ci sono già molti obiettivi che gli Stati Uniti e i loro alleati devono proteggere contro i missili di Pyongyang e non c’è motivo per crearne nuovi, privi di utilità militare”.
Anche sul piano politico, continua Keck, le armi nucleari tattiche creano spesso forti tensioni con gli alleati. La Corea del Sud ha ripetutamente insistito di non volerle e la storia dimostra che esse creano problemi tra gli alleati, come era stato il caso, ad esempio, nei primi anni della guerra fredda, dei bombardieri nucleari USA sul territorio inglese: allorché i B-29 cominciarono ad arrivare in Gran Bretagna, gli inglesi iniziarono a preoccuparsi che gli Stati Uniti avrebbero potuti utilizzarli contro l’Unione Sovietica senza l’approvazione di Londra. E gli inglesi avevano ragione: Washington avrebbe dato solo vaghe assicurazioni di consultazione, ma avrebbe rifiutato di concedere ai britannici ogni decisione finale.
Stessa cosa per la Francia: de Gaulle chiedeva il diritto di veto su qualsiasi decisione americana o britannica di utilizzare armi nucleari nel mondo, ma il comandante supremo alleato in Europa, il generale USA Lauris Norstad, si rifiutò persino di rivelare a de Gaulle se l’America disponesse di testate nucleari sul suolo francese.
Oggi, il presidente sudcoreano, Moon Jae-in, ha già dichiarato pubblicamente che gli Stati Uniti devono ottenere l’approvazione di Seoul prima di lanciare un attacco convenzionale; l’aggiunta di armi nucleari renderebbe la controversia ancora più aspra, indebolendo la coesione dell’alleanza.
Solo questioni di tatticismo e opportunità, dunque. La decisione finale spetta sempre al padrone di casa. Qualcuno dovrebbe avvisare l’italico personale di servizio.
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