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05/10/2017

Profezie

Il salto è grande, attraversa quasi un mare: “Il Manifesto” mette in circolazione accanto al giornale un libretto contenente una raccolta di discorsi del Papa sotto il titolo “Terra, Casa, Lavoro” con l’occhiello “Discorsi ai movimenti popolari”.

Si tratta di un’antologia degli interventi svolti dal Papa tra il 27 ottobre 2014 e il 5 novembre 2016 nel corso degli incontri denominati “Encuentro mundial de movimentos populares”.

Il “Manifesto” nacque come progetto politico e rivista coltivando l’intreccio innovatore che il ’68 aveva creato tra i nuovi movimenti politici e sociali che, in Italia, si erano peculiarmente sviluppati nell’incontro tra studenti e operai e i fermenti maturati nella sinistra comunista, italiana e internazionale, attorno agli anni’60 nel rifiuto del modello sovietico, nello sviluppo del movimento di decolonizzazione con accenti terzomondisti ed anche collegati alla rivoluzione culturale cinese, su di un’analisi specifica della modernità compresa nel modello di sviluppo capitalistico occidentale.

La responsabilità primaria del “Manifesto” come gruppo intellettuale e politico fu però quella di rompere, all’interno del Partito Comunista Italiano alle prese con la transizione imposta dalla successione di Togliatti e nel quadro della marcia d’avvicinamento all’area di governo che poi sarebbe sfociata nel “compromesso storico”, il quadro del “centralismo democratico”, reclamando nuove forme di espressione delle diverse “sensibilità politiche” presenti nel partito: l’uscita della rivista rappresentò il “casus belli” (la goccia che fece traboccare il vaso, in realtà, fu l’articolo “Praga è sola” firmato da Lucio Magri) per l’esclusione dei suoi promotori dal PCI.

Tutto questo si verificò, comunque, all’interno dell’evolversi della tradizione comunista, del suo formarsi come soggettività politica, non concedendo nulla a elementi di profezia millenaristica come invece accadeva in altre parti della sinistra formatasi come arcipelago sulla spinta dei nuovi movimenti di liberazione.

Il Manifesto, tanto per richiamarne la storia, ha sempre avuto piedi e testa ben piantati nella condizione culturale e operativa del movimento comunista italiano e internazionale seguendone evoluzione e sviluppi nel tempo.

Nel tempo è cambiato tutto e non è il caso di ricostruire in questa sede il racconto di una storia che ha portato al momento attuale alla pratica sparizione dei soggetti politici eredi della tradizione comunista nelle sue varie forme e alla crisi profonda, non solo delle socialdemocrazie, ma dello stesso assetto statuale sulle quali proprio le socialdemocrazie avevano sviluppato la loro azione “riformista” fino dentro ai “30 gloriosi: ’40 – ’70” come li ha definiti Rossanda.

Oggi il salto che il Manifesto compie, pubblicando i discorsi del Papa, non sta tanto nel presunto “sacrilegio” che questa operazione potrebbe rivestire in sé al riguardo del presente e della storia del movimento comunista.

Il dato essenziale è quello che il “Manifesto” assume come interlocutori non certo il Papa e la sua cerchia ma i cosiddetti “movimenti popolari”.

Questa operazione è eseguita in maniera politicamente indistinta e sotto questo aspetto è emblematico il titolo che riassume, nel merito, l’intervento di Nichi Vendola con il quale si introduce il discorso sulle colonne del quotidiano del 5 Ottobre: “Sul lavoro le parole di un profeta che non usa la fede come ammortizzatore sociale”.

E’ fin troppo evidente la contraddizione: Come può un profeta non usare la Fede?

L’interrogativo è di fondo perché il balzo che il Manifesto compie con questa operazione è proprio nel millenarismo, nella profezia, nel rivolgersi indistintamente ai “movimenti dei poveri”.

Il balzo che il Manifesto compie al di fuori dalle proprie origini e – di conseguenza – dalla propria natura sta proprio nel superare “la politica”.

La “politica” come richiesta di organizzazione che interviene sul quotidiano rappresentando esigenze, bisogni, progetti provenienti dalle distinte contraddizioni sociali raccolto attorno a quella che storicamente è stata definita “contraddizione principale” in relazione all’eterno muoversi dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Tutto questo impianto che ha caratterizzato la storia della sinistra e del movimento operaio almeno dalla prima rivoluzione industriale in avanti viene così consegnato alla profezia.

Questo passaggio è ben esplicitato nella chiusa del già citato articolo di Vendola laddove si chiamano i poveri “...sono portatori di un bisogno universale di salvezza del mondo per andare oltre quella dittatura del presente che colonizza i popoli, atomizza gli individui, rompe i legami sociali, disobbedisce al Dio che danza la vita, al Dio che non ci chiede di essere reclute del clericalismo ma sentinelle che scrutano la notte in attesa di una nuova alba”.

Ben compreso: “sentinelle” e non “militanti”.

Il punto di rottura è evidente, la fuoriuscita da una storia chiara, così com’è evidente che la natura del contendere non sia più il capitalismo ma “le chiacchiere moderniste sulla flessibilità che alimenterebbero lo sviluppo e che invece spezza carne e anima delle persone”.

Come se una presunta “rigidità” consentisse di fuoriuscire dallo sfruttamento.

Si tratta di un evidente segno di regressione culturale e politica, di rinuncia alla valenza rivoluzionaria della rappresentanza politica, del rifugio non tanto nell’utopia (magari) ma in una visione escatologica del futuro.

Basta prenderne atto e capire bene quali correnti attraversano quella che si vorrebbe definire ancora come “sinistra politica” e trarne le necessarie conclusioni.

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