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05/10/2017

Mafia. Tra gli arrestati c’è un uomo dei servizi segreti

Non è un dettaglio, ma uno dei due carabinieri arrestati nell’ambito dell’operazione contro il clan Rinzevillo e le sue propaggini in tutta Italia è un agente dei servizi segreti. All’epoca dei fatti contestati, secondo quanto emerge dagli atti d’indagine, il carabiniere Marco Lazzari lavorava all’Aisi, una delle agenzie dei servizi d’intelligence. Nei suoi confronti la procura di Roma contesta il reato di accesso abusivo a sistemi informatici mentre quella di Caltanissetta ha ipotizzato il concorso esterno in quanto, secondo le indagini, il militare avrebbe gestito anche i contatti con alcuni affiliati del clan mafioso.

Da pochi giorni Lazzari e’ rientrato nell’arma dei Carabinieri. L’altro militare arrestato, Cristiano Petrone, all’epoca dei fatti era invece in servizio al Ros ma da qualche tempo era stato trasferito alla Compagnia speciale. Quando i suoi stessi superiori sono andati a contestargli gli accessi abusivi alla banca dati, ha cercato di giustificarsi sostenendo di voler sapere se vi erano precedenti a carico di persone che conosceva. Una spiegazione che il Gip, nell’ordinanza che ha portato all’arresto, definisce “mistificatoria”.

Dalle carte dell’inchiesta delle procure di Caltanissetta e Roma che hanno portato in carcere 37 persone, emerge l’ennesima collusione tra colletti bianchi, appartenenti ai corpi dello Stato e organizzazioni mafiose.

Nell’ordinanza della magistratura che ha portato agli arresti, si rileva che per l’uomo dei servizi segreti, lo “zio” Salvatore Rinzevillo era persona degna di “grande rispetto”, il ‘capo’ con il quale c’era “un’amicizia” nata da un rapporto costante.

Una convergenza di interessi che, secondo il procuratore aggiunto di Roma Michele Prestipino, mina alle radici la lotta alla criminalità organizzata. “Una delle caratteristiche fondamentali delle mafie, una di quelle che ne fanno la loro forza, e’ proprio il sistema delle relazioni con il mondo non mafioso”, che si pone “al servizio dell’organizzazione e ne cura gli interessi” spiega il magistrato. Un sistema che, anche stavolta, poteva contare su due carabinieri, Marco Lazzari e Cristiano Petrone – il primo all’epoca dei fatti in servizio all’Aisi, il secondo al Ros.

Secondo gli atti dell’inchiesta i due carabinieri avrebbero interrogato le banche dati delle forze di polizia – Petrone su richiesta di Lazzari – per avere informazioni sulle vittime di estorsione del clan e sulle loro attività commerciali. L’ex 007, inoltre, avrebbe anche gestito i rapporti con altri affiliati e svolto pedinamenti per conto del boss Rinzevillo. Quale fosse la disponibilità di Lazzari nei confronti di Rinzivillo, è lo stesso carabiniere a spiegarlo, in un’intercettazione con un altro membro dell’organizzazione in cui critica “l’assenza di remunerazione per tutti i “favori” fatti: “rimane sempre l’amicizia, un grande rispetto, non è che me distacco, non è che io... io rispetto, è una brava persona... senno andrei contro i miei principi e ciò che ho detto... però devo ribadire... perché poi ho fatto altre cose che lui era fuori... però io una parola do e quella faccio... però... io non è che voglio però me so stufato, perché non è andato un affare non è andato quell’altro... qui non è che navighiamo tutti nell’oro... se c’era da mangià c’era da mangià bene tutti”.

Un rapporto con il boss mafioso di cui il carabiniere conosce bene i rischi, visto che più avanti afferma: “non è che voglio fa il paladino di Francia, chi s’è esposto più di tutti so io... la faccia, le notizie, gli avvisi, che poi io sono in una posizione delicatissima... chi va a perde, perdo solo io”. “Speriamo che non se lo caricano” dice al telefono l’avvocato D’Ambra (anche lui arrestato) al carabiniere/agente Lazzari, riferendosi al boss Rinzevillo, preoccupato che i suoi colleghi scoprissero i loro movimenti e arrestino tutti.

La presenza di due carabinieri, di cui uno nei servizi segreti, dentro la rete dell’organizzazione mafiosa che si era allargata dalla Sicilia a Roma e Milano, non è purtroppo un'eccezione.

Nel 2011 la Cassazione ha confermato la condanna a 4 anni 10 mesi e 20 mila euro di multa a carico di Michele Riccio, ex comandante dei Ros e della Dia genovese accusato di detenzione e spaccio di stupefacenti finalizzato a favorire i suoi confidenti e consentirgli di fare operazioni di successo per ottenere avanzamenti di carriera. In primo grado, il tribunale di Genova, il 28 marzo del 2007 aveva inflitto a Riccio una condanna più pesante, pari a 9 anni e 6 mesi di reclusione. Il colonnello Riccio gestiva la fonte Oriente, Luigi Ilardo, infiltrato dentro il clan di Provenzano e che aveva indicato la masseria dove stava il superlatitante. Ilardi venne ucciso due giorni prima che testimoniasse davanti alla Direzione Nazionale Antimafia.

Nel 2014 a Gela tre carabinieri in servizio e uno in pensione vengono arrestati in una operazione, coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta, prendendo spunto dalle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia affiliato al clan mafioso capeggiato da Giuseppe Alferi.

Secondo l’accusa, i militari indagati avrebbero estorto denaro a un imprenditore e successivamente avrebbero stabilito con la vittima un rapporto di scambio di favori. All’imprenditore sarebbe anche stato così permesso di acquisire informazioni riservate, mediante la visione di fascicoli e l’accesso abusivo alle banche dati. Sarebbe stato anche agevolato nell’acquisizione di certificati amministrativi presso gli uffici giudiziari.

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