Nei giorni in cui a Mosca si ricorda il tragico anniversario delle sanguinose giornate di inizio ottobre 1993; mentre storici e pubblicisti rinvengono sempre nuovi documenti relativi ai cecchini (anche israeliani, è stato detto) che, dai tetti dell’ambasciata USA e di altri edifici prospicienti il palazzo del Soviet supremo russo, sparavano su manifestanti e soldati, mentre l’edificio veniva preso a cannonate dai carri armati di Boris Eltsin; in questi giorni, intervenendo al Forum energetico nella capitale russa, Vladimir Putin ha notato che l’enorme divario nei redditi tra ricchi e poveri in Russia costituisce un retaggio delle famigerate “terapie shock” degli anni ’90: “Si tratta non tanto di un errore, quanto di una tendenza nello sviluppo dell’economia russa e della sfera economica”, riporta la Tass. Una “tendenza, tra l’altro” ha detto Putin, “non buona, sorta proprio agli inizi degli anni ’90, nel momento dello smantellamento del sistema sociale sovietico e dello sviluppo dei rapporti di mercato”.
Una “tendenza” che vede un 3% di supermiliardari (in dollari) detenere il 90% delle ricchezze del paese e oltre cinque milioni di lavoratori che, secondo i dati governativi, hanno stipendi di 7-8.000 (rubli), inferiori al minimo di sopravvivenza ufficiale, accanto a circa il 70% di popolazione (statistiche del PCFR) che vive con meno 25-30.000 rubli. Una “tendenza” per cui oggi, ad esempio, la Russia, nonostante l’aspro confronto politico con Kiev, vede posizionarsi tra i primi tre maggiori investitori (era al quarto posto nel periodo pre-golpe 2014) in Ucraina, con 4,4 miliardi di dollari, secondo i dati del Gosstat ucraino ripresi dalla Tass.
Il volume di investimenti russo segue quello cipriota di 9,9 mld $, olandese (6,3 mld $) e precede quello britannico (2,1 mld $) e tedesco (1,7 mld $). Secondo il Gosstat, Mosca rimane comunque il maggior partner commerciale di Kiev: tra gennaio e luglio, dei 23 mld di $ di export complessivo ucraino, l’11,7% (2,7 mld) sono dovuti alle esportazioni in Russia, con un +20% rispetto al 2016. Sui 26,5 mld totali di importazioni, il 13,2% (3,5 mld) sono stati per merci russe, con un +38,7% rispetto al 2016.
Da parte sua, imbastendo piani futurologici, il direttore commerciale del “Naftogaz” ucraino, Jurij Vitrenko, ha detto che da qui al 2030 Kiev potrebbe tornare all’acquisto di gas e petrolio russi. Lo scorso anno infatti, con decisione che, come minimo, dà adito a “qualche” sospetto di intrighi affaristici, Kiev aveva deciso di farne a meno, optando per forniture di “reverse”: l’Ucraina oggi sta cioè acquistando i prodotti energetici russi, ma non da Mosca, bensì da Polonia, Ungheria e Slovacchia, pagando naturalmente un prezzo più alto, dovuto al transito attraverso questi paesi. Un caso in cui la mano non è molto più veloce dell’occhio...
Intanto però, molto più presto, il 2019, anno della scadenza del contratto di transito russo-ucraino, potrebbe rivelarsi molto brutto per Kiev. Secondo inosmi.ru, se Mosca cesserà di far transitare i propri prodotti energetici destinati all’Europa occidentale attraverso il territorio ucraino, nel bilancio golpista potrebbe aprirsi una voragine che non verrebbe colmata né da UE, né dagli USA. Nikolas Gvozdev cita l’esempio dei Paesi baltici: a forza di ingigantire la loro russofobia, sono rimasti privi delle significative entrate russe per l’utilizzo delle locali infrastrutture di transito che rimanevano dall’epoca sovietica; oggi Mosca ha realizzato nuove infrastrutture nella regione di Leningrado, che bypassano quelle baltiche.
In Ucraina, addirittura la ex premier Julija Timošenko e l’ex presidente Viktor Janukovič erano consapevoli di un pericolo simile e avevano cercato di accordarsi con Mosca perché questa mantenesse attive le condutture su territorio ucraino. Se Mosca sceglierà altri percorsi, gli attuali introiti ucraini per il transito di gas e petrolio si annulleranno e non potranno essere totalmente compensati nemmeno da futuri transiti dal Caucaso, attraverso la linea Odessa-Brody.
Nonostante i tentativi UE di convincere la Russia a mantenere il transito ucraino, scrive Gvozdev, nella sua recente visita a Mosca, Erdogan ha ribadito l’interesse ad accelerare la realizzazione del “Turkish stream”, che renderebbe Ankara paese alternativo per le forniture energetiche in Europa meridionale e centrale. Inoltre, “Gazprom” potrebbe incrementare le forniture all’Azerbajdžan, che a sua volta accrescerebbe le proprie, con significativo profitto, verso l’Europa attraverso le condutture “Transanatoliche”.
Se quest’ultima ipotesi non si verificasse, nota Gvozdev, ciò potrebbe creare difficoltà agli USA: Baku infatti, rinunciando ai prodotti russi, potrebbe orientarsi verso quelli iraniani e Teheran otterrebbe in tal modo un facile accesso agli sbocchi europei. A nord, poi, gli investitori tedeschi sono altamente interessati alla realizzazione del “North stream-2”; una diretta testimonianza è data dalla nomina dell’ex cancelliere, ex presidente del Comitato degli azionisti del “North stream” e dal 2016 a capo del progetto “North stream-2”, Gerhard Schröder, a presidente del Consiglio d’amministrazione della russa “Rosneft”.
Le cose non cambiano di molto sul fronte del carbone. Dopo che il Donbass, a causa del blocco golpista, si è visto costretto a cessare la vendita della propria produzione all’Ucraina e questa si è orientata verso l’antracite USA e sudafricana – con costi: basta fare due conti, “leggermente” diversi – il prodotto della Repubblica popolare di Lugansk ha già trovato sbocco in Polonia, passando per il territorio russo.
Secondo Gazeta Prawna, partner polacco della LNR sarebbe la compagnia “Doncoaltrade”, con sede legale a Katowice, il cui principale azionista sarebbe l’ex vice Ministro per l’energia della LNR, Aleksandr Melničuk e secondo azionista sarebbe stato Roman Zjukov, figlio dell’ex vice Ministro per l’energia dell’Ucraina, Jurij Zjukov, che nel 2014 aveva venduto la propria quota azionaria a Melničuk. Proprio nei giorni in cui veniva resa nota la notizia, il Ministro golpista per l’energia, Igor Nasalik, si trovava in visita a Varsavia: “Noi compriamo l’antracite in USA e in Africa” ha piagnucolato, “mentre la Polonia, dai nostri territori occupati... Questo non è proprio da partner e noi speriamo che il governo polacco reagisca a tale situazione”. Ancora una volta, la comune isteria anticomunista di Kiev e Varsavia cessa di funzionare quando si tratta di affari.
Russkaja Vesna nota come il carbone di alta qualità che Kiev acquistava dal Donbass, aveva un prezzo di 60-65 dollari a tonnellata, mentre RT, lo scorso settembre, al momento della prima fornitura all’Ucraina di carbone dalla Pennsylvania, scriveva che gli USA hanno aumentato il suo prezzo quasi di tre volte: se nel 2016 costava 71 dollari la tonnellata, ora costa 206.
Tocca per l’ennesima volta ricordare il saggio Mao: “i reazionari sono degli stupidi; sollevano una pietra per lasciarsela cadere sui piedi”.
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