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03/10/2017

Rivolta catalana, crisi europea

La Catalogna ha votato per l’indipendenza, raccogliendo il 90% di “sì” su oltre il 42% degli aventi diritto al voto. Per i difensori dello statu quo spagnolo ed europeo starebbe qui la “debolezza” del referendum, come se l’intervento squadrista della Guardi Civil falangista – con ancora il fascio littorio sullo stemma! – non avesse prodotto nessun effetto sui numeri. Il 27% dei seggi è stato “visitato” nelle forme e nei modi che tutto il mondo ha potuto ammirare. E ovviamente non tutte le persone anziane o le famiglie con bambini piccoli hanno avuto lo stesso coraggio delle centinaia di migliaia che hanno sfidato per tutta la giornata manganelli, calci e pallottole di gomma grandi come palle da tennis. Quelle che invece non si sono viste al secondo turno delle presidenziali francesi, con l’identica percentuale di votanti salutata come “un grande successo”.

Per la prima volta nell’Europa del dopoguerra abbiamo visto una polizia militare assaltare i seggi per impedire alla popolazione di votare. L’esatto opposto delle retoriche sparate a tutto volume da trent’anni a questa parte, da quando le tre repubbliche baltiche l’ex Unione Sovietica iniziarono il loro percorso di secessione con l’appoggio esplicito di Stati Uniti e Unione Europea.

Un percorso diventato guerra aperta per garantire lo stesso diritto a Slovenia, Croazia, Bosnia e infine Kosovo.

Dal 1 ottobre 2017 pretendere di votare può essere dichiarato un “atto illegale”.

E oggi Margaritis Schinas, portavoce di Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea (il “governo”), ha ripetuto la formula di rito in appoggio all’ex falangista Mariano Rajoy: “per la Costituzione spagnola, quel voto non è legale. Per la Commissione europea si tratta di una questione interna alla Spagna, che deve essere affrontata nel quadro dell’ordine costituzionale spagnolo e in linea con i diritti umani fondamentali. Chiediamo ad entrambe le parti di muoversi velocemente da una situazione di conflitto al dialogo. La violenza non è lo strumento in politica per risolvere le questioni. Confidiamo in Mariano Rajoy per la gestione della situazione nel rispetto dei diritti umani previsti dalla Costituzioni”. Un penoso esercizio cerchiobottista, con cui si chiede a Rajoy di procedere come crede, ma menando un po’ meno...

Solo ieri sera, il presidente catalano Carles Puigdemont aveva chiesto alla Ue di esercitare una qualche forma di mediazione con Madrid: “L’Ue non può continuare a guardare dall’altra parte: questa è una questione europea, non interna”.

Guardando da esterni alla situazione, l’incomunicabilità sembra assoluta. Mariano Rajoy ha risposto da caudillo anni ‘30: “non c’è stato alcun referendum. È stato una messinscena, una sceneggiata ignorata dalla maggioranza dei catalani”. I catalani per lui semplicemente non esistono; o comunque sarebbe meglio che non avessero una volontà, aspirazioni, lingua, tradizioni, cultura e istituzioni proprie.

Le autorità catalane, certamente non “rivoluzionarie”, hanno fin qui rispettato il programma e le scadenze proposte al proprio popolo. E dopo la grande prova di massa di ieri non sarebbe comunque semplice, per loro, fare marcia indietro.

Dunque la palla arriva nelle mani dell’Unione Europea, che tutto vorrebbe tranne che occuparsi di questa vicenda.

Lo si può capire facilmente. Grazie all’ottusità – o alla debolezza politica – di Rajoy, la democrazia popolare ha fatto irruzione nelle stanze ovattate delle grandi burocrazie, da Madrid a Bruxelles e Francoforte. Ossia nelle istituzioni nate per negare a tutti i popoli d’Europa il diritto di decidere come vivere e stare insieme.

Fin qui le apparenze della democrazia e la realtà di istituzioni al servizio del capitale multinazionale non erano entrate in conflitto – se non in occasioni particolari, come nel referendum greco del 2015 e nel rifiuto franco-olandese della “costituzione europea” – grazie allo sforzo congiunto di Stati disposti a cedere sovranità verso l’alto (“i mercati” e le “istituzioni europee”), ma proprio per questo più rigidi nel creare una gabbia d’acciaio contro le opposizioni interne. Sia sociali che, in parte, “nazionali”.

Gli Stati, in sintesi, hanno garantito fin qui che si trattava di un processo democratico perché accettato e concordato da istituzioni elette con suffragio universale. Ma l’Unione Europea si veniva consolidando attraverso trattati che non potevano essere sottoposti al voto popolare né alle rispettive Corti Costituzionali (tranne quella tedesca, non a caso).

Ora tutte queste contraddizioni, e i relativi ossimori nati per occultarle, vengono portate alla luce da un popolo in piazza. Quel diritto all’autodeterminazione che era stato brandito con forza militare ed economica per disgregare l’Urss e gli altri paesi plurinazionali dell’Est europeo viene ora invocato da una nazione interna a uno Stato membro dell’Unione.

Ora non va più bene, ora è (o lo si vorrebbe presentare) come “sovranismo” deteriore.

Ancora peggio. La maggioranza delle forze indipendentiste catalane sarebbe favorevole a rimanere come Stato autonomo all’interno della Ue. Dunque non ci sarebbe – dall’angolo visuale di Bruxelles – nessuno “strappo irrecuperabile” alla tessitura tecnoburocratica in atto da decenni. Basterebbe ricontrattare gli stessi trattati con la nuova entità, oltretutto da una posizione di assoluta forza (non a caso le grandi imprese multinazionali presenti sul territorio catalano sono contrarie al processo indipendentista). Non cambierebbe granché...

Ma una simile scelta manderebbe in crisi totale il quarto paese della Ue, che dovrebbe perdere il 25% del Pil e veder crescere – come già sta avvenendo da decenni – analoghe spinte da Euskadi e Galizia.

Un paradosso al cubo, per coprire il quale servirebbero un mago della logica e tanti servitorelli della “comunicazione”.

Per dirne solo una.

Se la questione catalana è “tutta interna” alla Spagna, la Ue afferma implicitamente che lo Stato-nazione mantiene prerogative sovrane inviolabili. Di conseguenza, se la maggioranza di un paese volesse sottoporre a referendum i trattati europei (obbligo al pareggio di bilancio, euro, fiscal compact, ecc.), dovrebbe avere la libertà di farlo. Ma così facendo inizierebbe la disgregazione della costruzione sovranazionale.

Se invece la questione catalana è “interna all’Europa”, allora si pongono le basi per la disgregazione formale dello Stato spagnolo a fronte di due sovranità più forti: una “dal basso”, rappresentata dalle nazionalità interne ai confini, e una “dall’alto”, incarnata nei trattati.

Peggio ancora, solo nel caso della Catalogna l’Unione Europea rispolvera per un attimo il “principio di non ingerenza negli affari interni di uno Stato sovrano”, che aveva certamente dominato in tutto il secondo dopoguerra e che era stato seppellito con l’“ingerenza umanitaria”, ossia con le guerre contro Jugoslavia, Iraq, Libia, ecc.

Di fatto, la “questione nazionale” è diventata – in questa Unione Europea – uno dei tanti “valori” a geometria variabile. Se è utile a distruggere “entità nemiche”, va benissimo; se mette in difficoltà un membro di questa alleanza, è una degenerazione passatista...

Se l’Unione Europea avesse un governo politico – anziché una governance tenco-economica “automatica” – sarebbe comunque un bel problema, ma non irrisolvibile. Se almeno la Germania fosse ancora quella pre-elezioni, con Angela Merkel “unica statista europea”, idem. Ma a Berlino regna per ora il mercanteggiamento delle poltrone in cambio di pezzi di programma politico. E il prossimo ministro dell’economia sarà probabilmente un liberale, ossia un rappresentante di quella Germania che farebbe volentieri a meno dei Pigs mediterranei (catalani compresi). Difficile che escano da quel teatro “grandi idee” in grado si risolvere problemi imprevisti che coinvolgono decine di milioni di persone.


Davanti a questo groviglio di contraddizioni è andato in frantumi anche quel che restava degli schemi interpretativi della “sinistra” europea ed italiana. Tacciare di “nazionalismo reazionario” catalani e baschi – vere e proprie basi popolari dell’antifascismo in Spagna – è un insulto che pochi osano fare apertamente, ma che traspare da alcune analisi men che rozze e altamente contraddittori sulla necessità di “mantenere l’unità dello Stato”. Come se, in qualche testa, l’Unione Europea – e dunque l’internazionalismo del capitale, esplicitamente mirante alla riduzione del salario medio al di sotto dei livelli di sopravvivenza – fosse l’anticamera obbligata dell’“internazionalismo proletario” del terzo millennio.

Eppure sembra quasi ieri l’epoca in cui i movimenti di liberazione nazionale erano i movimenti rivoluzionari per antonomasia, guidati quasi sempre da forze comuniste...

A noi sembra invece evidente che la crisi ormai decennale stia erodendo le basi su cui la costruzione europea si era affermata. Un lungo periodo in cui le filiere produttive sono state ridisegnate ponendole a supporto di quelle più forti e tecnologicamente avanzate; in cui le politiche di bilancio sono state centralizzate lasciando agli Stati nazionali margini di manovra sempre più stretti (o inesistenti come nel caso della Grecia), in cui classi politiche sempre meno adeguate hanno condotto le loro locali lotte di classe o contro singole comunità manovrando il joystick di una redistribuzione senza risorse.

Non c’è perciò alcun paragone possibile tra l’indipendentismo catalano e le pagliacciate referendarie lombardo-venete, e nessuno può sovrapporre il volto dei leader catalani o baschi alla maschera di Salvini e soci. I quali, non a caso, hanno subito fiutato la mala parata e ridotto tutto a una pura mossa propagandistica, senza alcun effetto politico o economico.

La Catalogna del 1 ottobre non è il Nicaragua del ‘79 e neanche il Venezuela di Chavez. Ma è un “cigno nero” che evidenzia, con particolare forza, lo scarto irrimediabile tra ceti popolari europei e architettura istituzionale tecnoburocratica della Ue, Stati nazionali compresi.

Non è insomma il punto di arrivo della Rivoluzione, ma apre uno squarcio nel pallone gonfiato in cui siamo tutti immersi. Prima ce ne rendiamo conto, prima riusciremo a costruire – anche qui da noi – un fronte di lotta all’altezza di questo scontro.

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