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15/10/2017

Si chiama Battisti non Eichmann

Quando le ceneri di Adolf Eichmann furono disperse in mare, da una motovedetta della marina israeliana, il secchio che le conteneva fu accuratamente lavato in modo che nessun frammento di quella cenere, appartenente al corpo cremato dell’aguzzino nazista, potesse tornare a terra. E’ un fatto noto quanto significativo: i colpevoli di genocidio, come Eichmann, non dovevano, in alcun modo, trovare il conforto simbolico della sepoltura.

Lunga e articolata è la storia delle pene di questo tipo quanto stabile è la forza del concetto che le legittima: ci sono omicidi talmente efferati che non possono trovare sepoltura.

Il punto è che oggi, a oltre mezzo secolo dalla vicenda Eichmann, si tende a confondere il rito di elaborazione di questo genere di efferatezze, che rappresentano un’offesa irreparabile ad un popolo fatta con delitti tali da minacciarne la dignità e la stessa esistenza, con l’offesa al sovrano. Insomma si tende a confondere chi ha minacciato l’esistenza di un popolo con chi ha minacciato l’esistenza del sovrano, tendendo a legittimare, per entrambi, la stessa procedura: nessuna estinzione della persecuzione e della pena, anticipo della necessaria, per il ripristino dell’ordine sociale, impossibile sepoltura. Eichmann e Battisti tendono quindi, nell’immaginario come nei riti di persecuzione, a somigliarsi. Tanto più quando il sovrano, come nel caso di Battisti, è una repubblica che si vuole democratica, rispettosa dei diritti e del dissenso tanto più chi ne è uscito dall’ordine non può che essere ricercato, e condannato, a vita. Perché riconoscere un qualche diritto, una qualche amnistia a Battisti significa riconoscere che lo stato democratico tanto democratico, a suo tempo, non è stato. Per cui, nonostante le sue ceneri in futuro non saranno certo sparse in mare dalla guardia di finanza, Cesare Battisti deve essere perseguitato a vita come Eichmann. Non c’è amnistia, indulto o prescrizione per chi ha messo in discussione la legittimità stessa della repubblica. E tanto più questa severità viene sparsa a piene mani tanto più si prova a legittimare una repubblica la cui vita quotidiana che, altro che seria severità, potrebbe essere rappresentata in un libretto d’operetta.

E quindi utile ribadire che Cesare Battisti non è Eichmann. Non solo perché non ha materialmente e convintamente  partecipato a uno sterminio di massa. La sua partecipazione a gruppi armati, seppur provocando vittime e orrori, non è affatto riconducibile ad una attività che preludeva e preparava uno sterminio di massa. E per parlare di amnistia, o di indulto, non bisogna solo citare, anche se per il suo caso singolo sarebbe sufficiente, il rapporto di Amnesty International sulla tortura istituzionalizzata in Italia nei confronti degli oppositori politici di inizio anni ‘80. Abbiamo avuto il nostro Erdogan, insomma. Una questione rimossa che il caso Battisti aiuta a far riemergere: l’asilo che, in tempi diversi, lo scrittore de “L’ultimo sparo” ha ottenuto in Francia e in Brasile è stato legittimato anche come elemento di riparazione, usando il diritto internazionale e la difformità delle legislazioni dei singoli stati, dagli effetti collaterali di quella guerra a bassa intensità che un altro stato democratico, l’Italia, ha operato nei confronti dei propri cittadini a partire dalla strage di piazza Fontana. Sembra quasi curioso, a quasi 50 anni di distanza dalla strage della Banca dell’Agricoltura di Milano, ma ancora oggi la politica, e con lei la storiografia ufficiale negano un rapporto di causa ed effetto tra piazza Fontana e il successivo scatenamento della lotta armata di sinistra in Italia. Perché, ancora oggi si nega che lo stato democratico abbia potuto cominciare una guerra a bassa intensità che, successivamente, ha trovato risposta. Ci si ferma alla condanna dell’efferatezza della risposta negando la realtà di una guerra civile a bassa intensità, nel cui scatenamento lo stato “democratico” era parte attiva, presente nella vita politica di quegli anni. E così vere e proprie schegge di un tempo lontano - per citare alcuni casi noti come Sofri, Persichetti e Battisti - hanno continuato a produrre giuridicamente effetti in anni ben diversi dall’antico contesto di riferimento. Bastava un’amnistia a contesto storico concluso, magari a fine guerra fredda, e avrebbe fatto bene allo stesso stato italiano, e certe aberrazioni (politiche e giuridiche, per non parlare del lato umano) non si sarebbero riprodotte.

La persecuzione di Battisti, dal punto di vista della pura comparazione temporale, ha lo stesso senso che avrebbe avuto la persecuzione di un pensionato fascista, attivista di qualche banda clandestina post 25 aprile, nei primi anni ‘90. C’è una fine di contesto di riferimento così chiara, così conclamata, che la pena non ha più senso. Solo che il caso del fascista non è mai avvenuto, vista l’amnistia di Togliatti del ‘47, la persecuzione del secondo è mediatizzata come la riparazione di un torto irredimibile allo stato democratico.

Va qui anche considerato il rigor mortis delle culture di sinistra per cui la resa a quella sorta di partita doppia che la cultura liberale applica nei confronti di destra e sinistra (per la quale I danni fatti alla “democrazia” da fascisti e comunisti sono simmetrici) è stata ormai naturalizzata. Ma, proprio culturalmente parlando, l’insurrezione di destra e quella di sinistra non sono affatto simmetriche. La prima emerge per tendere a stabilire un ordine, una gerarchia, la seconda si scatena nel tentativo di liberarsi da una tirannia. E il comportamento di Battisti, senza giudicare il dettaglio di quanto accaduto, viene da quest’ultimo filone. Uccidere un gioielliere, rendendo il figlio infermo a vita, come accaduto ai Pac di Battisti, è liberarsi da un tiranno? No. Ma quello che è accaduto appartiene al filone dei comportamenti di chi ha cominciato la propria lotta contro ciò che era concepito il tiranno di allora. Non è quindi un caso che “dopo” Battisti sia diventato uno scrittore, presso Gallimard (una delle più prestigiose case editrici del mondo cosa omessa dai soliti Mentana), dimostrando una traiettoria esistenziale inassimilabile con gli Eichmann. Basta leggere le sue produzioni letterarie. Ma tutto ciò all’Italia di questi anni, dove l’imprigionamento è vissuto con piacere catartico e invocato con emozione, non interessa. Interessa solo la persecuzione infinita, il resto, compresi i danni che questo comporta al nostro vivere civile, non è neanche sullo sfondo. Non esiste. L’amnistia? Una cosa da “casta” quasi come il caso Battisti sia assimilabile a un condono fiscale.

Intendiamoci, non c’è da aspettarsi molto da un paese dove un grande storico delle eresie cristiane, che conosce bene le ragioni di chi è finito sul rogo, si è trovato a invocare pochi anni fa, sulle pagine di una grande quotidiano nazionale, la giustezza dell’estradizione di Battisti. Se il popolo gode un po’ nell’invocare la forca, gli intellettuali trovano l’enorme coraggio di pensarla pubblicamente come il sovrano. E’ un modo con il quale un paese, dopo aver perso la memoria del proprio passato, smarrisce il senso di quello che sta facendo.

In quel capolavoro che è Autunno in Germania, film dedicato ad una vicenda che ha ormai 40 anni tondi (l’uccisione dei leader della Baader Meinhof a Stammheim da parte dello stato federale tedesco allora a guida socialdemocratica) c’è una scena di censura televisiva. E quella, da parte della televisione tedesca, della messa in scena dell’Antigone I Sofocle, giudicato, nel film, troppo aderente al problema dell’epoca, quello della sepoltura dei morti odiati dal sovrano. Perché, si sa, dopo la loro morte, per i componenti delle Baader, si pose il problema del luogo della loro sepoltura. Nella televisione italiana di oggi, dinosauro mediale il cui ruolo è sgretolato dalle evoluzioni tecnologiche, non c’è certo il problema di censurare Sofocle. Tra format di ogni tipo, e la strapaesana presenza di Magalli, sia la letteratura antica che la realtà semplicemente sono state abolite. A specchio, stavolta, di una opinione pubblica che invoca la detenzione di Battisti per il piacere di invocare la prigione senza conoscere minimamente fatti, contesti, storia.

Eppure Battisti non è Eichmann. Ma mentre quest’ultimo è stato oggetto di un giudizio espresso con la drammaticità del senso della storia, il primo deve produrre quella notiziabilità da orrore che lo rende ottimo per il prime time televisivo che genera pubblicità o per alimentare l’infinita coda di odio di cui si nutrono i social.

Redazione, 14 ottobre 2017

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