Tutti uniti per Al-Quds capitale della Palestina, o almeno per la conservazione della parte orientale della città, contro l’azzeramento israelo-statunitense d’ogni longitudine, d’ogni identità politica e simbolica. Ma quando il presidente turco Erdoğan, che ha riunito a Istanbul 57 membri dell’Organizzazione della cooperazione islamica, ha invitato “Tutti i Paesi che sostengono la legge internazionale a riconoscere Gerusalemme come capitale occupata della Palestina, non possiamo più trovarci in ritardo” nella testa di più di qualcuno dei presenti sarà balenata qualche perplessità, oltre che difficoltà. Lo stesso sultano, che come ai tempi della Mavi Marmara, rilancia un deciso attacco verbale a Israele, sembra usare nuovamente la questione palestinese per quegli interessi da Risiko geopolitico, gli stessi che l’hanno coinvolto sul panorama siriano, con tanto di giri di valzer e di fronti. Come lui i più decisi difensori di Al-Quds presenti all’assise: l’iraniano Rohani, l’emiro qatariota Al-Thani, il re di Giordania Abdullah II, mostrano un’indignazione teorica cui non fa seguito alcuna iniziativa diplomatica concreta. Almeno nei confronti dell’Unione Europea, che con la rappresentante Mogherini ha rigettato l’idea di assentire alla mossa di una Gerusalemme israeliana.
Al di là di abbracciare un mesto e inamovibile Abu Mazen, l’assenza al vertice di figure di spicco del mondo arabo di alcuni nazioni chiave come Egitto e Arabia Saudita, rappresentati da figure minori della gerarchia interna, indica la china che prende l’iniziativa: un rituale ben poco incisivo, già piegato alle opportunità della politica interna ed estera direttamente correlate al mercato globale. Su questo fronte Israele incide relativamente, ma la branca della lobby ebraica di economia e finanza, contano eccome. E poi il peso ricattatorio statunitense attraverso l’arma dell’embargo per colpire altrui scelte politiche, contro cui convoglia la rete delle alleanze su ogni terreno, militare ed economico. Quindi la scarsa incisività ideologica del blocco islamico deve rapportarsi al realismo politico di altri giganti del mondo (Cina, Russia, India) refrattari a qualsiasi richiamo religioso islamico, che ciascuno vede come fumo negli occhi, o dei diritti dei popoli, ancor più inviso alle attuali leadership delle tre potenze per ragioni di opportunità interne e anche per radicate convinzioni autocratiche. Ecco, dunque, che l’imponente parata turca rischia di essere un pronunciamento d’intenti, una scadenza che non poteva mancare per continuare a non ostacolare nulla. E a incatenare sempre più Gerusalemme ai voleri del sionismo israeliano.
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