Una prospettiva che – per una volta – preoccupa non poco anche il mondo economico. Lo testimonia con precisione questo editoriale di Guido Salerno Aletta apparso su Milano Finanza, che andrebbe letto anche dai tanti compagni che si stanno generosamente battendo per portare avanti la lista Potere Al Popolo. Perché fissa con estrema chiarezza i macroproblemi che il paese si troverà ad affrontare nei prossimi mesi e anni. Se non li si conosce, insomma, non si può né “governare bene” dal punto di vista capitalistico né fare “opposizione efficace” dal punto di vista dell’alternativa radicale.
I macroproblemi sono di livello quantomeno europeo, come sempre da almeno 30 anni, e costituiscono la “cornice” entro cui vanno letti, agitati, affrontati i problemi “solo” nazionali, locali, categoriali, vertenziali. Pena il costruire lodevoli elenchi di desideri dalla realizzazione improbabile e quindi forieri di delusioni cocenti.
Salerno Aletta ricorda a tutti i competitor che guardano alle urne (borghesi e non): “le elezioni non cambiano nulla rispetto agli impegni europei”. Mantra sempre ripetuto da Wolfgang Schaeuble e ampiamente dimostrato con la messa sotto torchio della derelitta Grecia da parte degli uomini che promettevano di salvarla (Tsipras e tutta Syriza).
Ma anche le regole europee stanno cambiando, nonostante la crisi politica della Germania. E il mondo delle imprese (e delle banche) è molto preoccupato dal loro contenuto, che potrebbe facilmente essere accettato senza neanche discutere da un governo debole, poco credibile, poco capace di contrattare alla pari sui tavoli di Bruxelles e Francoforte.
Le regole più pericolose in corso di cambiamento, secondo Salerno Aletta, sono almeno tre: l’incorporazione del Fiscal Compact all’interno dei Trattati europei; il completamento e la stabilizzazione della Banking Union; la revisione dello Statuto dell’Esm al fine di trasformarlo in un vero e proprio Fondo monetario europeo (Fme).
La prima – che abbiamo già affrontato diverse volte – potrebbe essere devastante se applicata alla lettera (meno 5% l’anno di debito pubblico, circa 50 miliardi ogni 12 mesi) sull’intero ammontare nominale del debito (quasi 2.300 miliardi, pari a circa il 133% del Pil). Un governo serio dovrebbe contrattare con i partner europei l’esclusione da questa somma sia dei titoli di stato acquistati dalla Banca d’Italia su indicazione della Bce (quasi 320 miliardi, durante il quantitative easing peraltro ancora aperto, nonostante una riduzione degli importi), sia di quelli detenuti dalle banche private italiane (altri 500 miliardi). In questo modo la base di partenza per i calcoli del Fiscal Compact scenderebbe quasi miracolosamente all’84% del Pil, con immediata drastica riduzione del servizio sul debito, rendendo la corsa alla riduzione verso l’obiettivo del 60% assai meno onerosa e invalidante per l’economia del paese.
La terza riforma riguarda la trasformazione del fondo salvastati (Esm) in un vero e proprio Fondo Monetario Europeo, che potrebbe – nella logica finanziaria mainstream – cominciare ad affrontare meno rudemente le evidenti disparità di sviluppo nell’Unione a 27.
Certo, servirebbe un governo autorevole e serio, e preso sul serio dai partner. Ma dove lo vai a trovare, con questa classe politica di parvenu che hanno adocchiato, come massimo obiettivo, uno stipendio favoloso e un vitalizio perenne?
Stabilito dunque che non ci sarà un governo con questo profilo, bisogna pensare allo scenario meno favorevole (un’aggressione contemporanea di regole europee più drastiche e speculazione dei mercati finanziari), che rischi di farci passare qualche anno da Grecia di grandi dimensioni.
Se questo è l’orizzonte più realistico, sarebbe bene che anche Potere Al Popolo ne cominci a misurare le coordinate.
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Le nuove regole europee che servono all’Italia
Da qui a marzo bisogna tenere bene a mente le parole che Wolfang Shaeuble, per anni inossidabile ministro delle finanze tedesco, rivolse ai Greci che si apprestavano a votare per il rinnovo del Parlamento di Atene, sperando in un ribaltone che rimescolasse finalmente le carte: “le elezioni non cambiano nulla rispetto agli impegni europei”.
Il fatto è però che, nonostante la vacatio in Germania, la faticosa gestione della Brexit e le polemiche mai sopite sulla distribuzione dei migranti, in questi mesi stanno maturando a Bruxelles molte regole fondamentali dell’Unione, tre delle quali sono cruciali per l’Italia: l’incorporazione del Fiscal Compact all’interno dei Trattati europei; il completamento e la stabilizzazione della Banking Union; la revisione dello Statuto dell’Esm al fine di trasformarlo in un vero e proprio Fondo monetario europeo (Fme).
Inutile nasconderselo: un governo a fine legislatura tratta a Bruxelles da posizioni di oggettiva debolezza. E’ necessario, quindi, che su questi temi si apra il confronto, e che si ricerchi un ampio sostegno politico e mediatico sulle soluzioni a noi favorevoli. Le istituzioni, pubbliche o private che siano, anche le più prestigiose come la Banca d’Italia o l’Abi, hanno necessità di sentire, e di mostrare, che dietro di sé hanno l’intero Paese.
Sui temi europei, le forze politiche italiane sono già tutte allineate e coperte, quasi remissive: hanno fatto tesoro dell’amara esperienza di Marine Le Pen, candidatasi alle presidenziali francesi come paladina dei cittadini contro l’Europa dei mercanti: con quella sola frase riuscì a mettersi contro tutti i poteri forti, visibili e non. Di uscire dall’euro non se ne parla più, se non come pistola poggiata su un tavolo che non c’è, come se fosse l’Isola di Peter Pan; della moneta parallela, analoga alle Am-lire, si sono perse le tracce; neppure si accenna alle diverse proposte di introdurre i titoli di credito fiscale, che pure avevano trovato un inatteso consenso financo da parte di Mediobanca Securities in un report che fece clamore nell’ormai lontano novembre 2015.
Tra i due opposti, adottare una postura elettorale tanto rivoluzionaria a parole quanto velleitaria nei fatti, oppure accettare supinamente tutto quanto si sta elaborando a Bruxelles sul futuro dell’Unione, c’è una saggia via di mezzo: elaborare e condividere proposte che tutelano l’interesse nazionale. Una campagna elettorale conflittuale sulle questioni di politica interna, ma convergente sulle future regole europee, sarebbe vantaggiosa per chiunque dovesse prevalere nel voto di marzo. Si eviterebbe una nuova resa senza condizioni, come invece accadde con il Trattato di Maastricht e poi con il Fiscal Compact, approvati in Italia dai Parlamenti frastornati dalle crisi del 1992 e del 2011.
Cominciamo dalle regole sul debito pubblico. Sarebbe una follia accettare senza discussioni la riproposizione nei Trattati europei della regola della sua riduzione di 1/20 l’anno, fino al raggiungimento dell’obiettivo del 60% del pil. Occorre affrontare due questioni: in primo luogo, il trattamento da dare ai titoli acquistati dalla Banca d’Italia per conto della Bce nell’ambito del Qe. Per l’Italia, a fine novembre, si trattava di 319 miliardi di euro: non è accettabile che questo argomento sia escluso dal tavolo delle trattative, affermando che si tratta di una questione di politica monetaria, da lasciare alla esclusiva discrezionalità delle Banche centrali. Questo debito, se non va anche formalmente cancellato, deve essere comunque oggetto di un regime speciale a lunghissimo termine, almeno cinquantennale. Non solo va escluso dal computo del Fiscal Compact, ma soprattutto va ottenuta la retrocessione integrale degli interessi pagati dal Tesoro, al netto delle commissioni d’uso per la gestione, così come avviene negli Usa per i rapporti analoghi tra Fed e Treasury, e così come avveniva in Italia prima del divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro nel 1980. Non basta: occorre anche che, rispettando le regole relative all’obiettivo del pareggio a medio termine (MTO), ci sia un automatismo immediato negli interventi effettuabili direttamente dalla Banca d’Italia, illimitato nelle dimensioni sulla base dell’OMT già previsto dalla Bce, per evitare che ci siano nuove speculazioni sul nostro debito pubblico. Bisogna guardare lontano: le regole servono soprattutto nel medio periodo, per affrontare anche quelle emergenze che oggi appaiono improbabili. Non possiamo permettere che si ripetano le tensioni dell’estate del 2012: con l’Italia in ginocchio nonostante le manovre micidiali adottate dal governo Monti, i mercati ricominciarono come nulla fosse a fare baldoria. Fu necessario il diktat londinese di Mario Draghi, che il 26 luglio minacciò di fare “whatever it takes” per salvare l’euro dalla dissoluzione. Se c’è il rispetto di un impegno internazionale, verificato dalla Commissione europea, relativo ad una severa disciplina di bilancio, è assolutamente inammissibile lasciare che i mercati possano ancora brandire la loro mannaia. O il rispetto delle regole, o le sanzioni del mercato.
La seconda questione riguarda il sistema bancario, ed il nesso con il debito pubblico: occorre porre fine alla interminabile spola che ha caratterizzato queste relazioni. Non si tratta di obbligarle a costituire margini di capitale a fronte anche di questi impieghi, bensì di iniziare il processo di scorporo del sistema dei pagamenti dalla funzione bancaria, ponendo fine alla bicentenaria alchimia della trasformazione delle scadenze, con i depositi a vista cui corrispondono impieghi a medio e lungo termine. Serve dunque un sistema centralizzato, come è stato proposto da Paolo Savona su queste colonne, che operi sul modello blockchain, sotto il controllo pubblico: inizialmente avrebbe al passivo 500 miliardi di euro di depositi a vista, ed altrettanti titoli di Stato italiani all’attivo, pari alle detenzioni bancarie attuali. Cesserebbe così anche la temuta commistione tra banche e titoli di Stato. Anche in questo caso, si tratterà di detenzioni non smobilizzabili, da sottoporre al medesimo regime previsto per quelle della Bd’I: sarebbe curioso, infatti, che il sistema si facesse pagare cospicue commissioni per la gestione dei pagamenti e ricevesse anche gli interessi sui titoli di Stato in cui questa liquidità viene impiegata.
Le due operazioni appena descritte, che riguarderebbero un ammontare di debito pubblico di poco superiore agli 800 miliardi di euro, farebbero scendere all’84% del pil la percentuale in mano al mercato e ridurrebbero drasticamente l’onere netto per gli interessi. A queste condizioni potremmo discutere della riduzione del rapporto debito/pil nell’ambito di una direttiva dell’Unione che recepisca il Fiscal Compact.
Occorre discutere anche della stabilizzazione della Banking Union. E’ indispensabile una radicale deforestazione del groviglio di organi e di sovrapposte competenze che si sono affastellate, con le normative emanate quasi quotidianamente ed in modo disorganico. Vanno riviste, in particolare, per tener conto delle farraginosità riscontrate, sia la Decisione della Commissione europea del 1° agosto 2013 in materia di aiuti di Stato alle banche sia la direttiva BRRD.
Infine, va messa bene a fuoco la trasformazione dell’Esm in Fme: sembra una iniziativa volta unicamente ad assicurare un default ordinato dei debiti pubblici in caso di crisi. L’idea che eroghi fondi di sostegno condizionati alle riforme, o che agisca come la Banca mondiale degli investimenti, in sostituzione del Piano Junker ed in aggiunta alla Bei, sembra un guazzabuglio.
Questi sono i tre temi europei strategici per l’Italia, su cui occorre confrontarsi, elaborare proposte condivise, e battersi. Diversamente, a marzo sarà troppo tardi: per chiunque vinca, e soprattutto per l’Italia.
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