di Michele Giorgio – Il Manifesto
Non è mai stato così evidente come in questo periodo il declino dell’Egitto in politica estera.
Martoriato da attentati a danno dei civili e da attacchi alle sue forze
armate da parte dei jihadisti. In affanno per la debolezza
dell’economia e largamente dipendente dall’aiuto finanziario
dall’estero, in particolare dall’Arabia Saudita, l’Egitto ha perduto
buona parte dell’autorevolezza che aveva costruito negli anni del
nasserismo e conservato anche dopo la firma del trattato di pace con
Israele che lo aveva isolato nel mondo arabo. I suoi avversari ormai se ne rendono conto.
Anatemi, proteste e persino la minaccia di un bombardamento
aereo non sono riusciti a imporre la posizione egiziana sulla diga
Rinascita – faraonica, diventerà la più grande d’Africa – che l’Etiopia
sta costruendo sul Nilo (con l’aiuto della italiana Salini Impregilo,
un progetto da 3,4 miliardi di euro). L’idea di amministrare
insieme la preziosa acqua del Nilo, in modo da non farla mancare a
nessuno, non interessa ad Addis Abeba che tratta, discute e nel
frattempo completa la diga.
«Addis Abeba applica la stessa politica del fatto compiuto applicata da Israele su Gerusalemme» diceva un paio di giorni fa il direttore del “Centro studi di Alessandria”, Mustafa al Faqi, intervistato da al Masry al Youm. «È chiaro che l’Etiopia con l’aiuto del Sudan vuole mettere l’Egitto davanti al fatto compiuto», spiegava al Faqi ammonendo che «il Cairo non resterà con le mani in mano e non permetterà che il suo popolo venga assetato».
L’Egitto, ha concluso, «ha sopportato già tanto l’Etiopia. Il suo
governo sta facendo come Israele, da un lato tratta e dall’altro va
avanti coi lavori».
Non ha cambiato le carte in tavolo il recente viaggio ad Addis Abeba
del ministro degli esteri Sameh Shoukry che ora si prepara a proporre
alla Banca Mondiale di partecipare come parte neutrale ai negoziati del
“Comitato nazionale tripartito”. Non servirà a molto se si considera che Addis Abeba ha già messo in chiaro che accetterà solo compromessi limitati ai suoi piani per la costruzione della Rinascita e di altre dighe.
I 90 milioni di etiopi nel 2050 diventeranno 187 milioni
secondo le stime delle Nazioni Unite e buona parte della popolazione non
ha elettricità. Le dighe sono la sola soluzione che il governo etiope ha in mente per produrre energia.
«Il peso politico e diplomatico dell’Egitto nella regione era diminuito già negli ultimi anni di Hosni Mubarak al potere, segnati dalla secessione dal Sudan del Sud Sudan in cui il Cairo non ha avuto alcun ruolo in un senso o in un altro», dice al manifesto l’analista Mouin Rabbani
«Quindi è riemersa la questione del Nilo. I vari Paesi bagnati dal
fiume si sono ribellati all’accordo che da decenni assegna all’Egitto
la porzione più ampia dell’acqua del fiume. È potuto accadere perché
quei Paesi avevano compreso che il Cairo contava di meno».
L’utilizzo delle acque del Nilo è regolato da un accordo del 1959 grazie
al quale l’Egitto ottiene 55,5 miliardi di metri cubi di acqua l’anno,
mentre il Sudan 18,5 miliardi. Dal 2014 in poi l’Egitto ha partecipato
con Sudan ed Etiopia a discussioni ma lo scorso novembre Addis Abeba ha
respinto gli studi tecnici condotti da società francesi che avvertivano
dell’impatto negativo della diga Rinascita sul flusso dell’acqua del
Nilo in Egitto e sulla produttività della diga di Aswan.
«L’instabilità del Paese e la crisi economica e finanziaria stanno
indebolendo l’Egitto agli occhi degli altri Paesi della regione –
aggiunge Rabbani – e lo rendono sempre più dipendente dagli altri con
effetti immediati sulla sua capacità di svolgere una politica estera
autonoma». Certo, prosegue l’analista, «non si può sostenere che
l’Egitto sia solo la ruota di scorta per i sauditi o uno strumento nelle
mani di Israele, però è più vulnerabile e molto meno influente».
Se ne rende conto anche Recep Tayyip Erdogan avversario
dell’Egitto e sponsor dei Fratelli musulmani proclamati terroristi dal
regime di Abdel Fattah el Sisi. Il presidente turco, in un
colpo solo, è riuscito a far innervosire gli egiziani e far preoccupare i
regnanti sauditi annunciando, alla fine dello scorso anno, un
accordo con il Sudan per riutilizzare l’isola di Suakin, nel Mar Rosso,
scelta dal sultano ottomano Salim I nel 1517 come base nella zona,
distrutta dai britannici nel 1899 dopo la costruzione di Port Said.
Dovrebbe servire al transito dei pellegrini turchi diretti alla Mecca
ma con ogni probabilità diventerà anche un presidio militare per le
ambizioni di Erdogan. Oltre a dover digerire la presenza della
rivale Turchia, l’Egitto paga anche la rinuncia, a favore dell’Arabia Saudita, delle isole di Tiran e Sanafir con una diminuzione della sua
presenza strategica nel Mar Rosso.
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