Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

08/02/2018

Le elezioni luogo maieutico per la rappresentanza politica dei comunisti?

Negli ambienti della sinistra d’alternativa circola in questi giorni un documento redatto dalle compagne e dai compagni della “Rete dei Comunisti” attraverso il quale, giudicata come “repentina” la formazione della lista di “Potere al Popolo” (che pure RdC appoggia), ci si interroga – sulla base dell’esperienza accumulata nel corso degli anni – sul significato profondo di una partecipazione elettorale a livello legislativo generale e sugli effetti che questa partecipazione potrà avere circa la prospettiva stessa della rappresentanza politica dei comunisti nella fase.

Il documento della Rete dei Comunisti descrive i diversi passaggi nei quali l’organizzazione si è cimentata attorno a quella che è stata definita la “politica dei tre fronti” (quello del rapporto di classe, della rivendicazione immediata dei bisogni attraverso l’attività sindacale, e della memoria “storica”) e non definendo la stessa RdC come l’organizzazione politica strutturata dei comunisti in Italia a causa di un deficit di presenza a livello di massa critica, riesce a porsi – appunto – l’interrogativo di fondo cui si accennava nel titolo: se e quale accelerazione potrà portare il dato della presenza elettorale sul terreno di una possibile ripresa di presenza politica dei comunisti in Italia e, più in generale, nella complessa realtà internazionale.

Il documento in questione trascura un punto che, invece, dovrebbe essere analizzato con attenzione: quello riguardante la pluralità di presenze che si richiamano all’identità e alla storia del movimento comunista, a partire dai due principali soggetti che pure fanno parte della lista di “Potere al Popolo”, come Rifondazione Comunista e i Comunisti Italiani (continuo a definire così la seconda formazione, in quanto mi è parsa proprio una forzatura di tipo “espositivo” quella di riprendere la denominazione di Partito Comunista Italiano: e su questo punto cercherò di spiegarmi meglio più avanti).

Si tratta, da parte delle compagne e dei compagni della RdC, di un’omissione importante causata anche dal fatto che né dal punto di vista di Rifondazione Comunista, né da quello dei Comunisti Italiani è venuta alcuna riflessione circa la confluenza nella lista elettorale, almeno sotto l’aspetto di ciò che questo fatto potrebbe significare proprio sul terreno della rappresentanza politica dei comunisti.

Rifondazione Comunista e i Comunisti italiani hanno infatti approcciato la loro presenza nella lista di “Potere al Popolo” (cui sicuramente forniranno un contributo importante e generoso) nella stessa logica con la quale parteciparono alle precedenti esperienze dell’Arcobaleno, di Rivoluzione Civile, della lista Tsipras e – per quel che è riguardato in occasione delle elezioni regionali – di Rete a Sinistra.

Rifondazione Comunista e i Comunisti Italiani hanno cioè in passato incluso nel loro sistema di alleanze altri soggetti (in particolare quelli che oggi fanno parte di LeU, assieme ai fuoriusciti dal PD, rappresentanti della parte che contribuì in maniera decisiva a liquidare il PCI) senza che ciò assumesse un qualche significato rispetto al tema della ristrutturazione nella presenza dei comunisti in Italia e dell’insieme di una possibile sinistra d’alternativa.

Operazioni, quelle elettorali del passato, in maggioranza fallite e assunte dai soggetti citati soltanto in funzione di possibile (e non sempre realizzata) sopravvivenza istituzionale.

Oggi le caratteristiche che presenta la lista di “Potere al Popolo” sono sicuramente diverse (non a caso è piombato un giudizio di “semplificazione della complessità del pensiero comunista”) soprattutto su di un piano, quello della rappresentazione diretta delle contraddizioni sociali in un quadro di immediata opposizione alla ferocia nel sviluppo della gestione del ciclo capitalistico.

Caratteristiche che sicuramente stanno modificando il tipo di tradizionale presenza della sinistra alternativa almeno nella competizione elettorale e di cui va tenuto conto in una prospettiva di ricostruzione complessiva di ruolo, identità, presenza dei comunisti in Italia.

Il documento delle compagne e dei compagni di RdC in una qualche misura, sia pure in una forma ancora approssimativa, pone la questione al suo fondamento e necessita quindi di una risposta e di una apertura di dibattito: dibattito non facile da portare avanti in una fase contingente sicuramente vincolata dal fatto elettorale, ma comunque necessario.

Provo allora a sottolineare due punti sui quali, a mio giudizio, è necessario porre l’attenzione se si intende affrontare concretamente l’argomento.

Premesso, naturalmente, che è difficile individuare le elezioni come – appunto – il “luogo maieutico” del rinnovamento della rappresentanza politica dei comunisti, ma che pur tuttavia le elezioni stesse possono rappresentare una sede di incontro e di confronto di massa da utilizzare anche in questo senso.

Andando dunque al merito.

La necessità di rinnovamento nella presenza politica dei comunisti in Italia passa, a mio giudizio, attraverso un necessario riallineamento di soggettività ponendo all’ordine del giorno la costruzione di una nuova struttura organizzata: per dirla in soldoni un partito.

Partito la cui base di contenuti su cui esprimersi non potrà altro che essere rappresentata da una rielaborazione complessiva della “teoria delle fratture”.

La proposta che si sta tentando da tempo di avanzare per la formazione di una nuova soggettività politica della sinistra italiana ha necessità di essere motivata andando “oltre”, per quanto possibile, alle pur evidenti ragioni legate ai limiti intrinseci presenti nei soggetti esistenti, risultati incapaci di promuovere e realizzare quel livello di presenza politica che sarebbe risultata necessaria per fronteggiare l’emergenza della controffensiva dell’avversario e il mutamento complessivo di scenario verificatosi nell’insieme del sistema politico.

Queste ragioni, però, non sono sufficienti: occorre, infatti, andare alle radici del meccanismo dell’aggregazione politica, recuperandone insieme significati ed effetti aggiornandoli ai cambiamenti culturali, sociali, tecnologici, di costume verificatisi nel tempo.

Gli scienziati politici, al proposito, hanno sempre usato due prospettive definite l’una come primordiale e l’altra come strumentale.

La prospettiva primordiale ha visto nei partiti i rappresentanti naturali di persone che hanno interessi comuni.

Con il formarsi di gruppi intorno a queste fratture d’interesse i partiti politici sono emersi e si sono evoluti proprio per rappresentarle.

La visione strumentale della formazione dei partiti li considera, invece, squadre di persone interessate a ottenere cariche pubbliche: questo tipo di visione è stato così focalizzato sul ruolo delle élite e dei cosiddetti “imprenditori politici”.

Queste due prospettive della formazione dei partiti ricordano da vicino quelli che gli economisti chiamerebbero fattori della domanda e fattori dell’offerta.

La prospettiva primordiale dà per scontata la domanda sociale di rappresentazione di determinati interessi e spiega l’esistenza dei partiti politici come risposta a queste istanze.

Per contro, la prospettiva strumentale, sulla falsariga della “legge di Say” in economia, afferma che “l’offerta crea una sua domanda”.

Così come il marketing e la pubblicità possono influenzare i gusti dei consumatori, gli imprenditori politici (come abbiamo ben visto, in particolare, nell’ultima fase storica) contribuiscono a creare la domanda di determinate politiche e di determinate ideologie.

Come avviene per l’offerta e per la domanda, si scopre che capire le origini dei partiti politici significa riconoscere l’interazione tra forze primordiali e forze strumentali.

In larga misura sono state le domande sociali di rappresentazione a ispirare la formazione dei partiti politici.

Queste domande, tuttavia, sono state incanalate con modalità efficaci e significative da istituzioni politiche che hanno strutturato l’ambiente degli aspiranti imprenditori politici e degli elettori.

Si tratta quindi di analizzare com’è avvenuta, e come può avvenire nel futuro, l’interazione tra le forze sociali (primordiali) e le forze istituzionali (strumentali) per determinare le possibili identità delle formazioni politiche.

Prestando attenzione a un punto fondamentale: la funzione principale del partito politico rimane quella di rappresentare, formulare e promuovere gli interessi e le cause dei suoi appartenenti.

Con buona pace delle proclamazioni relative al “superamento dei concetti di destra e di sinistra” questi interessi e questa cause, al di là della retorica, sono sempre condivisi, per loro stessa natura, solo da una parte della popolazione complessiva.

Per questo motivo la classificazione “classica” delle diversità tra i partiti politici si è sempre realizzata usando quella che è stata definita “teoria delle fratture”, via via attualizzata nel tempo con il mutare delle condizioni culturali, sociali, tecnologiche.

Quella “teoria delle fratture” che si chiede oggi di aggiornare alla luce di quanto avvenuto negli ultimi tempi.

E’ evidente, in questo, che il riferimento non è soltanto semplicisticamente al sistema politico italiano, ma è a questo che dal nostro punto di vista ci rivolgiamo per inserire la nostra proposta di nuova soggettività politica della sinistra d’alternativa e di opposizione: questo intervento è dunque rivolto a promuovere questa precisa eventualità.

Il più importante aggiornamento nella “teoria delle fratture” è avvenuto nel 1967 per opera di Lipset e Rokkan, attraverso la divisione tra “fratture post-industriali” e la “frattura di classe” che aveva assunto assoluta rilevanza durante la rivoluzione industriale alla fine del XIX secolo.

Con la “frattura di classe” gli attori sociali si contrappongono in base a interessi economici divergenti provocando un conflitto di tipo “verticale” tra attori che si guadagnano da vivere con il proprio lavoro e attori che si guadagnano da vivere attraverso lo sfruttamento della proprietà o del capitale.

La definizione più netta e precisa della “frattura di classe” è sicuramente quella di Karl Marx contenuta nel testo “La povertà della filosofia” del 1847 “gli individui fanno parte di una classe in sé in virtù della relazione obiettiva che intrattengono con i mezzi di produzione”.

Si può dire che per gran parte del XX secolo la “frattura di classe” abbia rappresentato un punto di riferimento stabile nelle dinamiche dei diversi sistemi politici, anche oltre le differenziazioni teoriche e ideologiche e del formarsi di “ceti politici” di tipo professionale che, alla fine, hanno potuto perseguire obiettivi distinti da quelli della classe che intendevano rappresentare, come ben descritto da Michels nella sua elaborazione circa “la legge ferrea dell’oligarchia” e nelle analisi sulla politica come professione elaborate da Max Weber.

Era così emersa un’ipotesi di “congelamento” delle fratture esistenti anche per spiegare perché i partiti politici che dominavano le elezioni negli anni’60 del XX secolo erano gli stessi partiti che avevano dominato le elezioni decenni prima, negli anni’20 o ’30 ed egualmente per spiegare l’accumulo di consenso realizzato, comunque, dai partiti al potere nei regimi dell’Est europeo a cosiddetta “rivoluzione avvenuta” o di “socialismo reale”.

L’ipotesi del “congelamento” viene messa in discussione a partire dalla fine degli anni’80 con l’emergere di nuovi fenomeni sociali quali quelli dell’ambientalismo, del femminismo, dell’immigrazione al punto che Inglehart nel 1997 afferma come si sia di fronte a un mutamento di valori all’interno delle società industriali avanzate, passando da valori “materialisti” a valori “post materialisti”.

Da allora si è assistito ad un declino nella rilevanza delle fratture più tradizionali e all’emergere appunto di una non meglio definita frattura “post-materialista”, in un quadro di generale richiesta di espansione della libertà umana.

A questo punto è facile individuare, sotto questo profilo, le ragioni teoriche di ciò che è accaduto nell’ultimo decennio del secolo scorso rispetto allo sconvolgimento di sistemi politici consolidati, alla caduta dei regimi dell’Est europeo, al mutamento complessivo di paradigma nella natura dei partiti politici con il rovesciarsi del rapporto tra gli interessi dei ceti politici professionalizzati (governabilità, personalizzazione) e quelli dei rappresentati in nome delle “fratture sociali” persistenti.

Nel frattempo si è realizzato un altro rovesciamento “storico” sul piano della comunicazione di massa e del rapporto tra questo e il consumo individuale: una novità fondamentale che ha dato vita al fenomeno della cosiddetta “globalizzazione”, esplosa in particolare nella prima parte di questo decennio del XXI secolo.

Su questa base si sono verificati due fenomeni di portata assolutamente epocale: quello del passaggio da un’idea del collettivo sociale all’individualismo di massa (sulla base del quale la democrazia ha assunto le vesti della cosiddetta “democrazia del pubblico”) e dello smarrimento da parte dei partiti politici dell’idea della rappresentanza.

Due fenomeni che hanno determinato il formarsi di nuove élite e di nuovi intrecci tra economia e politica al fine di determinare livelli diversi da quelli della governabilità democratica novecentesca.

All’interno di questo quadro, sommariamente descritto, l’opposizione è stata affidata, in generale e a prescindere dalla diversa qualità e composizione dei sistemi politici, alla protesta movimentista, all’idea che le “moltitudini” potessero provocare con i loro sommovimenti un mutamento di equilibri, spostando, sul piano teorico, la realtà della “frattura di classe” verso una ricerca di richiesta di restituzione di non meglio precisati “beni comuni”, intesi soprattutto come valori ambientali e di disponibilità essenziali per la vita umana.

Mentre questo quadro sta mutando e la globalizzazione sembra essersi arrestata tornando d’imperio sulla scena del mondo il primato della geopolitica e la contrapposizione a livello planetario, non si è riusciti ad invertire la tendenza nel definire un aggiornamento teorico relativo proprio alla realtà delle “fratture” esistenti, sulla base del quale riaggregare primordialmente interessi specifici.

Sembrano tre le grandi questioni sul tappeto:

1) quello del rapporto tra consumo del pianeta in termini complessivi di suolo e di risorse e la prospettiva di vivibilità del genere umano, fenomeno che si sta verificando in un quadro di forte ripresa di una prospettiva di confronto bellico a livello globale;

2) quella della capacità cognitiva, in termini globali di formazione, informazione, capacità di trasmissione di notizie e cultura (e quindi di educazione globale) come sta accadendo sia nell’utilizzo delle nuove tecnologie, sia nel ritorno a pericolosissimi fondamentalismi posti non tanto e non solo sul piano bellico ma – addirittura – su quello “storico”, capaci ciò di informare un’intera epoca futura ottundendo la complessità delle contraddizioni;

3) quella della contraddizione di genere nel senso della mancata risoluzione del dato di modernità caratterizzata dalla supremazia dell’ordine da produrre unico, certo, patriarcale, autoritario. I movimenti femministi sono i primi a denunciare la falsità di questo ordine precostituito. Il potere patriarcale ha fondato la pretesa di universalità sull’esclusione di tutti quei soggetti “altri” che non corrispondono all’ideale maschio – etero – borghese – bianco: questo tema è stato sollevato ma ancora non solo non è stato posto in via di risoluzione ma neppure collocato nell’ordine dei cleavages da affrontare.

Sono questi i punti di riflessione sui quali soffermarsi: nel momento in cui appare necessario muoversi sul terreno di una nuova dimensione collettiva dell’agire politico da strutturare organizzativamente qui ed ora dove ci troviamo concretamente, come riuscire a far sì che il contesto di interessi che legano la classe che s’intende rappresentare a questo tipo di fenomeni appena descritti assuma una veste politica definita, sia sul piano teorico di riferimento sia rispetto ad un progetto di radicale trasformazione sociale e politica.

A questo punto appare indispensabile lavorare su di un aggiornamento della “teoria delle fratture” del livello di quello che appunto fu elaborato al momento della comparsa dell’insostituibile e comunque fondamentale “frattura di classe”.

“Frattura di classe” che, oggi, nell’esplicitarsi della ferocia della gestione del ciclo capitalistico, trova un suo rafforzamento e una sua capacità di inglobare l’insieme delle discriminazioni sociali (pensiamo al tema della differenza di genere) tale da renderla agente dell’insieme delle contraddizioni che “spaccano” la società moderna.

Non possiamo però arrenderci a questa ineluttabilità: abbiamo bisogno di fare opposizione subito ma prefigurando la prospettiva di una società alternativa, di una trasformazione radicale dello stato di cose presenti.

Per questo serve il nuovo soggetto: nuovo soggetto che non accetta la “filosofia della crisi” e il minoritarismo ma esprime, da subito, un nesso inscindibile tra autonomia ed egemonia.

Il secondo punto sul quale sviluppare il confronto riguarda il rapporto che è necessario mantenere, proprio sul piano dell’elaborazione teorica e dell’impatto culturale con la memoria storica del movimento operaio.

Da tempo il cono di visuale della politica, anzi della Politica, si è via via ridotto, sfidando al ribasso persino i concetti di politicismo, di “qui e ora”, di manicheismo spicciolo.

E’ tempo di tornare ad una visione complessiva, che tenga conto della storia della sinistra comunista, del contesto storico che si è andato sviluppando sia a livello nazionale che internazionale, delle gravi omissioni e rinunce ma anche delle opportunità che possiamo/dobbiamo cogliere.

Il senso profondo della crisi aleggia attorno a noi: per individuarlo basta guardarci attorno, svolgere inchieste empiriche con il metodo semplice dell’osservazione.

E’ sufficiente assistere al dramma della disoccupazione, ai suicidi per povertà, all’arretramento nelle condizioni materiali di vita nel quotidiano, all’impossibilità del rivolgersi al welfare.

Il senso della crisi sta nei negozi chiusi, negli opifici silenti, dove non echeggia più il rumore del lavoro, nel ritorno alla “guerra tra i poveri”, all’odio crescente tra gli apparentemente diversi senza che nessuno sia più capace di farli riconoscere tra loro eguali nel gran modo degli sfruttati.

Serge Halimi dalle colonne de “Le monde diplomatique” scrive di “Medioevo Europeo”. Sì appare proprio un “ritorno al Medioevo” quanto sta accadendo qui nell’Occidente super sviluppato.

Il senso profondo della crisi lo si avverte nell’assenza del conflitto: ci giunge lontano l’eco di “piazze ribelli” poi normalizzate dallo stridere lento sull’asfalto dei cingoli dei carri armati.

Un’eco lontana che non sappiamo raccogliere, rinchiusi qui nella fortezza di un’economia definita “comportamentale” che ci impone i modelli, gli stili di vita, i consumi senza i quali il nostro individualismo non trova altra strada che annegare nella disperazione.

Il senso profondo della crisi corrisponde all’assenza di un’alternativa, nell’omologazione delle culture, nel rendere omaggio all’eterna e intangibile “costituzione del potente”.

“Ribellarsi” potrebbe rappresentare l’imperativo d’obbligo: ma come?

Il senso profondo della crisi ci impone di riscoprire la politica: la politica, prima di tutto, intesa come ricerca dell’appartenenza alla propria condizione materiale, la politica come studio della situazione umana, dal singolo al collettivo, per cercare, proporre, imporre soluzioni, la politica come sede di rappresentanza degli interessi e dei conflitti.

Le grandi masse dei diseredati, colpiti dall’eterno ma mai eguale massacro capitalista sono chiamate a lottare per ritrovare la scienza, la volontà, la forza di organizzarsi per resistere e cambiare profondamente questa società: pietra su pietra come si scriveva un tempo.

La somma di queste due affermazioni ha prodotto, assieme a molte altre conseguenze, la cancellazione di persone, movimenti, concezioni senza le quali la comprensione del nostro passato è impossibile o fortemente ridotta.

La loro eliminazione o stravolgimento (come si sta tentando di fare, in Italia, con il pensiero gramsciano) sono stati parte costitutiva del programma dei vincitori, anche e spesso appartenenti alla loro stessa parte politica.

Il primo obiettivo da perseguire, nell’idea di aprire un filone di ricerca teorica su di una possibile identità comunista, finalizzata a funzionare da retroterra ideale e culturale per un’azione politica diretta e alla ricostituzione di un partito comunista collocato all’altezza delle contraddizioni dell’oggi, deve quindi essere di carattere storico e storiografico.

La tesi di fondo da portare avanti deve essere quella che le idee e le esperienze prese in esame non rivestano, in questa fase, un interesse unicamente storico, ma rappresentino punti di riferimento per il presente e il futuro.

Rispetto alla storia del ‘900 è necessario, inoltre, individuare figure, movimenti, esperienze non riconducibili soltanto alle forme politiche che sono risultate egemoni in quel secolo, ma ricercare anche nel campo dell’alternatività critica.

Una prima obiezione all’impostazione di questa breve nota la si potrebbe sollevare in merito al carattere eurocentrico del criterio adottato.

In effetti, al di fuori dell’Europa e dell’Occidente, la prospettiva e il concetto di comunismo sono apparsi, fin qui, molto diversi, a partire dalla centralità del colonialismo e della lotta contro di esso.

In tutti i contesti extraeuropei, la critica al capitalismo è stata inestricabilmente connessa all’anticolonialismo e all’antirazzismo, alla centralità del confronto tra civiltà e culture “altre” rispetto al modello occidentale.

La fase della marginalizzazione dell’Europa ha però coinciso, di fatto, con l’inaridirsi delle fonti dell’immaginazione politica e del pensiero critico, esaltando il fenomeno negativo della concentrazione sul presente assoluto dell’economia e del consumo.

Non a caso l’Europa spaccata a metà per effetto della guerra aveva saputo esprimere un ricco panorama di movimenti e figure riconducibili al “pensiero critico” mentre, al contrario, l’Europa unificata dopo il crollo dell’89 è apparsa fin qui effettivamente in preda allo smarrimento se non alla regressione, al punto che la democrazia sta perdendo di significato ed è messa sotto scacco da istanze post ideologiche che hanno assunto l’esistente come stato di natura prodotto dal movimento incontrollabile della tecnica.

Se è vero che le critiche al capitalismo, compresi i suoi approdi liberal-democratici, erano un tempo, lungo i decenni del ‘900, molto diffuse ma pochi sapevano sottrarsi alle sirene degli opposti totalitarismi, nei tempi più recenti e a “cose avvenute”, si sono moltiplicati i critici dei totalitarismi, in particolare e quasi esclusivamente a sinistra.

Critici dei totalitarismi partiti “da sinistra” e approdati, nella generalità dei casi, a un liberalismo che non maschera l’adesione incondizionata al capitalismo.

La tentazione della marginalità e del settarismo manicheo, da parte di questi soggetti “convertiti”, è risultata immediatamente evidente, con il rischio di riprodurre, fuori dal loro tempo, insensate e grottesche scomuniche dal sapore antico.

Dal nostro punto di vista dobbiamo combattere, primo di tutto, la tentazione ad abituarsi a vivere, o meglio a galleggiare, in un presente senza spessore, ovvero a rincorrere un futuro inafferrabile.

Si tratta di rendere evidente, non appena si esca dal sonno della ragione indotto artificialmente dai media, come le vecchie ed eterne questioni tornino d’attualità e i conti debbano essere fatti con il tentativo di tradurre in politica e nella realtà sociale, i valori della modernità.

Nella paralisi dell’azione politica, nella mancanza d’immaginazione e di prospettive o, detto in altri termini, nel consolidamento di un atteggiamento “astorico”, si finisce con l’esprimere sia la perdita del valore fondativo del rapporto con il passato sia la rinuncia a pensare al futuro come storia da costruire da parte di tutti e di ognuno.

Una vera e propria “sindrome del declino”, cui fa da controcanto il moto automatico dell’innovazione tecnologica e della circolazione del denaro.

Ci viene così restituita una diversa e più fondata formulazione della riflessione tutt’altro che superficiale sulla “fine della storia” come effetto indotto dalla fine del comunismo.

Si possono facilmente trovare riscontri empirici a tali considerazioni.

Basti pensare a com’è stata affrontata la crisi in atto sul piano economico – finanziario: ogni sforzo e aspettativa è stato indirizzato alla restaurazione degli stessi meccanismi che hanno prodotto la crisi; in alto e in basso la speranza è quella di tornare al più presto alla cosiddetta “normalità”, alla condizione ritenuta “naturale” di funzionamento della vita e dell’economia, sancendo l’intoccabilità di uno “stato di natura” che peraltro sta producendo ogni sorta di oggettivi disastri e risospingendo in una situazione di vera e propria “minorità sociale” milioni e milioni di persone, in tutto il mondo.

Qualsiasi ipotesi di cambiamento e di apertura sul futuro viene respinta, come se questo tragico esistente coincidesse con il migliore dei mondi possibili: l’unico, comunque, che ci sia dato e che non può essere modificato.

L’ideale non dovrà mai più mutare il “reale”.

Nondimeno si vive in preda a paure crescenti, la cui amministrazione e somministrazione assorbe gli sforzi della politica e dei media.

Il fatto che siano in gran parte paure immaginarie conferma e radicalizza la sindrome della paralisi, il venir meno della possibilità di esperienze fondative e innovative.

Da più parti, con evidente soddisfazione, si è sottolineato che il crollo del comunismo realizzato non ha veramente inaugurato, come nelle tesi di Fukuyama, Von Hajek, Huntington, l’epoca della fine della storia: peraltro, dobbiamo prenderne atto, non ha nemmeno aperto nuove prospettive.

Di sicuro non sono stati compiuti passi avanti significativi verso la costruzione di un assetto internazionale capace di rendere antiquata la guerra, semmai il contrario: essa viene perpetuata, come in Iraq, in Afghanistan, Africa, pur risultando manifestamente insensata e priva di efficacia.

I fenomeni determinanti nel mutamento della fase politica possono essere così riassunti:

a) la crisi (nel senso classico di “krisis”) dello “Stato – Nazione” (il filosofo tedesco Teubeuer scrive di “sistema aperto del nuovo mondo”);

b) la qualità nuova della situazione economico-finanziaria a livello globale e i suoi specifici risvolti europei, dei quali vanno disvelati alcuni punti – chiave (debito pubblico/debito privato, ecc.)

c) l’evidenziarsi di un vero e proprio mutamento di paradigma nell’“agire politico” con l’emergere di una sorta di ideologia della “politica tecnica”, che trova in un “caso Italiano” di segno ben diverso da quello che eravamo abituati storicamente a considerare, un rilevante punto di saldatura. Un mutamento di paradigma che trova nell’omologazione culturale tra i diversi soggetti presenti nel sistema politico italiano la sua espressione più coerente nel “governo delle larghe intese” la cui prospettiva appare essere quella, al di là delle forme concrete nelle quali si articolerà la contesa politica, della costruzione di un regime “a pensiero unico”. Per questo preciso motivo, la nostra prospettiva deve essere quella della costruzione di un largo campo dell’opposizione per l’alternativa per intervenire nella politica, nella società, nel dibattito culturale, nelle istituzioni.

Si tratta di fenomeni interconnessi che hanno dato origine a quello che risulta essere, dal nostro punto di vista, l’elemento centrale da affrontare nella fase: il recupero del nostro antico bagaglio, in un’idea di intreccio tra rinnovamento e recupero.

Sotto quest’aspetto:

1) è necessario partire da noi, dalla nostra autonomia, dalla capacità di far politica della sinistra comunista, in rapporto con i settori sociali, più avanzati in Italia e in Europa;

2) nella crisi che stiamo vivendo sta arrivando a compimento, infatti, un gigantesco processo storico d'integrazione di massa, nel segno della “rivoluzione passiva”;

3) per leggere questa crisi con gli occhiali giusti è necessario assumere tre avvertimenti “profetici” che hanno avuto il torto di essere stati lanciati con anticipo rispetto alle dinamiche della storia e aver cozzato “contro” l’impatto fornito dal processo di “rivoluzione avvenuta” in URSS: Hilferding e la finanziarizzazione dell’economia; Luxemburg socialismo e barbarie (un fenomeno che vediamo svilupparsi impetuosamente nell’attualità, proprio sotto i nostri occhi); Gramsci “americanismo e fordismo” (certo il fordismo è finito, ma è rimasto in piedi il concetto devastante di asservimento al ciclo produttivo nella forma di una nuova qualità di intreccio tra struttura e sovrastruttura);

4) il cuore dello scontro è ancora qui, nell’Occidente sviluppato, il cui meccanismo di produzione è ancora regolato dai rapporti di classe e dall’intreccio tra questi con lo sviluppo più avanzato delle contraddizioni post-materialiste (platea degli sfruttati che si allarga fino a comprendere settori dei produttori; i livelli di consumo acquisiti – qui sta il nodo dell’intreccio appena citato – impediscono di pensare di poter far leva su di un avanzamento della pauperizzazione che porterà, invece, a un ulteriore sfrangiamento e all’emergere di nuove contraddizioni sociali sempre più complicate da regolare (verrebbe alla mente il maoista “contraddizioni in seno al popolo”);

5) dobbiamo uscire dal pantano della crisi attraverso la politica. L’Italia è stata il luogo dove la presenza politica della sinistra comunista, attorno ai temi fin qui sommariamente descritti, aveva raggiunto lo sviluppo più avanzato sia sul piano teorico, sia su quello politico, rispetto soprattutto al tentativo di inveramento statuale di fraintendimento del marxismo;

6) l’esperienza della sinistra comunista è stata chiusa inopinatamente, almeno in Italia, proprio per il prevalere delle spinte all’integrazione di cui al punto 2 e al cedimento strutturale alle forme dell’americanizzazione della politica;

7) dalla chiusura della storia della sinistra comunista in Italia sono usciti soggetti dalla vocazione minoritaria del tutto interni al processo descritto ai punti 2 e 6. Rifondazione Comunista, messa su in fretta e furia per ragioni di posizionamento elettorale senza alcuna continuità di orientamento e di direzione politica con la sinistra del PCI che si era opposta alla liquidazione del partito, ha compiuto un vero e proprio punto di arretramento storico con la collocazione strumentalmente assunta di internità al “movimento” in occasione del G8 di Genova nel 2001: eguale atteggiamento è stato tenuto, cercando di conciliare il massimo della “autonomia del politico” (addirittura il governo) e il massimo di “autonomia del sociale” (i no-global) fino alle vicende dei cosiddetti “beni comuni”e alla sparizione dal livello istituzionale;

8) in questo quadro è necessario riprendere i temi di fondo della nostra elaborazione “storica” senza nessuna concessione di facciata a una presunta “modernità”: serve una lettura adeguata dello stato di cose in atto, una corretta analisi della crisi e delle prospettive del capitalismo;

9) debbono essere strettamente intrecciati due piani: la prospettiva di una trasformazione radicale dell’esistente e la proposta di una società alternativa e un programma politico raccolto attorno al tema del recupero, in Occidente, dei termini di ragionamento per la costruzione di un’alternativa di dimensione sovranazionale e internazionalista;

10) su queste basi la costruzione di un nuovo soggetto politico, senza aver paura di chiamarlo partito, da edificarsi, come è già stato richiamato, attraverso una strategia di tipo “consiliare” senza concessioni al con un’idea precisa di soggetto di acculturazione di massa e di creazione di un nuovo quadro dirigente “diffuso”.

NELLA SOSTANZA DELLA PROPOSTA POLITICA:

1) emerge, in Italia e fuori d’Italia, l’esigenza di lavorare sia sul terreno teorico sia su quello immediatamente politico, per la ricostruzione di una soggettività di sinistra comunista, anticapitalista e di opposizione per l’alternativa collegata a precise istanze che derivano dalla nostra storia, all’identificazione nell’attualità di precisi filoni culturali di riferimento, alla progettazione di adeguate iniziative politiche sia al riguardo della struttura del soggetto sia sul piano progettuale – programmatico. La qualità stessa della gestione capitalistica della crisi (che abbiamo tante volte analizzata come orientata nel senso complessivo della “ricollocazione di classe” ed espressione di una “nuova repressione”) impone un discorso di questo tipo;

2) per quel che riguarda il “caso italiano” (dizione da rivalutare: in senso opposto però al significato che aveva assunto tra gli anni’60 – ’70) sono almeno tre i punti sui quali soffermarci prioritariamente: il primo riguarda l’omologazione culturale tra le forze maggioritarie del sistema politico, sulla base del quale si sta costruendo un vero e proprio “regime” la cui costruzione non è stata arrestata dal voto contrario alla deforma costituzionale pur espresso dalla grande maggioranza dell’elettorato il 4 dicembre 2016; il secondo riguarda la degenerazione nella qualità della democrazia italiana, sia rispetto al tema europeo, sia rispetto alla logica della riduzione del rapporto tra politica e società in nome dell’eccesso di domanda. Il terzo riguarda la necessità di affrontare il tema della strutturazione politica nell’area della sinistra alternativa. A questo proposito movimentismo e rivendicazionismo che appaiono essere, alla fine, l’altra faccia della medaglia (o forse la complementarietà degli elementi, davvero rozzi, che hanno portato al successo del movimento 5 stelle, oggi impegnato in una pura e semplice scalata al potere in quanto tale) debbono essere affrontati con rigore sulla base di un’analisi delle nuove dimensioni di classe e con la precisione dei riferimenti teorici e politici.

Il solo punto di partenza possibile al fine d'inquadrare l’obiettivo di una nuova rappresentanza politica dei comunisti risiede nell’espressione piena di un’identità dalla quale è possibile far discendere una visione di egemonia politica.

La visione dell’egemonia che si intende qui richiamare, concludendo questo lavoro, è interamente quella gramsciana: egemonia per Gramsci non è soltanto forza mista a consenso, ma è la capacità di individuare le forme che devono regolare i comportamenti delle diverse soggettività politiche a partire dalla comprensione piena della loro funzione, delle loro caratteristiche morali, delle loro capacità progettuali.

Una visione opposta a quella della politica intesa come potenza, che individua la direzione che la classe operaia è in grado di esercitare sulla società.

Non sono parole vuote o antiche: rappresentano ancora oggi, nel senso dell’indicazione di un filone, di una precisa direttrice di marcia, l’intendimento al riguardo del quale è necessario muoverci, a partire dall’opposizione a questa società per arrivare a trasformare davvero “lo stato di cose presenti”.

Fonte

Nessun commento:

Posta un commento