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02/02/2018

Lotte sociali in Tunisia, dove il debito è un'arma

di Pino Dragoni - Il Manifesto

«Il debito in Tunisia è stato usato come arma contro-rivoluzionaria per sbarrare la strada alle lotte popolari»: ne è convinto Fathi Chamkhi, attivista e professore all’università di Tunisi eletto in parlamento nel 2014 nelle fila del Fronte popolare. Lo abbiamo incontrato nella cornice del convegno internazionale «La questione del debito globale», organizzato a Pescara il 27 gennaio dal Cadtm Italia (Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi) insieme all’arcidiocesi di Pescara-Penne.

«DOPO LA RIVOLUZIONE del 2010-2011 – ci dice Chamkhi – l’Europa non ha saputo fare niente di meglio che riproporre la stessa ricetta economica di sempre». Per paura che la rivolta mettesse in discussione il modello neoliberista, nel maggio 2011 le potenze mondiali del G8, insieme a Fondo monetario, Banca mondiale, Turchia e paesi del Golfo, hanno offerto degli enormi prestiti a Tunisia, Marocco, Giordania ed Egitto. In cambio hanno imposto riforme che aprissero ai mercati e alle liberalizzazioni. Al punto che «la sovranità è di fatto passata nelle mani della commissione Ue e delle istituzioni internazionali».

Oggi lo stato tunisino si ritrova con un debito più che triplicato rispetto al 2010 (passato da 25 a 77 miliardi di dinari tunisini), e il 34% delle entrate fiscali vanno a ripagare i prestiti e gli interessi. La Tunisia oggi è un paese «quasi fallito», che si è indebitato enormemente senza riuscire a migliorare la situazione economica e ora fa fatica a ripagare i prestiti e a ottenerne di nuovi.

IL TEMA DEL DEBITO è diventato ormai centrale nel dibattito pubblico grazie anche al lavoro di varie organizzazioni come Attac, Raid, e Cadtm. Dalla militanza in un’organizzazione comunista clandestina negli anni ’70 all’approdo al movimento altermondialista negli anni ’90, fino al parlamento, la proposta di Chamkhi per una legge sull’audit del debito nel 2016 ha subito raccolto il consenso di un terzo dei membri del parlamento (ma non degli islamisti di Ennahda). L’audit prevede un esame pubblico dei debiti contratti dallo stato per decidere se e quanti di questi sono annullabili in quanto contratti in violazione dei principi democratici, e contro i diritti civili, politici, economici e sociali della popolazione.

E mentre la cosiddetta «Legge di Riconciliazione» assolve i crimini e la corruzione del regime di Ben Ali per permettere alle vecchie élite di tornare in sella, sono più di mille i giovani arrestati nel corso delle proteste che hanno scosso il paese dall’inizio di gennaio. Le sommosse delle ultime settimane sono direttamente legate all’intervento dell’Europa e del Fondo monetario, che per ottenere la restituzione dei prestiti ora chiedono il conto attraverso un piano di austerità e aumenti delle tasse.

Il vero contenuto rivoluzionario sta nelle masse di giovani che oggi prendono rapidamente coscienza attraverso le lotte. Un’esperienza originale e promettente

IL PAESE è stato attraversato negli ultimi anni da ondate continue di protesta sociale, con migliaia di manifestazioni e scioperi ogni anno. «La novità delle proteste recenti – riflette Chamkhi – è la spettacolarità della violenza». A scendere in strada sono i giovani che non hanno ottenuto nessun beneficio dalla rivoluzione del 2011. Sono i disoccupati, i giovani dei quartieri popolari, gli esclusi. Esclusi non solo dal sistema economico e sociale, ma anche dalle tradizionali organizzazioni dei lavoratori.

IL GRANDE SINDACATO UGTT, che ha avuto un ruolo fondamentale nella rivoluzione e gode di enorme legittimità tra i lavoratori, ha saputo in questi anni far avanzare gli interessi dei salariati ma «non ha mai preso in considerazione i giovani disoccupati». E il blocco dell’emigrazione verso l’Europa non ha fatto altro che peggiorare frustrazione e rabbia, tappando quella che era una valvola di sfogo del malessere sociale.

IL PARADOSSO è quello di una situazione in cui esistono «le migliori condizioni possibili per una rivoluzione»: le destre spaccate, un governo in calo vertiginoso di consensi, povertà, disoccupazione, ingiustizia, ma con una sinistra «debole» e incapace di prendere l’iniziativa. Il Fronte popolare, nato nel 2012 come coalizione di diverse forze di sinistra, oggi ha 15 eletti in parlamento, il 7% dell’assemblea, ma «una limitata capacità di mobilitazione» nelle strade. «Il vero contenuto rivoluzionario», dice Chamkhi, è espresso dalle «masse di giovani che prendono rapidamente coscienza attraverso le lotte. Un’esperienza originale e promettente» che la sinistra deve farsi carico di interpretare. «È la nostra grande sfida»: uscire dalla retorica per «avere un impatto sulla gente vera, sui lavoratori, concentrarci su battaglie concrete per ottenere la fiducia delle classi popolari».

Ma occorre uno sforzo, insiste Chamki. «Essere rivoluzionari significa credere che il cambiamento è possibile. Ma dipende da noi, da come ci organizziamo, come agiamo, come facciamo politica».

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