di Pino Dragoni - Il Manifesto
«Il debito in Tunisia è stato
usato come arma contro-rivoluzionaria per sbarrare la strada alle lotte
popolari»: ne è convinto Fathi Chamkhi, attivista e professore
all’università di Tunisi eletto in parlamento nel 2014 nelle fila del
Fronte popolare. Lo abbiamo incontrato nella cornice del convegno
internazionale «La questione del debito globale», organizzato a Pescara
il 27 gennaio dal Cadtm Italia (Comitato per l’abolizione dei debiti
illegittimi) insieme all’arcidiocesi di Pescara-Penne.
«DOPO LA RIVOLUZIONE del 2010-2011 – ci dice Chamkhi
– l’Europa non ha saputo fare niente di meglio che riproporre la stessa
ricetta economica di sempre». Per paura che la rivolta mettesse in
discussione il modello neoliberista, nel maggio 2011 le potenze mondiali
del G8, insieme a Fondo monetario, Banca mondiale, Turchia e paesi del
Golfo, hanno offerto degli enormi prestiti a Tunisia, Marocco, Giordania
ed Egitto. In cambio hanno imposto riforme che aprissero ai mercati e
alle liberalizzazioni. Al punto che «la sovranità è di fatto passata
nelle mani della commissione Ue e delle istituzioni internazionali».
Oggi lo stato tunisino si ritrova con un debito più che triplicato
rispetto al 2010 (passato da 25 a 77 miliardi di dinari tunisini), e il
34% delle entrate fiscali vanno a ripagare i prestiti e gli interessi.
La Tunisia oggi è un paese «quasi fallito», che si è indebitato
enormemente senza riuscire a migliorare la situazione economica e ora fa
fatica a ripagare i prestiti e a ottenerne di nuovi.
IL TEMA DEL DEBITO è diventato ormai centrale nel
dibattito pubblico grazie anche al lavoro di varie organizzazioni come
Attac, Raid, e Cadtm. Dalla militanza in un’organizzazione comunista
clandestina negli anni ’70 all’approdo al movimento altermondialista
negli anni ’90, fino al parlamento, la proposta di Chamkhi per una legge
sull’audit del debito nel 2016 ha subito raccolto il consenso di un
terzo dei membri del parlamento (ma non degli islamisti di Ennahda).
L’audit prevede un esame pubblico dei debiti contratti dallo stato per
decidere se e quanti di questi sono annullabili in quanto contratti in
violazione dei principi democratici, e contro i diritti civili,
politici, economici e sociali della popolazione.
E mentre la cosiddetta «Legge di Riconciliazione» assolve i crimini e
la corruzione del regime di Ben Ali per permettere alle vecchie élite
di tornare in sella, sono più di mille i giovani arrestati nel corso
delle proteste che hanno scosso il paese dall’inizio di gennaio. Le
sommosse delle ultime settimane sono direttamente legate all’intervento
dell’Europa e del Fondo monetario, che per ottenere la restituzione dei
prestiti ora chiedono il conto attraverso un piano di austerità e
aumenti delle tasse.
Il vero contenuto rivoluzionario sta nelle masse di
giovani che oggi prendono rapidamente coscienza attraverso le lotte.
Un’esperienza originale e promettente
IL PAESE è stato attraversato negli ultimi anni da
ondate continue di protesta sociale, con migliaia di manifestazioni e
scioperi ogni anno. «La novità delle proteste recenti – riflette Chamkhi
– è la spettacolarità della violenza». A scendere in strada sono i
giovani che non hanno ottenuto nessun beneficio dalla rivoluzione del
2011. Sono i disoccupati, i giovani dei quartieri popolari, gli esclusi.
Esclusi non solo dal sistema economico e sociale, ma anche dalle
tradizionali organizzazioni dei lavoratori.
IL GRANDE SINDACATO UGTT, che ha avuto un ruolo
fondamentale nella rivoluzione e gode di enorme legittimità tra i
lavoratori, ha saputo in questi anni far avanzare gli interessi dei
salariati ma «non ha mai preso in considerazione i giovani disoccupati».
E il blocco dell’emigrazione verso l’Europa non ha fatto altro che
peggiorare frustrazione e rabbia, tappando quella che era una valvola di
sfogo del malessere sociale.
IL PARADOSSO è quello di una situazione in cui
esistono «le migliori condizioni possibili per una rivoluzione»: le
destre spaccate, un governo in calo vertiginoso di consensi, povertà,
disoccupazione, ingiustizia, ma con una sinistra «debole» e incapace di
prendere l’iniziativa. Il Fronte popolare, nato nel 2012 come coalizione
di diverse forze di sinistra, oggi ha 15 eletti in parlamento, il 7%
dell’assemblea, ma «una limitata capacità di mobilitazione» nelle
strade. «Il vero contenuto rivoluzionario», dice Chamkhi, è espresso
dalle «masse di giovani che prendono rapidamente coscienza attraverso le
lotte. Un’esperienza originale e promettente» che la sinistra deve
farsi carico di interpretare. «È la nostra grande sfida»: uscire dalla
retorica per «avere un impatto sulla gente vera, sui lavoratori,
concentrarci su battaglie concrete per ottenere la fiducia delle classi
popolari».
Ma occorre uno sforzo, insiste Chamki. «Essere rivoluzionari
significa credere che il cambiamento è possibile. Ma dipende da noi, da
come ci organizziamo, come agiamo, come facciamo politica».
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento