di Marc Tibaldi
Andrea Olivieri, Qualcosa di oscuro, senza pregio, Edizioni Alegre, Roma, 2019, pp. 429, € 18,00.
Dalla Mitteleuropa all’America, dall’impero austroungarico
all’imperialismo americano, dalle lotte di classe e dagli ideali
internazionalisti alla Guerra fredda, dalla Prima alla Seconda guerra
mondiale, dalla resistenza al revisionismo storico, e ancora dai Balcani
all’utopia, e oltre. Il libro di Andrea Olivieri affronta questa
prospettiva da vertigine spazio-temporale in maniera innovativa dal
punto di vista della scrittura, della documentazione, dell’invenzione,
ma è importante anche per le suggestioni e gli stimoli che ci regala e
per gli spiragli teorico-politici che apre. Gli uomini non hanno radici,
basta guardarsi sotto ai piedi per verificarlo. Le migrazioni sono
state da sempre caratterizzate dal desiderio di conoscere e dagli
ideali, non soltanto dalle necessità economiche. È uno dei dati che
emergono dal romanzo, i cui protagonisti, nel corso del ‘900, viaggiano
all’interno dell’Europa e tra Europa e America. Il romanzo racconta le
vite di Louis Adamic e di Albano Olivieri. Adamic, che a quattordici
anni emigrò negli Stati Uniti dalla Slovenia, allora facente parte
dell’Austria-Ungheria, è stato uno scrittore statunitense, autore di
libri importanti, tra cui: Dynamite. The Story of Class Violence in America
(l’ultima edizione italiana è edita da Bepress, 2010), padre non
riconosciuto del New Journalism, cantore delle comunità meticce dei
nuovi proletari arrivati da tutto il mondo, agitatore politico e poi
sostenitore della Iugoslavia, che nella sua vita incrocia intellettuali,
tra cui John Fante, Upton Sinclair, Carey McWilliams, politici come il
maresciallo Tito, Gaetano Salvemini, Edward Kardelj e oscuri
rivoluzionari che non si sono mai piegati. Albano Olivieri, nonno
dell’autore, militante comunista, internazionalista e antinazionalista.
Due vite che attraversano il ‘900. A volte queste vite si sfiorano,
attraversano gli stessi luoghi, ma nel libro, dall’inizio alla fine, si
incrociano anche a quella dell’autore, attivista politico nel movimento
altermondialista. Un intreccio interessantissimo perché fa emergere
direttamente e indirettamente la necessità di reinterpretare il mondo e
agire nel mondo conservando il “cuore” delle idee di Louis e Albano, la
giustizia sociale e l’antinazionalismo. La scrittura si appropria
volutamente dello stile di Adamic. Capitoli densi di documentazione
storica e squarci di narrazione emozionante. Il romanzo include anche
elementi di fiction, che il rigore storico rende verosimili. Storie che
si intessono a cavallo tra l’una e l’altra sponda dell’Oceano Atlantico,
tra i mostri del ventre d’Europa e l’American Dream.
L’antinazionalismo che attraversa questo libro, fa presagire qualcosa
di diverso, di più avanzato, dell’internazionalismo. Oggi,
l’internazionalismo intrappolato ancora nel tenere assieme le “nazioni”
in una fratellanza di nazioni, quando è sotto gli occhi di tutti la
decadenza della forma stato-nazione e la necessità di un superamento
anche del modello multiculturale federativo più avanzato con un modello
trans-culturale. Olivieri, con un mosaico di tessere, decostruisce
identità e confini, intercetta molti dei frammenti che durante il Secolo
breve cercano di ridefinire un’umanità nuova fuori dalle pastoie
identitarie. Lo fa raccontando le lotte del nonno Albano, nel suo
scavalcare i confini di stati e lingue della zona dell’Alto Adriatico,
operaio nei cantieri di Monfalcone e Trieste, rivoluzionario che – dopo
la resistenza al nazifascismo condotta assieme ai compagni sloveni – a
causa della repressione che dà continuità al fascismo, sceglie di
trasferirsi in Iugoslavia, alla ricerca di una rivoluzione che si
basasse sull’eguaglianza di classe e non sulla diversità “nazionale”,
contro le esasperazioni nazionalistiche. Lo fa con altri duemila operai
di Monfalcone, ma altri li seguiranno dal Friuli e dall’Italia.
Rimarranno poi ostaggio delle divisioni tra Tito e Stalin, tra idealità e
incomprensioni. Louis Adamic invece, negli Stati Uniti, cerca di uscire
dalle ossessioni identitarie ispirandosi alle esperienze di vita e di
lotta degli wobblies, i militanti dell’Industrial Workers of the World.
Sullo sfondo il capitalismo appare come macchina non perfetta, in cui
i padroni non riescono a gestire completamente i disperati che creano,
non hanno idea di chi siano veramente e di come producano conflitto e
nuove forme di vita. Quegli operai che sabotano il lavoro, come i
militanti dell’IWW, sindacato rivoluzionario che tra i propri
presupposti aveva il superamento delle divisioni nazionali dei
lavoratori, ben consapevole che l’organizzazione su base comunitaria
nazionale non fosse alla lunga efficace. È questo l’aspetto che si
proietta fino ai nostri giorni: è possibile far entrare in crisi il
capitalismo proprio perché non riesce a controllare le moltitudini,
quando queste creano alleanze che spezzano le ossessioni identitarie,
per lasciar parlare la lingua della condivisione. E non è un caso che
esista un filo che lega gli Stati Uniti alla città portuale di Trieste,
un filo individuato già da Marx (come Olivieri ci segnala), che in un
suo articolo paragonava la situazione socioeconomica e culturale di
Trieste al melting pot americano. A proposito di Trieste, di Slovenia e
Iugoslavia, di Carso e Istria... il libro di Olivieri è anche un efficace
vademecum, con essenziale bibliografia, per comprendere le questioni dei
confini della zona dell’Alto Adriatico (nazionalismi, resistenza,
questione-foibe, repressioni, re-invenzione della storia) e le
responsabilità del nazionalismo italiano e del fascismo.
Pochi sanno e
pochi ricordano che “il razzismo fascista si era svelato anche prima
di quello nazionalsocialista. Le leggi razziali in Italia sarebbero
state annunciate in piazza Unità d’Italia a Trieste nel 1938, ma
risaliva a diciotto anni prima il discorso che il fondatore delle
camicie nere aveva tenuto a Pola nel settembre del 1920, due anni prima
che il fascismo salisse al potere, quando Hitler era ancora un oscuro
militante nazionalista. ‘Di fronte a una razza come la slava, inferiore e
barbara, non si deve servire la politica che dà lo zuccherino, ma
quella del bastone’, aveva detto il futuro duce, certo che ‘si possano
più facilmente sacrificare cinquecentomila slavi barbari a cinquantamila
italiani’”. Ciò che il fascismo fece in vent’anni nelle terre di
confine fu devastante, volle creare confini e differenze dove confini e
differenze sono impossibili da tracciare perché le culture e le lingue
sono spesso compresenti, si sovrappongono, si attraversano, e ancor più
gli esseri umani e i loro affetti sono dimostrazione di un intreccio
felice, che solo la violenza fisica e la discriminazione hanno distorto.
Come detto, il libro di Olivieri è preciso nella documentazione
bibliografica, ci limitiamo ad aggiungere un testo interessantissimo
uscito recentemente, si tratta di Scritture di Paolo Petricig,
una raccolta di saggi (edita dal Centro studi Nediža, 2018,
www.nediza.org) che dimostra con quanto fervore e livore razzista i
nazionalisti e i fascisti si siano impegnati nella repressione in quelle
terre (nel caso di questo libro soprattutto contro gli sloveni delle
Valli del Natisone).
È come se Olivieri ci dicesse che l’opera e la vita di Louis e di Albano si devono leggere nella prospettiva indicata da Piccolo elogio della non appartenenza (Edizioni
Nonostante, 2013) stupendo e raffinato libello del professore triestino
Michele Zacchigna, che alterna disincanto e odio verso qualsiasi idea
di appartenenza, nazionale e non solo. Come sarà possibile definire un
nuovo internazionalismo che non ha più come referente le nazioni e che
quindi non si chiami più inter-nazionalismo? Forse utilizzando quel
modello transculturale che “nasce negli interstizi di ciascuna società,
nonostante le istituzioni e gli Stati lo ostacolino, e grazie a incontri
e condivisioni. La transculturalità deriva dalla presa d’atto che non
vi sono culture che si autorigenerano all’infinito. Ogni cultura è tesa
alla trasformazione continua e più o meno rapida, tanto più nella
società contemporanea in cui in ciascuna cultura d’appartenenza vi sono
stili di vita, costumi, abitudini, riti simili in tutto il pianeta.
Ciascuna persona che vive nella contemporaneità è portatrice di diverse
culture che tendono a relazionarsi tra di loro in modo inestricabile.
Pensarsi bloccato in una cultura è possibile solo con uno sforzo
ideologico al di fuori dei dati di realtà. Ciascun essere umano
contemporaneo, tanto più se migrante, vive in un continuo transito nel
quale convivono più culture. Vi è una doppia transculturalità, quella
propria di ciascun cittadino del pianeta e l’altra che riguarda ogni
cultura. Ciò che viene definito come culture d’origine altro non è che
feticcio innalzato da comunità identitarie a difesa di rendite di
posizione. Nel modello transculturale ogni differenza non allude a
privilegi né ad alcuna discriminazione. La transcultura propone che gli
uomini godano delle medesime possibilità e scelgano, privi di vincoli
comunitari, dove, come e quando vivere. La transculturalità non può
tollerare che si vieti la circolazione delle persone.” (dal mio Metix babel felix. Meticciamento, passing, divenire e conflitto,
KappaVu, 2007). È dall’ibridazione desiderante che si produrrà la
diversità del futuro e non dalla conservazione di presunte identità
originarie a difesa dell’omologazione. La ricerca di Judith Butler, a
proposito della costruzione identitaria dei generi, sposta queste
considerazioni, direttamente e indirettamente, in ogni ambito
relazionale e sociale. Le parole d’ordine chiave sono: interazione e
cooperazione. Le gabbie possono delimitare uno spazio, ma l’aria
circola, contamina e ibrida. Passare, per esempio, dall’ordine
determinato della madrelingua, che porta con sé sempre il legame al
sangue e suolo di infausta memoria, al disordine creativo e liberatorio
delle lingue-figlie, che nascono dal desiderio di condivisione. È un
compito quello che ci sta dinnanzi, non un’eredità. Meglio ancora:
un’esperienza che può sorgere solo a partire da un “esilio” o da un
integrale spaesamento planetario. Come scrive Paolo Virno in Orrore familiare (in Esercizi di esodo, Ombrecorte,
2002) “bisogna intendere l’abitudine, cioè l’ethos, come ciò che sta
agli antipodi delle ‘radici’, e si lascia intravvedere soltanto quando
di esse, finalmente, è scomparsa ogni traccia. Ma cos’è, in ultimo,
questa ‘abitualità’ non originaria, non presupposta, di secondo grado?
Grossomodo e pressappoco, all’incirca e più o meno, la sua possibilità
fa tutt’uno con l’attualità sempre differita di ciò che, da duecento
anni, è stato designato con il nome di comunismo”. Che poi,
dopo oltre un secolo, sia ancora necessario definire e ri-definire
questo concetto incessantemente è ancora un’altra storia. “Io spero
ancor sempre in una trasformazione, in una svolta. Non saranno dei
sistemi proposti in ricambio a produrla, e la rivoluzione – quella allo
stesso tempo sociale e antiautoritaria – è pensabile solo partendo da
quella trasformazione”, rispondeva, nel 1968, Paul Celan a un’indagine
di Der Spiegel (ora in La verità della poesia, Einaudi, 2008). Oppure come sostiene Giorgio Agamben in La comunità che viene (Einaudi,
1997): “fare comunità senza più presupposti né condizioni di
appartenenza, esodo irrevocabile dallo Stato, costruzione di un corpo
comunicabile”. Oppure come scrive lo stesso Olivieri: “Sentivo in
quei pomeriggi, rubando con gli occhi e con le orecchie quel che
capitava, che dietro ai saluti, le battute e le discussioni a cui
assistevo, insomma dietro alla vera vita della comunità di cui Albano
faceva parte e con cui aveva combattuto, stava una sublime struttura di
sentimenti, il cui riverbero poteva diffondersi persino alla mia
insignificante persona”. Proprio così Olivieri conclude il romanzo,
in maniera emozionata ed emozionante, con una scrittura che, senza
nessuna retorica, porta temi e personaggi sul presente. L’ultimo
capitolo non lo sveliamo, ma il capitolo precedente termina con il
racconto del funerale di Albano, a qualche mese di distanza dalle grandi
manifestazioni di Genova, nel 2001, e con il ricordo dei suoi giri con
il nonno, durante l’infanzia, tra osterie e sedi partigiane: “dietro
alla vera vita della comunità di cui Albano faceva parte e con cui aveva combattuto, stava una sublime struttura di sentimenti”, appunto.
Sì, ci sentiamo di condividere pienamente il parere di Wu Ming 1: “Una cosa oscura, senza pregio è un libro che lascerà un segno, è un’opera luminosa e dai molti pregi”. Lascerà il segno perché parla al futuro.
Note a margine.
#1. È auspicabile che le ricerche storiche che Olivieri ha dedicato a
Louis Adamic possano trovare continuità editoriale con la traduzione
delle opere più significative dell’autore di Dynamite, e anche
della biografia (segnalata nei “Titoli di coda” da Olivieri) scritta da
John P. Enyeart, di prossima uscita negli Usa, che probabilmente avrà
come titolo Death to Fascism. Louis Adamic’s Fight for Democracy.
A quanto scrive Olivieri, che ha conosciuto Enyeart, questa biografia
si basa proprio sulla capacità di Adamic di “saper individuare il
fascismo anche laddove questo non viene chiamato con il suo nome” e dal
suo intento di rivoluzionare il pluralismo culturale in senso
antinazionalistico.
#2. Credo che Una cosa oscura, senza pregio ci regali anche
suggestioni extra-testo, in merito alla ricerca letteraria. Che questo
“oggetto narrativo” possa rientrare nel filone narrativo del New Italian
Epic teorizzato dai Wu Ming è molto probabile. Sarebbe interessante
chiederlo a Wu Ming 1 che cura la collana in cui romanzo di Olivieri è
stato pubblicato. Sono passati più di dieci anni dalla conclusione della
definizione di questa “nebulosa” letteraria, più di venti dai suoi
inizi. Oggi – grazie all’espandersi della poliglossia, all’importanza
delle traduzioni, e grazie al permeare dei media elettronici – forse non
si può più parlare di letteratura italiana come se ne parlava un secolo
fa, ma nemmeno vent’anni fa. Ormai i riferimenti – pur continuando a
scrivere in una determinata lingua – sono pluriculturali e gli obiettivi
sono transculturali. Ora, il romanzo di Olivieri racconta di fatti che
si svolgono in quasi tutto il pianeta, che si nutrono di lingue e
culture diverse. È scritto da un luogo di confine e contaminazione e –
come sappiamo dal Kafka. Per una letteratura minore e da Mille piani
di Deleuze e Guattari – è proprio in questi luoghi che le lingue si
tendono, mutano, producono nuove sintassi, de-tassi, a-tassi. Praga di
Kafka, Mitteleuropa di Canetti, Galizia di Sacher Masoch, Dublino-Parigi
di Beckett e Joyce, ma per quest’ultimo anche la Trieste, la stessa
città di Svevo. Ma è anche vero che questa condizione (quella della
contaminazione) è divenuta comune in tutto il pianeta. Alcuni hanno
proposto di definirla condizione postcoloniale. In ogni caso questo
spaesamento, questa vertigine, queste ibridazioni costituiranno un
tassello di una poetica, epica o meno che sia.
(grazie a Edj Comelli per la lettura incrociata)
Fonte
Le tematiche trattate mi paiono assolutamente interessanti e affrontate con un rigore sapientemente mescolato alla suggestività. Penso, tuttavia, che risultino troppo "ideologiche" e comunque ancorate ad un passato che seppur ancora prossimo, in realtà è ormai remoto.
Non credo sia un caso che un testo pervaso da concezioni altermondialiste, chiuda il proprio percorso in prossimità dell'estate genovese del 2001.
Purtroppo e lo scrivo con rammarico, una ampissima fetta di movimento non è ancora riuscita ad affrancarsi dai postumi nefasti di quella tragica esperienze che a mio avviso tenta di aggiornare all'oggi senza rendersi conto che gli afflati sociali, ma anche teorici del mondo sono profondamente cambiati.
Nessun commento:
Posta un commento