Nel corso dell’ultimo mese a Roma si sono
avvicendati tre episodi raccapriccianti di tentativo di ‘caccia allo
straniero’ nell’ambito dei procedimenti di assegnazione delle case
popolari. L’ultimo, più mediaticamente esposto, è stato quello del
quartiere della periferia est di Casal Bruciato dove l’assegnazione di
una casa popolare ad una famiglia di etnia rom e nazionalità bosniaca ha
scatenato un indegno assedio organizzato dai fascisti di CasaPound che
hanno tentato, peraltro con scarso successo, di impedire l’accesso all’abitazione della suddetta famiglia,
strumentalizzando il malcontento dei residenti che, in quella periferia
come in molte altre marginalità romane, versano in condizioni di
pressoché totale abbandono.
Questi orribili episodi, oltre a dover
mantenere sempre altissima l’attenzione sociale sul rischio di rigurgiti
reazionari da parte di gruppi organizzati di stampo neofascista, pronti a
cavalcare le condizioni di immiserimento delle masse e proletarizzazione
dei ceti medi, devono far riflettere anche e soprattutto sulle
condizioni sociali da cui questa spaventosa brodaglia reazionaria trae
linfa: le condizioni di territori flagellati dalle politiche di austerità
che da molti anni devastano il già fragilissimo tessuto sociale delle
periferie. Emblematico il caso di Roma, città ricattata da anni di procedure di rientro dal debito
accumulato ed afflitta, oltre che da propri problemi di gestione
atavici, da un decennio di durissime politiche incentrate su tagli
draconiani dei servizi e aumento delle imposte locali.
In questo contesto, le sceneggiate della
melma fascista sono il contrappunto di una partita che si gioca su altri
tavoli, non troppo lontani da Casal Bruciato: proprio nelle ultime
settimane, a causa di scaramucce all’interno della maggioranza
gialloverde, si è infatti tornato a parlare del debito di Roma. Il luogo del contendere è stato il ‘Decreto Crescita’ entro cui si situano anche le misure relative al taglio del debito di Roma Capitale.
In origine, infatti, erano circolate bozze di decreto nel quale si
prevedeva che lo Stato si accollasse una quota consistente di quella
parte del debito di Roma che nel 2008 era confluita in un’apposita
gestione commissariale. In seguito alle proteste della Lega e di Salvini,
il quale aveva lamentato una disparità di trattamento tra Roma e gli
altri comuni italiani, la norma è stata poi trasformata in ben altro: si
apre, infatti, la strada alla fine della gestione commissariale,
disponendo il trasferimento alla gestione ordinaria della titolarità
dei crediti e del piano di estinzione dei debiti precedentemente in capo
al Commissario.
Il commissariamento, disposto nel 2008
tramite decreto-legge dal Governo Berlusconi IV, prevede la separazione
tra la gestione del debito maturato fino al 28 aprile 2008 e la gestione
ordinaria del bilancio capitolino. In questo modo, in sostanza, il
Comune di Roma (guidato, all’epoca, da Gianni Alemanno), si ritrovò, per quel che riguarda la gestione ordinaria,
con zero debiti. Per il debito ordinario accumulato a partire dal 2008,
Roma è soggetta come tutti gli altri comuni italiani alle regole di
bilancio derivanti dalle leggi nazionali in materia. In sostanza, le
regioni e gli enti locali devono perseguire l’obiettivo delle norme del pareggio di bilancio
affermate nelle modifiche degli articoli 81 e 119 della Costituzione
imposte nel 2012, che sanciscono non solo l’austerità di bilancio al
livello nazionale, ma la estendono alle singole gestioni locali in una
logica di stretta autonomia finanziaria. In definitiva, il pareggio di bilancio deve essere perseguito anche in ambito di finanza pubblica locale.
Ma cosa è previsto, invece, per la gestione straordinaria,
ovvero per quei circa 12 miliardi di euro di debiti accumulati fino al
28 aprile 2008? Tramite il decreto-legge n. 78 del 2010 (sempre
all’epoca del Berlusconi IV e di Alemanno) fu disposto che la gestione
commissariale provvedesse alla riduzione di tale debito nella misura di
500 milioni di euro ogni anno. A questo piano di rientro si provvede
attraverso due fonti di finanziamento: la prima, a carico del bilancio
dello Stato, consiste nelle risorse destinate a un apposito capitolo di
bilancio del MEF con una dotazione annua di 300 milioni di euro; i
rimanenti 200 milioni, invece, devono essere in larghissima parte
ripagati dai cittadini romani tramite un aggravio dell’addizionale Irpef
locale, ovvero un aumento delle imposte sui redditi. Nondimeno, la
disciplina di bilancio ha imposto sacrifici anche dal lato della spesa
comunale: con particolare riferimento ai fatti di cronaca, è doveroso
notare che negli ultimi dieci anni le risorse destinate all’edilizia
pubblica sono passate da 101 a soli 3 milioni di euro. Si tratta di un taglio di quasi 100 milioni ai fondi destinati alle case popolari:
l’amministrazione capitolina ha dunque, nell’ultimo decennio, aumentato
la pressione fiscale mentre di fatto azzerava edilizia pubblica e spese
di governo del territorio.
In altri termini, in aggiunta al prelievo
fiscale e ai tagli di bilancio necessari al raggiungimento del pareggio
di bilancio nella gestione ordinaria (pareggio raggiunto a partire dal
2013 e da allora sempre mantenuto), ogni anno 200 milioni vengono
sottratti al tessuto economico locale tramite maggiori aliquote sui
redditi dei cittadini romani.
Al di là della retorica liberista, il pareggio di bilancio per lo Stato nel suo complesso ha degli obiettivi economici e politici
ben precisi: vietando il ricorso alla spesa in disavanzo, sottrae alla
politica il principale strumento di stimolo alla crescita economica e
dunque rende impossibile il perseguimento della piena occupazione.
Sappiamo che, nella lotta di classe, la disoccupazione di massa
rappresenta l’arma più affilata in mano ai padroni
per disciplinare i lavoratori stessi ed evitare che chiedano aumenti
salariali, schiacciandoli sotto il ricatto del licenziamento. In questo
contesto, la funzione degli enti locali è certamente quella di
collaborare al raggiungimento del pareggio di bilancio, ma sono anche
altri gli obiettivi dei capitalisti che possono essere più facilmente
raggiunti con le vigenti norme di finanza locale. Il vincolo del
pareggio di bilancio costringe i comuni con i redditi più bassi (e
gettiti fiscali più ridotti) a ridurre drasticamente l’erogazione dei servizi,
soprattutto in quei territori che ne avrebbero particolarmente bisogno,
in quanto ospitano le popolazioni più svantaggiate dal punto di vista
economico e sociale. Inoltre, la necessità di reperire risorse ha spinto
e spinge molti enti locali a privarsi del proprio patrimonio tramite privatizzazione di aziende ex-municipalizzate o vendita del patrimonio immobiliare,
spesso a prezzi particolarmente sfavorevoli per l’ente (e, dunque,
favorevolissimi per gli avvoltoi che acquistano). Degli enti locali,
insomma, non si butta via niente. E Roma, in particolare, col suo
sterminato patrimonio artistico, culturale, il suo enorme bacino di
servizi pubblici e il suo immenso patrimonio immobiliare, costituisce
una preda particolarmente ambita.
Come si è detto, le conseguenze più
immediate sulla pelle dei cittadini romani e di tutti i comuni costretti
a operare tagli particolarmente gravosi sono sotto gli occhi di tutti.
Si inasprisce la pressione fiscale e si tagliano servizi fondamentali:
addio interventi urbanistici, edilizia pubblica, manutenzione del
servizio idrico e del manto stradale, trasporto pubblico locale,
manutenzione delle scuole, spesa per beni e attività culturali. Questo comporta che le città, soprattutto le periferie, diventino sempre più invivibili.
Quel che accade a Roma è noto a molti:
dall’urbanizzazione selvaggia all’emergenza abitativa, dalle buche ai
disservizi nel trasporto pubblico locale, dai disagi delle famiglie
all’impoverimento culturale della capitale. Sono tutte conseguenze dei
tagli imposti alla città dalle norme nazionali e sovranazionali,
trasversalmente applicati.
In particolare, oltre alla degradazione dei servizi pubblici, è la situazione abitativa
in città ad essere altamente drammatica. Proviamo a fotografarla con
qualche numero. Secondo stime riportate dall’Acer (Associazione dei
Costruttori Edili di Roma e Provincia) l’emergenza abitativa a Roma
riguarda 57mila famiglie, pari a 200mila persone. Inoltre, si è
assistito, negli anni recenti, a un incessante aumento degli sfratti
(circa 7mila provvedimenti all’anno, di cui l’80% per morosità, con
2.500 famiglie soggette ad interventi di sgombero forzoso ogni anno) con
il conseguente aumento del ricorso ad alloggi di fortuna, occupazioni
abusive e baraccopoli che sorgono nei luoghi abbandonati in proibitive
condizioni di sicurezza e igiene. Vi sarebbero, inoltre, 12mila nuclei
familiari in attesa di un alloggio di edilizia popolare, ed il numero
rischia di aumentare, come sottolinea l’Unione inquilini, in quanto ogni
anno, a fronte di 1.500 nuove domande, si registrano solamente 500
nuove assegnazioni. Sarebbero circa 100 gli stabili occupati ove
vivrebbero circa 10mila persone. Infine vi sarebbero in città più di
7mila persone senza fissa dimora e 9mila rifugiati richiedenti asilo. In
questo desolante panorama, l’aspetto forse più spaventoso è che a
fronte di questa drammatica richiesta di alloggi, a Roma vi sono ad oggi
34.750 case inutilizzate.
Sono questi i numeri ed è questo l’ambito
sociale entro cui, altri avvoltoi, oltre agli speculatori, volano in
picchiata verso le macerie per approfittare del disastro sociale
generato dal pervicace perseguimento del pareggio di bilancio e della
riduzione del reddito. Nelle periferie, che per prime e più pesantemente
risentono dei tagli ai servizi, nuovi e vecchi fascisti puntano a
diventare egemoni e a incanalare la rabbia dei cittadini nei confronti
non dei veri aguzzini, bensì dei più facili capri espiatori che si
possano immaginare: rom e immigrati.
Gli strati popolari delle periferie
italiane sono stremati da anni di austerità. Le infinite liste di attesa
per le case popolari e per le visite mediche, la scarsità di servizi
fondamentali come la raccolta dei rifiuti e la pulizia delle strade, le
condizioni miserrime delle infrastrutture e della viabilità, la minaccia
di chiusura di presìdi ospedalieri e di pronto soccorso hanno portato
le condizioni economico-sociali di ampie fette della popolazione ben
oltre il limite del disagio. Quando i servizi scarseggiano, è
facile, per chi ha interesse a cavalcare la protesta in senso xenofobo,
innescare una guerra tra poveri che si contendono le briciole derivanti
dall’imposizione dei tagli di bilancio.
Per bloccare questi fenomeni di
sciacallaggio non possono bastare ipocriti richiami istituzionali
all’antifascismo da parte di chi coi fascisti ci governa o ci ha
governato, o stucchevoli passerelle
in periferia. Bisogna in primo luogo farla finita con i vincoli europei
alla spesa pubblica e, più in generale, con l’agenda neoliberista della
politica economica: per farlo, occorre riproporre con urgenza la
centralità della piena occupazione, dello Stato sociale e dei servizi
attraverso politiche di deficit spending. In altri termini,
bisogna chiudere la stagione della scarsità artificialmente imposta
tramite trattati europei, riforme costituzionali e leggi nazionali. In
nessun altro modo sarà possibile contrastare, contemporaneamente,
l’attacco ai lavoratori e agli strati popolari da parte delle classi
dominanti, l’immiserimento progressivo del tessuto sociale delle città a
partire dalle periferie e l’avanzata della melma fascista e razzista.
Qualsiasi iniziativa che non tenga conto
delle più basilari necessità dei cittadini è destinata, se tutto va
bene, all’irrilevanza; se tutto va male, a spargere benzina in giro per
le città, aspettando la prossima scintilla.
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