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19/05/2019

Il fantasma del fascismo

di Angelo d’Orsi

Perché il fantasma del fascismo riaffiora così di frequente in Italia? La prima risposta, persino ovvia, è che il “Bel paese” è stato la culla di quel movimento, e che non ha mai fatto fino in fondo i conti con esso. La seconda è che, come amava ripetere il mio maestro Bobbio, “l’Italia è un Paese di destra”, e che il fascismo – lo ha di recente ricordato Emilio Gentile, oggi il massimo studioso del fascismo italiano – non può ritornare, in quanto dall’Italia non si è mai allontanato. Ma sono risposte insufficienti. Gentile si chiede nell’ultimo suo libello “Chi è fascista”, autointervistandosi; Michela Murgia ci ha regalato un “Fascistometro”, per i giochi di società della borghesia riflessiva... Si è riaffacciata recentemente la suggestiva, ma antistorica categoria di Eco sul “fascismo eterno”. Le vicende del Salone del libro di Torino, nella totale assurdità che le hanno caratterizzato, hanno avuto almeno il merito di accendere i riflettori appunto sul tema: esiste un pericolo fascista oggi? E ha senso riproporre la bandiera dell’antifascismo? Secondo lo storico Alberto De Bernardi si tratta di due ferrivecchi da lasciare nel dimenticatoio: tesi sbagliata e pericolosa, come ho cercato di argomentare in un mio articolo su “MicroMega”.

A mio parere si può dare una risposta affermativa a entrambe le domande. E l’accoglienza trionfale di Domenico Lucano alla Sapienza è una prova dell’esistenza dell’antifascismo e della sua necessità, e che, pur se siamo davvero un Paese di destra, c’è un’Italia che non solo non si piega, ma che reagisce. Così come la risposta corale all’incredibile atto di sospensione della insegnante di Palermo, i cui alunni hanno osato costruire un video con un serrato magari ingenuo ma efficace confronto tra l’Italia fascista e l’Italia salviniana, è incoraggiante. Le diffuse contestazioni ai comizi del tonitruante ministro, insofferente “vice”, ma aspirante capopopolo, un po’ dappertutto nelle piazze italiane, sono ottimi segnali.

Per contro, abbiamo visto e udito le minacce di un gruppo dichiaratamente fascista come Forza Nuova, alla Sapienza. Abbiamo visto e udito gli energumeni di Casa Pound sempre nella Capitale fomentare la folla e direttamente aggredire e insultare la famiglia rom legittima assegnataria di un alloggio popolare. Abbiamo visto e udito, soprattutto, lo stesso ministro che non sembra avere alcuna conoscenza della grammatica istituzionale, insultare i suoi contestatori con espressioni da specialista della rissa ai mercati rionali. Abbiamo visto le forze dell’ordine aggredire vigili del fuoco che contestavano il ministro dimentico dei suoi doveri istituzionali, tutto preso nella sua frenesia elettoralistica di capo partito. Abbiamo visto le forze dell’ordine (che espressione paradossale!) entrare in un appartamento per togliere uno striscione di contestazione allo stesso ministro, arrestare, illegalmente, l’autore dello stesso striscione, un anziano militante, e portarlo (illegalmente) in questura, ammanettato, e trattenerlo (illegalmente) per tre ore. E via seguitando.

L’elenco, insomma, si allunga giorno dopo giorno, ora dopo ora. Non stiamo assistendo semplicemente a un nuovo capitolo della déroute della democrazia, iniziata da molti decenni, ormai, e che è stata descritta mirabilmente da Colin Crouch quasi vent’anni fa, come “post-democrazia”. E dopo i guasti prodotti, in Italia, da Berlusconi, Renzi ha portato molto avanti questo processo di destrutturazione del sistema democratico, lasciandone le forme, ma corrompendole via via, e soprattutto svuotandone la sostanza. L’Esecutivo ha sopraffatto il Legislativo, il Parlamento conta meno di un talk show televisivo, la Magistratura è sotto attacco, al fine di limitarne l’indipendenza o addirittura eliminarla mettendola sotto il controllo dell’Esecutivo, i mezzi di informazione sono sottoposti a pressione crescente, e i sindacati vengono esclusi dal loro ruolo di mediazione sociale, la scuola e l’università, la sanità, vengono privatizzate, aziendalizzate e gerarchizzate, mentre se ne trasformano le strutture interne, nel segno della cancellazione dell’autonomia. Si tratta di un processo che investe tutte le democrazie liberali, anche se in Italia esso ha avuto un’accelerazione assai forte, a partire dall’esperienza berlusconiana, ma nel nostro Paese, appunto, abbiamo oggi qualcosa di più, e qualcosa di diverso. Un vero e proprio ritorno di segnali del fascismo “classico”, nelle sue forme, nelle sue parole d’ordine, nelle modalità di fare politica. In tal senso, non v’è dubbio che Matteo Salvini sia l’interprete perfetto di questa “cover” del fascismo storico, come il libro intervista “dello scandalo” curato dalla Giannini testimonia mirabilmente, impietosamente, fin nell’aspetto, nei modi, nelle pratiche, nel lessico.

Il fascismo si riaffaccia con l’uso disinvolto della violenza, variamente erogata, e distribuita tra agenti istituzionali (polizia e carabinieri) e squadre esterne (Casa Pound, Forza Nuova... i “fascisti del terzo millennio”, come li presenta in un bel libro Elia Rosati) verso avversari o mancati sostenitori, secondo la esiziale logica binaria dell’amico/nemico (o sei al mio fianco e mi sostieni o sei sul fronte opposto e cerco di distruggerti) ma anche con l’impiego di un lessico eversivo (minacce, volgarità, ingiurie) che è già violenza. Un lessico che fa breccia e si diffonde a macchia d’olio. L’idea di concedere a quel popolo di cui ci si proclama interpreti autentici di accedere alle armi da fuoco e dare ad esso la facoltà di servirsene, con una ampiezza giuridica senza l’eguale nella nostra storia, estranea ai regimi politici fondati sul diritto moderno, è certamente una idea vincente, fino a quando non si scoprirà che i suoi risultati saranno devastanti.

Il ricorso al “popolo”, dichiarandosene interpreti e unici soggetti legittimati a coglierne i bisogni e rappresentarli politicamente, è un dato in effetti decisivo del fascismo classico, da Mussolini a Hitler; un ricorso che tende a contrapporre l’entità “popolo” alle procedure, alle istanze, alle pratiche della democrazia, cogliendone certo la crisi, e facendola precipitare, verso una soluzione perfettamente antidemocratica fondata non già sul popolo, ma sul “capo” che dovrà rendere conto, per così dire, soltanto, appunto, al “popolo”. Che non è più e non può essere la massa cosciente e responsabile, bensì la folla anonima, manipolabile, quella che sceglie di salvare Barabba invece di Gesù, sulla base di pulsioni volgari, elementari, estranee ad ogni raziocinio e senso di giustizia.

Come il fascismo storico, anche la linea impressa dal nuovo duce in pectore mira a realizzare un regime di polizia, con un ampliamento delle forme di controllo, prevenzione e repressione. E come il fascismo storico oggi si tende a creare bersagli sui quali catalizzare l’odio sociale, distraendo la cittadinanza dai problemi reali, e indirizzandone le paure e le idiosincrasie verso quei bersagli. I migranti, in modo indiscriminato, sono i nuovi ebrei, i nuovi neri, i nuovi slavi, verso cui si possono da un lato scatenare gli odi collettivi, ma grazie ai quali, dall’altro lato, si possono ottenere, apparentemente, “successi” politici.

Migranti e avversari politici e culturali sono equiparati: essi sono tutti stranieri in casa, ipso facto trasformati in nemici. Il fascismo oggi come ieri, tende sì a creare unità solidale nella nazione, ma una nazione intesa come comunità di fedeli, in senso politico-militare e persino in senso religioso: il fascismo fu un partito-milizia e diede vita a un regime fondato su una vera e propria religione politica. Il duce era la divinità onnipotente, con quella M che giganteggiava su ponti e viadotti, su cinte murarie e opere di arredo urbano. Il segretario del partito era il primo officiante di quella religione, e i gerarchi i suoi sacerdoti, che dovevano irreggimentare, condurre, eventualmente correggere, con il manganello e l’olio di ricino, i riottosi. Gli irreducibili venivano esclusi: galera, o confino.

Il video dei ragazzi della scuola palermitana con un azzeccato confronto tra passato e presente, al di là delle sue ingenuità, e delle semplificazioni, ci invita a riflettere sui rischi di un presente che tanti studiosi (di storia, filosofia, scienza politica, diritto...) sembrano non cogliere. E che invece faremmo bene a tenere presente, pronti a reagire, fin da subito, per impedire che domani sia tardi.

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