Lo diciamo subito e in premessa. Non daremo indicazioni di voto per le elezioni europee di domenica.
Detto questo, ci interessa piuttosto cercare di evidenziare alcuni dati su una scadenza elettorale che si delinea da un lato come il consuntivo di tutti i sondaggi effettuati fino a quindici giorni fa, dall’altro può rivelarsi uno snodo decisivo per cambiamenti significativi in alcuni paesi, a partire dall’Italia.
Inutile ricordare come il Parlamento europeo non abbia poteri legislativi. Decide poco o nulla, al massimo esprime il gradimento o meno sui nuovi commissari europei, oltre che sulle “direttive” della Commissione (il “governo”). I poteri decisionali dell’Unione Europea sono altrove: nel Consiglio europeo (quello dei capi di stato), nella Commissione Europea e soprattutto nella Banca Centrale Europea. Tutti e tre non sono organismi eletti, ma decisi per cooptazione.
Chi ha in testa o continua a cianciare sulla “democratizzazione” dell’Unione Europea si illude, oppure mente consapevolmente. L’apparato costruito e rafforzato in questi ventisette anni (dal Trattato di Maastricht del 1992) non è riformabile dall’interno, non è previsto, non è stato edificato per esserlo.
E’ un apparato che le oligarchie (banche, multinazionali, tecnocrati) hanno costruito sull’Europa per consolidare il dominio del capitale sul lavoro e della governabilità sulla democrazia.
In questo contesto ha pienamente ragione Le Monde Diplomatique nell’affermare che quella tra “liberali versus populisti”, cui molti vorrebbero ridurre le elezioni europee di domenica, è una “contrapposizione ingannevole”.
Europeisti liberali ed europeisti reazionari hanno visioni e progetti ampiamente convergenti sulla funzione imperialista della Fortezza Europa. Magari con i confini aperti all’interno – per facilitare la circolazione delle merci e della forza lavoro qualificata – ma blindata rispetto ai flussi migratori e proiettata all’esterno, per l’esportazione dei capitali e il controllo delle risorse altrui.
Questa vocazione imperialista dell’Unione Europea è ormai esplicitata nel Trattato di Aquisgrana tra Francia e Germania, emerge da ogni riga del Piano Junker – che difficilmente la nuova Commissione Europea metterà in discussione – ed è stata sussunta, emblematicamente, dalle parole del presidente della Confindustria, Boccia, quando afferma che l’Europa deve rafforzarsi per competere con Cina e Stati Uniti.
Una visione che ha determinato, come logica conseguenza, anche il patto neocorporativo sull’Europa siglato proprio da Confindustria con CgilCislUil.
Se questo è vero – e la realtà ci dice che dopo l’accelerazione impressa dagli apparati UE dal 2010, a seguito della crisi, è diventato assolutamente vero – il posizionamento, l’approccio, le proposte e le alternative in campo fanno la differenza.
Scrivevamo in apertura che le elezioni europee, per le loro caratteristiche, sono poco più che un sondaggio finale sul gradimento delle varie forze politiche. Il voto non impegna, non chiede né restituisce. Non si vota per un governo, un governatore di regione o per un sindaco.
Alle elezioni europee del 1984 per la prima volta il PCI prese più voti della Democrazia Cristiana, ma non cambiò proprio nulla nei rapporti di forza interni, né in Parlamento né nel paese. Nel 2014 il Pd di Renzi ottenne quasi il 41% dei voti, ma gli scostamenti sostanziali dai governi precedenti sono stati irrilevanti. Anzi...
Da mesi ci stanno martellando con la falsa contrapposizione tra liberali e populisti come posta in gioco a queste elezioni. In realtà il dibattito ruota sempre sulle questioni interne e praticamente ogni settimana, sulla base dei sondaggi, è come se ci fosse stata una scadenza elettorale. “Salvini è cresciuto del 3%, Salvini ha perso il 6%; il M5S scende del 2%, il M5S recupera il 2%, il Pd è in ripresa dell’1% etc. etc.”. Domenica sera però sapremo gli esiti dell’ultimo sondaggio, e sulla base di quello vedremo se il governo Conte mangerà il cocomero estivo o arriverà al panettone natalizio.
L’unico dato certo è che a ottobre si dovrà fare una Legge di Stabilità lacrime e sangue (dai 32 ai 40 miliardi di euro) per stare dentro i vincoli imposti dall’Unione Europea; e a quel punto chi c’è... c’è! Se non si mette radicalmente in discussione il “pilota automatico” evocato da Draghi (che qualcuno già vede seduto sulla scranno di Palazzo Chigi), la compagine di governo diventa del tutto intercambiabile e subordinata, anche con le più ingegnose geometrie variabili.
Il punto decisivo rimane questo: considerare la gabbia dell’Unione Europea, i vincoli dei suoi trattati, la sua ideologia gerarchica di “disuguaglianza virtuosa”, la cupezza delle sue ambizioni colonialiste e imperialiste, come uno scenario immutabile al quale rassegnarsi; oppure rimettere in campo un’alternativa, una prospettiva di cambiamento che però non può in alcun modo evitare una rottura con il quadro esistente.
L’offerta politica democratica e di classe – su questo piano di analisi, funzione, azione – in Italia è ancora debolissima o inesistente. La sinistra residuale ha scelto di presentarsi con contenuti e rappresentazione totalmente distanti da questo approccio. Anche lì dove evoca contenuti più simili, li rappresenta in modo autocentrato e meramente identitario.
Se nelle schede elettorali di domenica prossima ci fosse stato Potere al Popolo, che con questo livello di problemi ha cominciato a misurarsi, non avremmo avuti dubbi. Ma questa volta ha dovuto saltare un giro. E forse ne trarrà più benefici che danni.
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