Il dato comune, a quattro giorni dall’apertura delle urne, è la crisi politica che attraversano tutti i paesi, soprattutto quelli più grandi e “importanti”. La Francia si è ribellata a Macron, ma non sembra aver individuato la possibile alternativa. La Spagna continua a votare e a non avere una maggioranza di governo accettabilmente stabile. La stessa Germania guarda con preoccupazione a una ulteriore possibile sconfitta della Grosse Koalition (i democristiani della Merkel e i “socialdemocratici” dell’Spd). Sulla Gran Bretagna verrebbe da stendere un velo pietoso, mentre il ghigno di quel pagliaccio di Farage emerge dallo sfondo.
In Italia si attendono i risultati solo per determinare chi sarà il “timoniere” del superamento del governo gialloverde. E se fino a qualche settimana fa sembrava certo che lo scettro sarebbe stato in mano a Salvini e all’ultradestra che lo sostiene, col passare dei giorni la stella ducesca del “Capitano” si è drasticamente offuscata.
Terremoto ovunque, ma neanche questo sembra sufficiente a far emergere un’idea progettuale di sviluppo di quella che non è più solo una comunità economica ma non è in grado di diventare una comunità politica sovranazionale. Solo chiacchiere, distintivo e procedure di infrazione...
Nella competizione globale, ufficializzata da Trump con la “guerra dei dazi” ma ripresa fin dall’inizio dell’“era Obama”, l’Unione Europea sembra destinata a essere il vaso di coccio. Troppo indietro nell’innovazione tecnologica, troppo povera di risorse energetiche proprie, troppo fragile sul piano militare, troppo lenta nel reagire agli input esterni (sia positivi sia negativi), troppo sparagnina nella visione economica, segnata negativamente dall’austera e suicida visione ordoliberista, che ha imposto tagli di spesa in piena crisi e competizione interna fondata sulla compressione dei salari (e quindi sulla distruzione del mercato interno).
L’unica reazione degna di nota, che getta però una luce orrenda sul prossimo futuro, consiste nella centralizzazione ulteriore dei processi decisionali continentali. Il Trattato di Aquisgrana trasforma l’asse franco-tedesco nel motore unico della futura Unione Europea, unificando in prospettiva i campioni industriali e finanziari, ma anche i rispettivi Parlamenti ed eserciti (la velocità e la qualità tecnologica del riarmo tedesco è l’unica vera incognita nell’equazione relativa al prossimo decennio).
Prevedibili, in questa chiave, ondate di “revisioni dei trattati” o stipulazione di nuovi trattati secondo la formula “prendere o lasciare”, con i paesi della “serie B” esonerati anche dalla fatica di dover elaborare una risposta.
La reazione “istintiva” di questo organismo continentale malpensato, malprogettato e malgestito (almeno ai fini dichiarati di una “riduzione delle disuguaglianze” tra i diversi paesi e popolazioni) è stata insomma quella di una concentrazione del potere e un incremento delle disuguaglianze. Nelle relazioni economiche e quindi anche nelle condizioni di vita delle varie popolazioni.
Chi ancora farfuglia frasi senza senso su possibili “riforme dell’Unione Europea” (“la sinistra”, insomma) dovrebbe perlomeno dare un’occhiata a quel che sta accadendo nelle “stanze che contano”. Se non altro per evitare di essere additato ancora una volta dal popolo come complice dei veri nemici. Ma non nutriamo illusioni, su questo punto...
Il paese in cui è più netta e chiara la contrapposizione tra le possibili “vie d’uscita” è al momento la Francia, non a caso il luogo in cui il conflitto sociale – come sempre “imprevisto” nelle sue forme fenomeniche concrete – è esploso con maggiore intensità, superando la lunga fase d'incubazione del “malessere” che si esprime poi nelle urne con un tasso altissimo di volatilità (il 4 marzo 2018 sembra ormai un’altra era geologica...).
E in effetti l’“uscita a destra” rappresentata dalla destra lepenista, altrettanto neoliberista di quella “europeista” di Macron, è radicalmente opposta a quella “di sinistra” de La France Insoumise. Non a caso, anche lì, la destra ha progressivamente azzerato le proprie critiche alla Ue per adottare invece la classica “prospettiva riformatrice” in chiave razzista e nazionalista. Proprio come Salvini qui da noi.
Al fondo del turbinio politico, come sempre, stanno le differenze sociali, di classe, le disuguaglianze sempre più forti che rendono intollerabile – per strati sempre più larghi delle popolazioni – l’accettazione dello status quo.
Per avere una mappa statisticamente fondata di quelle disuguaglianze, come già fatto in altre occasioni, consigliamo la lettura dell’editoriale di Guido Salerno Aletta su Milano Finanza.
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Diseguaglianze in Europa
Guido Salerno Aletta
Nel tempo e nello spazio: tanto è cambiato in questi ultimi cinque anni, a partire dall’ultimo rinnovo del Parlamento europeo. Si torna nuovamente alle urne, la prossima settimana, in un contesto ancora più articolato di quello del 2014, appena a valle della approvazione del Fiscal Compact che tutto semplifica dividendo gli Stati tra virtuosi e viziosi, prendendo come unico metro di giudizio i parametri che disciplinano le finanze pubbliche, rapporto deficit/pil e debito/pil.
Anche gli stessi gradienti finanziari che ci accompagnano quotidianamente, come l’andamento delle Borse e degli spread sui titoli di Stato, non sono esaustivi per descrivere il contesto in cui si svolgeranno le elezioni. Si vota con la pancia, e non solo con la testa.
Nell’Unione Europea a 28, nel 2014, il reddito mediano annuo era di 15.790 euro. Nel 2017, a prezzi correnti, è salito a 16.909 euro. Ma le differenze all’interno dell’area sono rimaste enormi: si va dai 36 mila euro del Lussemburgo ai 2.742 della Romania.
Nella fascia alta ci sono tutti i Paesi della Europa “tradizionale”: Danimarca, Svezia, Austria, Olanda, Belgio, Francia, Germania e Gran Bretagna, tutti Paesi in cui i redditi sono stati superiori ai 20 mila euro. Con minime differenze tra i tre grandi: Francia con 22.077 euro, Germania con 21.920 e Gran Bretagna con 20.995. Italia e Spagna sono rimaste distaccate, rispettivamente con 16.542 e 14.503 euro, mentre in fondo si trova i Paesi del Blocco Orientale: Polonia con 5.945 euro, Ungheria con 4.988, Bulgaria con 3.590 ed infine Romania con i citati 2.742 euro.
Tra i Paesi con il livello più alto e quelli con il più basso c’è ancora un rapporto all’incirca di 5 a 1.
Nel tempo, la crisi ha seguito a colpire in modo molto diverso. E’ andata comunque molto bene per alcuni Paesi, ma molto male per altri: in termini reali, e fatto uguale a 100 il reddito pro capite nel 2010, in Germania si è passati da 98,2 del 2008 a 108,8 del 2018 (+10,6); in Francia è cresciuto un po’ meno, da 98,5 a 105,4 (+6,9); la Gran Bretagna si è attardata, passando da 102,8 a 108,3 (+5,5): il plotone di testa, quello dei Paesi più ricchi, si è dunque sgranato. Anche l’Austria, ad esempio, ha registrato un progresso assai modesto, passando da 98,6 a 101,6 (+3).
L’Italia ha accusato una forte flessione, da cui non si è ancora ripresa: il reddito pro capite mediano è sceso da 101,1 del 2008 a 93,1 del 2014, per poi approdare appena a 97,8 nel 2018 (-3,3). Anche l’Irlanda ha perso prodotto pro capite, ma un po’ meno dell’Italia, passando da 106,4 a 103,3 (-3,1). La Grecia ha pagato un prezzo enorme: il reddito pro capite mediano è crollato da 108,7 a 84,2 (-24,5).
Ai vertici, in termini di miglioramento, troviamo invece i Paesi del Blocco Orientale: nonostante la crisi generale, hanno ridotto le distanze con il resto dell’Unione: Romania (+32,2), Polonia (+30,1), Bulgaria (+29,8), Ungheria (+12,5). Mentre non ci sono dati recenti sulla Spagna, passata da 103,2 del 2008 ai 92,6 del 2014 (-10,6), sorprende la performance del Portogallo: nonostante tutto, è passato da 99,8 del 2008 a 103,6 del 2018 (+3,8). Merito della protezione ottenuta sul debito pubblico, detenuto in blocco dai fondi delle ex colonie, Macao in testa.
Il tema dell'occupazione è un altro aspetto centrale per la valutazione della situazione economica e sociale. Anche qui, i dati devono essere letti con cura, disaggregandoli, perché quelli complessivi cui si fa generalmente riferimento non tengono conto di fenomeni potenzialmente indesiderabili: un elevato tasso di occupazione può celare una quota elevatissima di lavoro a tempo parziale o precario, magari involontario e soprattutto femminile.
Nel periodo 2014-2018, il tasso complessivo di occupazione, considerando tutte le classi di età tra i 20 ed i 64 anni, ha avuto andamenti tutti in miglioramento, pur rimanendo profonde differenze. Ai vertici, si trova la Germania, che era già partita assai bene: è passata dal 77,7% al 79,9% (+2,2%); la Gran Bretagna lo ha aumentato percentualmente molto di più, passando dal 72,2% al 78,8% (+6,6%). La Francia ha avuto una performance più modesta, anche considerando il basso livello di partenza: è passata infatti dal 69,5% al 71,3% (+1,8%).
In Italia, che pure partiva da un livello molto basso, l’occupazione è cresciuta più della Francia, passando dal 59,9% al 63% (+3,1%), anche se il divario rimane elevato: ancora otto punti rispetto alla Francia e oltre diciassette punti rispetto alla Germania. Ben si spiega, così, l’insofferenza verso le politiche di austerità ed il minor consenso nei confronti delle tradizionali famiglie politiche.
Per quanto riguarda il Blocco Orientale, la dinamica occupazionale è stata assai positiva: l’Ungheria ha fatto meglio di tutti, passando dal 66,7% al 74,4% (+7,7%); in Bulgaria è cresciuta dal 65,1% al 72,4% (+7,3%), in Polonia dal 66,5% al 72,2% (+5,7%).
Analizzando le tipologie di occupazione, si rileva che il lavoro a part time e quello temporaneo, soprattutto nella componente femminile, hanno avuto un enorme rilievo: nel 2018, in Olanda, il primo ha rappresentato il 46,8% della occupazione totale ed addirittura il 73,8% di quella femminile. In Austria, i due dati sono stati rispettivamente il 27,6% ed il 47,6%; in Germania il 26,8% ed il 46,7%; in Gran Bretagna il 23,3% ed il 38,6%. Queste percentuale sono state molto più basse in Italia (18,3% e 32,4%), Francia (17,8% e 28,7%) e Spagna (14,2% e 23,6%).
Il lavoro part time e precario raggiunge i livelli minimi europei nei Paesi del Blocco Orientale: Romania (6,3% ), Polonia (6,2%), Ungheria (4,2%), Bulgaria (1,8%). Bassi costi del lavoro e produttività inferiore consentono infatti di avere manodopera a tempo pieno pagando comunque salari monetari esigui.
Tre sono i dati che emergono. In primo luogo, si assiste al divaricarsi delle principali economie della Europa “storica”, con la Germania che surclassa ampiamente la Francia e la Gran Bretagna in termini di crescita del reddito e soprattutto in termini di risanamento della finanza pubblica; l’Italia, invece, non solo non è riuscita a recuperare i danni della duplice profonda recessione del 2008 e del 2012, ma continua a veder peggiorare anche il rapporto debito/pil.
In secondo luogo, nonostante la crescita economica sostenuta nel Blocco Orientale, la distanza in termini di reddito mediano rispetto ai Paesi dell’Europa core è ancora elevatissima.
Infine, i dati complessivi relativi alla occupazione celano i processi di precarizzazione e di parzializzazione del lavoro, che sono più vistosi nei Paesi ad alto reddito pro-capite.
La sofferenza sociale è ancora più evidente quando si analizzano i dati relativi all'occupazione “involontaria” part time, che quantifica coloro che ricorrono a questa forma di impiego non avendo trovato di meglio: la percentuale più alta è in Grecia con il 69% del totale, seguita dall’Italia con il 64%, e dalla Spagna con il 63%. Non a caso, ci sono alte percentuali anche nel Blocco Orientale: Bulgaria 61%, Romania 48%, Ungheria 38%, Polonia 29%: i salari sono già talmente bassi che un lavoro a tempo parziale è oltremodo penalizzante. Anche la Francia, con il 41,5% denota livelli di malessere elevati, mentre la Gran Bretagna con il 17% e la Germania con il 13% mostrano una situazione di gran lunga meno stressata.
Anche questi dati confermano lo sfarinamento della Europa “storica”, ed il Blocco Orientale ancora in grande sofferenza sociale.
Anche le statistiche sul tasso di povertà, nella fattispecie definita da Eurostat in termini di Severe material deprivation rate, offrono elementi di riflessione, sia in termini di distribuzione geografica che di dinamica temporale. Anche in questo caso, il Blocco Orientale ha registrato tra il 2014 ed il 2017 i più vistosi miglioramenti, con la Romania che lo ha visto calare dal 28,4% al 19,2% della popolazione (-9,2%), l’Ungheria dal 22,2% al 13,4% (-8,8%), la Polonia dal 10,4% al 5.9% (-4,5%), e la Bulgaria dal 31,9% al 30,5% (-1,4%).
Sono dati molto significativi, anche se le statistiche sono spesso effettuate nel tempo seguendo criteri nuovi. Ad esempio, nel 2013, la medesima percentuale in Bulgaria era stata calcolata nel 42,5% della popolazione. La Grecia ha riportato miglioramenti minimi, passando tra il 2014 ed il 2017 dal 20,9% al 20,3% (-0,6%), dopo aver raggiunto il picco del 21,4% nel 2016; l’Italia è passata dall’11,1% al 10,2% (-0,9%) dopo aver toccato anch’essa il picco nel 2016, con il 12%. La Spagna avrebbe ottenuto migliori risultati, passando dal 7,1% al 5,1% (+2%), assai più rilevanti anche rispetto a quelli della Francia, che ha ridotto ulteriormente un indice di malessere che già nel 2014 era molto basso, portandolo dal 4,5% al 3,8% (-0,7%). La Germania lo avrebbe portato dal 4,8% al 3,6% (-1,2%). Il successo della Gran Bretagna nella lotta alla povertà sarebbe stato decisivo, avendola ridotta dal 6,5% al 3,7% (-2,8%). Niente poveri, in questi ultimi tre Paesi, statisticamente parlando.
Anche quest’ultimo set di dati conferma il quadro che si è andato un po’ alla volta tratteggiando: l’Europa “storica”, quella dei Paesi che hanno aderito all’Unione fino alla caduta del Muro di Berlino, mostra che nel periodo 2014-2017 c’è stata una ulteriore, vistosa tendenza alla divaricazione rispetto ai ritmi di crescita registrati dalla Germania. La Francia e la Gran Bretagna la seguono, ma con fatica e forti tensioni interne: queste ultime sono dimostrate dalle manifestazioni dei Gilets Jaunes, che reclamano un maggior potere di acquisto per le famiglie, e dal voto favorevole alla Brexit, sia pure espresso da una risicata maggioranza referendari.
Pesano, ed è questa la fatica, gli squilibri nel commercio con l’estero. Il gruppo dei Paesi PIIGS, Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda ed Italia, segnati dalla crisi, si è distanziato dalla Europa “tradizionale”. Nonostante i consistenti miglioramenti, in termini di reddito, di occupazione e di riduzione dei livelli di povertà, rimangono afflitti da forti ritardi i Paesi del Blocco Orientale; Polonia, Romania, Ungheria e Bulgaria, sono ben lontani dai livelli di reddito del resto del Continente.
Ai tempi della caduta del Muro c’era un solo nodo sciogliere: assimilare democraticamente i Paesi del Blocco Orientale, aprendo loro il grande mercato interno, per portarli al livello economico di quelli dell’Europa storica.
Ora, ad undici anni dalla crisi americana e ad otto da quella dell’Eurozona, i problemi si sono moltiplicati: occorre riacciuffare la Gran Bretagna; recuperare la Grecia; ridurre le distanze a cui Italia e Spagna sono state lasciate andare.
Il vero sovranismo, per cui tanto ci si straccia le vesti, è quello sotteso dalla Brexit ed dal nuovo accordo di Aquisgrana, con cui Francia e Germania hanno rinsaldato il loro asse, per difendere i propri interessi, decidendo da soli sulla politica estera, sull’esercito comune, sulla politica industriale.
Sarebbe davvero scomodo doverlo ammettere in campagna elettorale. Meglio dibattere sui candidati alla Presidenza della Commissione, ed in sottofondo lasciar andare lo spread per gli sforamenti del deficit da parte dell’Italia.
Balliamo al suono delle nostre catene, anche stavolta.
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