Passata la sbornia delle elezioni europee, l’attuale governo o quel che sarà, dovrà presto misurarsi con la cruda realtà nella quale è inevitabilmente immersa qualsiasi compagine governativa che considera un mantra inviolabile i vincoli di bilancio e più in generale il dispositivo economico sociale imposto dall’Unione Europea.
Questi vincoli chiamano direttamente in causa la spada di Damocle rappresentata dal tema dell’innalzamento delle aliquote Iva dal 10 al 13% e dal 22 al 26,5%.
C’è poco da stare allegri: dopo il 26 maggio la propaganda si abbatterà contro il muro eretto dalla governance europeista a tutela dei conti pubblici ponendo chi dovrà varare la legge di bilancio dinanzi ad una alternativa secca. O alzare le aliquote IVA acuendo la direzione regressiva del nostro sistema fiscale o recuperare (attingendo dalla spesa sociale) risorse ingenti per sterilizzare tali aumenti: 23,1 miliardi per il 2020 e 28,7 miliardi per il 2021, connotando già in partenza la natura antisociale e antipopolare della prossima legge di bilancio.
La domanda che si pone per sfuggire a questa insopportabile tenaglia è la seguente: ma è accettabile un piano del discorso che costringa lavoratori, pensionati e ceti popolari all’interno di opzioni egualmente disastrose o forse il ragionamento va letteralmente ribaltato e l’attenzione rivolta al sistema fiscale nella sua complessità e a come esso si è progressivamente allontanato da come era stato disegnato nella nostra Carta Costituzionale?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo partire da alcune considerazioni che tengano conto della natura comunitaria e quindi europeista dell’Iva, della collocazione di questa imposta all’interno del quadro costituzionale, del peso crescente delle imposte indirette nel nostro sistema tributario, e dei possibili scenari alternativi (abolizione dell’Iva sui beni di prima necessità).
Alcune precisazioni tecniche.
L’Iva come è noto è un'imposta indiretta, poiché non colpisce direttamente la capacità contributiva del contribuente ma solo la sua manifestazione (il consumo), proporzionale perché il suo ammontare dipende dal prodotto tra il prezzo del bene e l’aliquota che si applica, generale perché colpisce tutti i contribuenti senza alcuna distinzione.
Chiariamo subito che quando discutiamo di Iva ci stiamo riferendo alla seconda imposta quanto a gettito, oltre 130 miliardi nell’ultimo anno, nonché all’imposta maggiormente evasa con un tax gap, ovvero una differenza tra quanto dovuto e quanto incassato, pari a 35 miliardi.
Come è noto l’ Iva è un tributo armonizzato a livello europeo che segue le medesime regole in tutti i paesi UE. Ciò che possono mutare sono le aliquote (entro certi limiti poiché l’aliquota ordinaria non può essere inferiore al 15%). Nel nostro paese vi sono 4 aliquote: una del 4% applicata su beni come latte, farina, pane, frutta, una del 5% applicata prevalentemente sui servizi di assistenza medica, una del 10% applicata su tanti beni di prima necessità (alimenti e bevande di vario tipo) e infine quella ordinaria del 22% applicata a tutti i beni e servizi non ricompresi negli altri tre panieri (il caffè per esempio sconta una aliquota del 22% così come tutti i prodotti confezionati da bar non consumati al suo interno).
Ebbene qui registriamo il primo elemento interessante: l’Italia con l’aliquota ordinaria attualmente al 22% si colloca già oltre la media degli altri paesi UE che si attesta su una aliquota ordinaria pari a 21,5%. Chiunque può intendere che il paventato aumento dell’aliquota Iva ordinaria, dal 22% al 26,5, al quale andrebbe aggiunta l’aumento dell’IVA agevolata dal 10 al 13%, collocherebbe il nostro paese tra quelli con l’aliquota più alta, avvicinandolo all’Ungheria che, tra i tanti tristi primati vanta anche quello di essere il paese con aliquota Iva più alta in assoluto (27%).
Insomma l’aumento dell’Iva o il suo disinnesco attraverso un ingente reperimento di risorse non risponde ad alcuna logica di armonizzazione con la media degli altri paesi UE (come abbiamo visto già oggi siamo al di sopra degli altri paesi) ma è semplicemente una delle forme di disciplinamento sociale ed economico del nostro paese. L’aumento dell’IVA o le clausole di salvaguardia per scongiurarlo costituiscono un tassello di quella architettura improntata alla ferrea disciplina di bilancio.
Il quadro costituzionale
Fatte queste precisazioni di natura “tecnica” occorre porsi una domanda. Come si colloca questa imposta e soprattutto il peso sempre maggiore che sta assumendo in termini di gettito nell’ambito del quadro costituzionale? Ovvero, in altre parole, è compatibile questa imposta nell’ambito di un sistema fiscale che nelle intenzioni (tradite) dei padri costituenti doveva essere orientato al principio di progressività dell’imposta?
Per rispondere a queste domande è forse opportuno rileggere i lavori dell’Assemblea Costituente che nel 1947 elaborò il testo dell’articolo 53 della Costituzione, il c.d. principio di progressività dell’imposta, che andava a sostituire la tassazione proporzionale prevista dall’articolo 25 dello Statuto albertino del 1848 (a proposito di modernità della flat tax!).
Così il relatore Salvatore Scoca si pronunciava sul passaggio dall’imposizione proporzionale a quella progressiva «Se poi consideriamo che più dei tributi diretti rendono i tributi indiretti e questi attuano una progressione a rovescio, in quanto, essendo stabiliti prevalentemente sui consumi, gravano maggiormente sulle classi meno abbienti, si vede come in effetti la distribuzione del carico tributario avvenga non già in senso progressivo e neppure in misura proporzionale, ma in senso regressivo. Il che costituisce una grave ingiustizia sociale, che va eliminata, con una meditata e seria riforma tributaria. (...) Credo necessario che si inserisca nella nostra Costituzione, in luogo del principio enunciato dall’articolo 25 del vecchio Statuto, un principio informato a un criterio più democratico, più aderente alla coscienza della solidarietà sociale e più conforme alla evoluzione delle legislazioni più progredite. La regola della progressività deve essere effettivamente operante. Ciò significa che la progressione applicata ai tributi sul reddito globale o sul patrimonio dev’esser tale da correggere le iniquità derivanti dagli altri tributi, ed in particolare da quelli sui consumi».
Come se non bastasse lo stesso Salvatore Scoca, così argomentava «Non si può negare che una Costituzione la quale, come la nostra, si informa a principi di democrazia e di solidarietà sociale, debba dare la preferenza al principio della progressività. Ho sempre pensato che chi ha dieci mila lire di reddito e ne paga mille allo Stato, con l’aliquota del 10 per cento, si troverà con 9 mila lire da impiegare per i suoi bisogni privati; mentre chi ne ha centomila, dopo aver pagato l’imposta del 10 per cento in base alla stessa aliquota, si troverà con una disponibilità di 90 mila lire. È ovvio che per pagare l’imposta il primo contribuente sopporta un sacrificio di gran lunga maggiore del secondo, e che sarebbe equo alleggerire l’aggravio del primo e rendere un po’ meno leggero quello del secondo».
Insomma da questi passaggi appare evidente la ratio che ha ispirato l’introduzione nella nostra Costituzione dell’articolo 53 e la direzione che doveva orientare un sistema fiscale socialmente equo che assolvesse ad una funzione redistributiva.
Progressività dell’imposta: il principio tradito
Numerosi sono stati gli interventi negli ultimi decenni che hanno letteralmente sovvertito questa impostazione: dalla progressiva riduzione degli scaglioni di reddito ai quali applicare l’imposta (dai 32 degli anni 80 agli attuali 5), all’innalzamento delle aliquote applicabili sui redditi più bassi con conseguente abbassamento delle aliquote applicabili sui redditi più alti, fino all’abbassamento dell’aliquota applicabile sulle società di capitali passata dal 37% all’attuale 24%.
All’interno di questo quadro si inserisce anche il peso sempre maggiore che una imposta come l’Iva, indiretta e proporzionale e di fatto regressiva, ha avuto nel nostro sistema fiscale stravolgendo l’impostazione costituzionale che tendeva a potenziare l’imposta progressiva sul reddito per renderla spina dorsale del nostro sistema tributario, relegando le imposte sui consumi e quindi quelle indirette ad una funzione marginale.
Un ragionamento che trova riscontro sempre nei lavori dell’Assemblea Costituente laddove l’on. Meuccio Ruini avvertì la necessità di restringere l’ambito di applicazione delle deroghe al principio di progressività chiarendo che “non tutti i tributi diretti possono essere applicati con criterio di progressività. D’altra parte, se ai singoli tributi indiretti non si addice il metodo della progressività, si può e si deve tener presente complessivamente tale criterio, gravando la mano sui consumi non necessari e di lusso”.
Ebbene i dati recentemente pubblicati dal MEF sulle Entrate tributarie 2018 attestano che 247 miliardi provengono dalle imposte dirette e 215 dalle imposte indirette di cui ben 133 dall’Iva!
In questi dati vi è la fotografia di un sistema tributario che nel corso del tempo è stato letteralmente allontanato dalla sua funzione originaria per dirigersi verso obbiettivi diametralmente opposti rispetto a quelli per cui era stato concepito. Un vero scandalo se pensiamo che tutto questo si inscrive oggi in uno scenario di crisi, di progressiva riduzione del potere di acquisto dei salari, di crescita della disoccupazione e della precarietà e di contrazione dei consumi.
La discussione sulla tassa piatta e quindi anche sull’aumento dell’Iva si collocano esattamente all’interno di questo sovvertimento dello spirito costituzionale.
Mentre nell’Assemblea Costituente si ancorava democrazia e solidarietà sociale al potenziamento del principio di progressività dell’imposta, oggi la flat tax (di fatto esistente nello Statuto Albertino del 1848) viene propagandata come misura fiscale equa e necessaria per alleggerire il carico fiscale.
Mentre nell’Assemblea Costituente si puntava il dito contro le imposte indirette oggi esse sono esponenzialmente cresciute al punto da orientare un paradossale dibattito sull’innalzamento delle aliquote Iva.
Uscire dall’impasse
E allora se davvero vogliamo sfuggire alla strettoia “aumento aliquote Iva/reperimento di risorse per sterilizzare gli aumenti”, se vogliamo davvero sottrarci ad un dibattito regressivo sul sistema fiscale, l’asticella va spostata in avanti affrontando il tema da una prospettiva avanzata che metta in discussione la natura di questa imposta relegando, come nell’intenzione dello spirito costituzionale, la sua applicabilità ai beni di lusso e non necessari ed escludendola sui beni di prima necessità. Certo qualcuno obbietterà che questo comporta mettere in discussione i vincoli di bilancio e le rigidità imposte dall’UE e dai suoi fervidi sostenitori (Commissione Europea, FMI, Confindustria) o che determinerebbe un consistente ammanco di entrate nelle casse dello Stato aumentando il debito pubblico.
Ma si tratta di obiezioni faziose sia perché una operazione di questo genere rilancerebbe i consumi e la domanda interna, sia perché proviene da quegli stessi ambienti che mentre agitano lo spauracchio del debito, guarda caso sorvolano sul peso crescente ed insopportabile degli interessi sul debito determinato proprio da uno dei capisaldi dell’impalcatura europeista: il principio dell’indipendenza monetaria dall’interferenza politica, in virtù del quale gli Stati per finanziarsi devono rivolgersi sui mercati privati pagando sostanziosi interessi.
Il punto vero, in realtà, è che le politiche fiscali ed economiche richieste dall’Unione Europea si pongono sistematicamente in contrasto con la nostra Costituzione stravolgendone il senso e mutandone la direzione.
L’abolizione dell’Iva sui beni di prima necessità uniformerebbe il nostro sistema fiscale al dettato costituzionale. Il suo aumento o il reperimento di risorse per scongiurarlo con conseguente taglio della spesa sociale si porrebbero in conflitto con essa.
Siamo sempre lì: disarticolazione del pensiero ordoliberista o smantellamento della nostra Costituzione.
Tertium non datur...
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