Mentre a Kiev si discute del possibile default dell’Ucraina, il Donbass rimane sotto i colpi delle artiglierie golpiste: nelle ultime ore, particolarmente bersagliate Jasinovataja, Gorlovka, Zajtsevo, Avdeevka e l’area dell’aeroporto di Donetsk. Nella notte del 28 maggio, un drone ha bersagliato un’abitazione a Gorlovka: ferita una settantenne e sua nipote di 6 anni.
Nel momento in cui Vladimir Zelenskij si fa fotografare in visita alle posizioni avanzate delle truppe ucraine, quello che è considerato il suo sponsor più diretto, l’oligarca Igor Kolomojskij, concede interviste in cui raccomanda al neoeletto Presidente di dichiarare il default e azzerare tutti i debiti esteri ucraini.
Allo stesso tempo, Kolomojskij propone a USA e UE di annullare quanto dovuto da Kiev (circa 80 miliardi di dollari nei confronti del FMI; ma intanto lo stesso FMI impone a Kiev di acquistare il gas al vecchio prezzo di 300 dollari per mille mc, mentre i prezzi di mercato sono scesi alla metà), come “indennizzo” per quanto sofferto dal paese nel periodo di “contrapposizione alla Russia”.
Quello che state conducendo, avrebbe dichiarato Kolomojskij – il quale, va detto subito, da sponsor delle majdan del 2004 e del 2014 e padrino dei nazisti di “Pravyj Sektor”, sta ora solo difendendo i propri beni in Ucraina e in Russia, accumulati sin dagli anni ’90 coi metodi tipici di quell’epoca – rivolto a Washington e Bruxelles, è solo “il vostro gioco, la vostra geopolitica. Non vi importa nulla dell’Ucraina. Volete solo danneggiare la Russia e l’Ucraina ne è il pretesto”.
Lacrimevole la reazione del (tuttora in carica) Primo ministro Vladimir Grojsman e della “bionda del gas”, Julija Timošenko, alla boutade di Kolomojskij: a parole, afflitti per la “sorte dei semplici ucraini” che, dicono, diverrebbero la prima vittima in caso di default, colpiti da iperinflazione e distruzione del sistema bancario e finanziario; come se gli ucraini non si trovassero nella tragica situazione attuale, “grazie” agli affari privati e alle politiche dell’uno e dell’altra, da vent’anni a questa parte.
D’altra parte, il progetto di default è visto dai media ucraini come un tentativo di Kolomojskij e di una buona cordata di altri oligarchi di accaparrarsi attivi a buon mercato; non a caso, il primo e i secondi si sono messi (chi più, chi meno apertamente) dalla parte di Zelenskij: nulla di personale, come si dice, è solo business e precisamente la brama di riappropriarsi di quanto il grande sconfitto delle elezioni, Petro Porošenko, aveva loro tolto per incamerarlo nei propri attivi; l’esempio dello stesso Kolomojskij e delle sue ex proprietà bancarie lo testimonia.
Il nuovo capo dello Stato si è intanto guadagnato la riconoscenza anche di un altro dei più accaniti oppositori (ma, fino al 2017, era completo idillio fra i due) di Porošenko, l’ex presidente “yankee” georgiano ed ex governatore di Odessa, Mikhail Saakašvili, cui Zelenskij ha restituito la cittadinanza ucraina.
Sul fronte giudiziario, Andrej Portnov, ex capo dell’Amministrazione del deposto Presidente Viktor Janukovič, ha formulato con più precisione le accuse annunciate nei confronti di Porošenko, a cominciare dalle macchinazioni per i suoi affari offshore e ha anche presentato i prossimi passi per render noto il ruolo del nazista speaker della Rada, Andrej Parubij, nei pogròm di majdan e nella strage alla Casa dei sindacati di Odessa.
A far da contraltare, le minacce di morte lanciate pubblicamente dall’ex capo di “Pravyj Sektor”, Dmitro Jaroš, all’indirizzo di Vladimir Zelenskij, dopo che il neo Presidente aveva accennato a eventuali colloqui con Mosca a proposito del Donbass e delle possibilità di por fine alla guerra.
Meno estreme materialmente, ma non meno insidiose politicamente per Zelenskij, dopo il suo annuncio di scioglimento della Rada, le mosse dell’opposizione, che già lancia contro di lui l’accusa di “usurpazione del potere”, ne pretende l’impeachment e parla di nuova majdan. Sul sito presidenziale, la petizione per le dimissioni del neo Presidente ha già raccolto oltre 25 mila firme, sufficienti affinché Zelenskij sia tenuto a prendere in considerazione il documento.
E, proprio per quanto riguarda la soluzione del conflitto in Donbass, il portale gorlovka.today si chiede come mai, a oltre quattro anni dalla firma degli accordi di Minsk, i soggetti che li avevano sottoscritti continuino a dichiarare che non ci sono alternative a quel documento, nonostante il vicolo cieco della loro attuazione.
Per metter fine a ogni conflitto, scrive il portale, bisogna eliminarne le cause; nel caso specifico, la causa è stata il golpe a Kiev organizzato dagli USA e la risposta del Donbass alle mire dei neonazisti ucraini di assimilarne la popolazione. La guerra ai confini con la Russia rientra dei piani USA di trasformare l’Ucraina in una testa di ponte anti-russa e di trascinare Mosca in un conflitto armato con l’Ucraina.
Ora, scrive gorlovka.today, al contrario della questione della Crimea, il referendum nel sudest ucraino e la resistenza armata in Donbass erano iniziati non solo senza l’intervento russo, ma anzi nonostante i desideri di Mosca. Dopo varie tappe, il cosiddetto “Minsk 1”, nel luglio 2014, aveva previsto il ritorno del Donbass nella compagine ucraina a determinate condizioni; ma Porošenko ne aveva approfittato per rinnovare attacchi su vasta scala.
E’ possibile che, all’epoca, Mosca abbia rinunciato a liberare l’intero Donbass, non essendo in grado di resistere a una prevedibile offensiva, politica, finanziaria e anche militare occidentale e si sia dunque limitata a costringere Porošenko alle trattative, intervenendo al tempo stesso sulla iniziale composizione dello Stato maggiore delle milizie. Ci furono poi le grosse disfatte ucraine a Ilovajsk, Izvarino, Saur-Moghila; in ogni caso, il “Minsk 2” del febbraio 2015 era chiamato soprattutto a fermare l’espandersi del conflitto che, tra l’altro, aveva assunto aspetti catastrofici per le truppe ucraine.
Se erano previsti passi significativi per lo status speciale del Donbass, questi non intervenivano però sulle cause del conflitto voluto da Washington e, d’altronde, sono stati poi costantemente violati dai nazigolpisti di Kiev.
Oggi, scrive ancora il portale, la situazione industriale e occupazionale in Donbass è oltremodo drammatica e le sole possibilità economiche sono quelle di affidarsi all’intervento di società russe. Le principali imprese del Donbass sono infatti sotto la tutela della potente “Rostekh” russa, controllata da uno dei maggiorenti della gerarchia russa, Sergej Čemezov, che gestisce le attività in Donbass attraverso la “Vneštorgservis”, appositamente creata e registrata in Ossetia del Sud e diretta da Vladimir Paškov, uomo di sua fiducia.
Dal momento che, a causa delle sanzioni occidentali, le società russe non hanno ufficialmente accesso in Donbass, “Vneštorgservis” agisce indirettamente, in collegamento con personaggi dell’ex clan affaristico del deposto presidente Viktor Janukovič. Di fatto, scrive il portale, il Donbass in quanto tale interessa relativamente a Mosca; in ogni caso, non quanto la Crimea, dal punto di vista strategico militare e il riconoscimento delle Repubbliche popolari metterebbe in forse la possibilità di far rientrare l’intera Ucraina nella sfera di influenza di Mosca.
Il Cremlino non ha ancora riconosciuto l’elezione di Zelenskij e si è limitato a emettere il decreto sulla semplificazione delle procedure per la concessione dei passaporti ai cittadini di DNR e LNR, il che non implica un possibile riconoscimento del Donbass e ancor meno il suo inserimento nella compagine russa. Tale passo rappresenta solo un segnale alle élite di USA e Ucraina a non superare precisi limiti nei confronti del Donbass e, al contempo, offre agli abitanti delle Repubbliche popolari la possibilità di spostarsi facilmente verso la Russia, per cercare lavoro, accedere a istruzione e assistenza.
E mentre il politologo Oleg Khavič dichiara a news-front che, a suo parere, l’unica Ucraina vivibile, “entro le frontiere del 1991, dovrebbe essere divisa in almeno tre stati, Malorossija, Novorossija e una sorta di Ucraina occidentale, che io chiamo Rutenia”, più concretamente Lugansk risponde a Vladimir Zelenskij che “Il Donbass non ha bisogno di amnistia: non siamo criminali. Il Donbass non ha bisogno di autonomia: non siamo parte dell’Ucraina. Abbiamo fatto una scelta nel 2014. E anche l’Ucraina ha fatto la propria scelta, uccidendo migliaia di abitanti del Donbass”.
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