Nell'ambito del dibattito sull'Europa pubblichiamo un interessante intervento di Thomas Fazi
[Ringraziando
Stefano Tancredi, Robin Piazzo e Domenico Cerabona Ferrari per il
bell'incontro di ieri a Settimo Torinese, riporto il testo del mio
intervento, in cui rispondevo alla seguente domanda: «Un singolo Stato
può “reggere” dal punto di vista economico l’uscita dalla realtà
economica neoliberista dell’UE? Se “no” perché? È più opportuno un
processo di riforme economiche nel contesto europeo? Come rapportarsi ai
vincoli economici imposti dall’UE? Se si può “reggere” questa uscita
come? Quali strategie adottare? Si deve ritornare alla propria moneta? È
possibile un’alleanza economica con altri Stati dalla struttura
economica più simile alla nostra?»].
La prima cosa da dire è che c’è poco
da scegliere. O meglio, la scelta non è se uscire dall’UE o se
riformare l’UE, per il semplice fatto che quest’ultima opzione non è
praticabile.
L’UE è strutturata in maniera tale da non essere
riformabile, perlomeno non nel senso che auspicano gli integrazionisti
di sinistra, cioè nella direzione di una riforma dell’UE in senso
democratico e progressivo/sociale, men che meno nella direzione di un
vero e proprio Stato federale sul modello degli Stati Uniti o
dell’Australia.
Come disse il compianto Luciano Gallino poco
prima di morire: «Nessuna realistica modifica dell’euro sarà possibile»,
in quanto esso è stato progettato «quale camicia di forza volta a
impedire ogni politica sociale progressista, e le camicie di forza,
vista la funzione per cui sono state create, non accettano modifiche
“democratiche”».
Basti pensare che per “riformare i trattati” è
necessaria l’unanimità di tutti e 28 gli Stati membri dell’UE. In altre
parole, sarebbe necessario che in tutti e 28 i paesi dell’UE salissero
al potere dei governi progressisti che condividono le stesse prospettive
di riforma “di sinistra” dell’euro. Ora, non bisogna essere
particolarmente pessimisti per capire perché questo non accadrà mai.
E
non accadrà mai innanzitutto perché le condizioni economiche,
politiche, sociali, ecc. che si registrano nei diversi Stati sono
estremamente eterogenee: ci sono paesi che registrano tassi di
disoccupazione estremamente bassi (come la Germania) e paesi come il
nostro che registrano tassi di disoccupazione altissimi; ci sono paesi
che crescono e paesi che non crescono, ecc.
E la ragione non è
che ci sono paesi virtuosi e paesi non virtuosi, come vorrebbe la
narrazione dominante: la ragione è che l’architettura dell’eurozona va
bene per alcuni paesi – nella fattispecie i paesi che hanno storicamente
una forte propensione all’export: vedi appunto la Germania – e non va
bene per altri, come il nostro, che invece storicamente sono molto più
dipendenti dalla domanda interna.
Detta in altre parole: gli
interessi di noi italiani – e in particolare gli interessi dei
lavoratori italiani – non sono gli stessi interessi dei lavoratori
tedeschi. Questa è la realtà dei fatti: hai voglia a parlare di
“internazionalismo”, come insiste a fare la sinistra europeista.
Come
scrive Fritz Scharpf, ex direttore del Max-Planck-Institute: «L’impatto
economico dell’attuale regime dell’euro è fondamentalmente asimmetrico.
È modellato sulle precondizioni strutturali e sugli interessi economici
dei paesi del nord, mentre è in conflitto con le condizioni strutturali
delle economie dei paesi del sud, che si vedono così condannati a
lunghi periodi di declino, stagnazione o bassa crescita».
Ma
questa non è una peculiarità dell’eurozona. Questo è tipico di tutte le
unioni monetarie ed economiche: poiché i paesi, come è normale che
siano, hanno diverse strutture economiche – ma non solo: hanno pratiche
sociali, istituzionali, ecc. diverse – l’unione monetaria o economica
finisce sempre per privilegiare un certo modello – di solito quello dei
paesi dominanti: nel nostro caso la Germania – a scapito di altri.
Questo
succede anche all’interno degli Stati nazionali: basti pensare agli
squilibri che si registrano in Italia tra regioni del nord e regioni del
sud. La differenza fondamentale è che negli Stati nazionali – cioè
nelle federazioni compiute – questi squilibri sono compensati da
trasferimenti perequativi (fiscali e di altro tipo) da parte delle
regioni più ricche e da parte dello Stato centrale.
Che è
esattamente quello che non c’è – e non ci sarà, almeno non nel futuro
prossimo – in Europa. È assolutamente impensabile, infatti, che nel
breve-medio termine la Germania accetti un sistema di trasferimenti
fiscali permanenti nei confronti degli Stati più poveri della periferia.
Chiunque conosce un minimo la Germania ed il dibattito tedesco sa che è
così.
E non perché la Germania sia “cattiva”, ma perché non
sussistono – non sono mai sussistite e non sussisteranno nel futuro
prossimo – le condizioni per una reale statualità europea: per la
trasformazione cioè dell’UE in uno Stato democratico sovranazionale. E
la ragione di fondo, a prescindere delle questioni più aritmetiche di
cui parlavo prima, è che la democrazia – come si evince dal termine
stesso – si fonda necessariamente su un demos sottostante: cioè su una
comunità politica – che solitamente si contraddistingue per un
linguaggio, una cultura, una storia, un sistema normativo comuni e
relativamente omogenei, ecc. – i cui membri si sentono sufficientemente
uniti non solo da sottostare a un processo democratico e dunque da
accettare la legittimità del volere della maggioranza, ma anche e
soprattutto da accettare di impegnarsi in prassi solidaristiche quali
appunti le politiche redistributive tra classi e/o regioni.
In
una parola, senza demos non può esistere democrazia, men che meno una
democrazia sociale, cioè solidaristica. E oggi, checché ne dicano i
federalisti, un demos europeo semplicemente non esiste: non solo
parliamo lingue diverse, ma abbiamo prassi sociali, culturali, ecc.
molto diversi.
Dunque oggi – come ieri – la democrazia è
possibile solo al livello nazionale perché solo il livello nazionale
storicamente è stato in grado di creare le condizioni per l’emergere di
un demos. Questo non vuol dire che non possa emergere in futuro un demos
europeo, ma proprio la storia della formazione degli Stati nazionali ci
insegna che questi sono processi molto lunghi e complessi che
richiedono secoli – e da noi il processo è a malapena iniziato.
E
questo alcuni dei primi teorizzatori dell’UE – come per esempio Hayek,
uno dei padri del neoliberismo – lo sapevano benissimo e anzi ne
auspicavano la creazione proprio per questo motivo, cioè proprio perché
sapevano che la diversità di interessi presenti all’interno dell’unione
avrebbe reso impossibile il tipo di intervento pubblico nell’economia e
di politiche redistributive (che osteggiavano) che invece sono possibili
all’interno dello Stato nazionale, che presenta una maggiore omogeneità
interna.
Dunque, per ricollegarmi a quello che dicevo
all’inizio, non si tratta di scegliere tra riformare l’UE o uscire
dall’UE. Si tratta di scegliere tra rimanere nell’UE a grandi linee così
com’è ora – con tutto quello che comporta in termini non solo di costi
economici e sociali ma anche in termini di una ormai sempre più evidente
sospensione della democrazia – o uscire dal sistema (in particolare
dall’euro ma a mio avviso anche dalla stessa UE) e recuperare quel
minimo di autonomia economica e politica – e dunque di democrazia –
necessaria per poter tornare a immaginare un futuro diverso dal
presente. Cioè per rimettere in moto le lancette della storia. Questa è
la scelta che abbiamo di fronte. Tertium non datur.
E anche qua
io sono d’accordo sempre con Luciano Gallino, che poco prima di morire
era giunto alla conclusione che «il costo economico, politico e sociale
delle sovranità perdute a causa dell’euro supera il costo di uscirne». E
se guardiamo a quanto ammonta quel conto, è difficile dargli torto.
Ora,
per quanto riguarda la possibilità o meno di uno Stato di
“sopravvivere” fuori dall’UE, bisogna distinguere tra due livelli: il
primo è l’impatto che avrebbe l’uscita nel breve termine; il secondo è
la possibilità o meno per uno Stato di sopravvivere nel “mare magnum
della globalizzazione” – secondo un’accezione diffusa – fuori dall’UE.
Per
quanto riguarda l’impatto di breve termine, è ovvio che ci sarebbe un
costo. Ma è anche chiaro a mio avviso che la cosa sarebbe gestibile a
livello tecnico. Senza entrare nei dettagli, ricordiamoci che la storia è
piena di unioni monetarie che si sono disfatte (basti pensare
all’Unione Sovietica, alla Jugoslavia o all’unione monetaria
cecoslovacca) così come di paesi che hanno abbandonato unilateralmente
delle unioni monetarie (per esempio diversi paesi africani nel corso
degli anni hanno abbandonato il franco CFA, l’unione monetaria imposta
dalla Francia alle sue ex colonie). E spesso l’hanno fatto in condizioni
molto più deboli e tecnologicamente arretrate di quanto non lo sia
l’Italia oggi.
Basti pensare al fatto che la stragrande
maggioranza delle transazioni e del “denaro” circolante oggi sono
digitali; dunque, non ci sarebbe bisogno di stampare e di distribuire
alle banche vagonate di banconote da un giorno all’altro, ma in un primo
tempo si potrebbe introdurre una nuova valuta a livello digitale.
Dunque la cosa è tecnicamente fattibile, anche se ovviamente ci
sarebbero dei costi, alcuni dei quali non sono quantificabili perché
dipendono da fattori esogeni che sono al di fuori del controllo del
paese uscente.
E poi c’è un altro punto: in politica raramente ci
sono scelte che beneficiano tutti indistintamente. Ogni decisione
politica ed economica tende ad avere degli effetti redistributivi che
vanno a beneficio di alcune classi e a scapito di altre classi. Dunque
la domanda che ognuno dovrebbe porsi non è se sia nell’interesse
“dell’Italia” o meno uscire dall’euro, ma se sia nell’interesse mio in
quanto lavoratore precario, in quanto disoccupato, in quanto persona che
fatica ad arrivare a fine mese, in quanto classe lavoratrice, recuperare
quelle leve economiche necessarie per rilanciare gli investimenti, la
produzione e l’occupazione. Diverso è il discorso, per esempio, se avete
un bel gruzzolo di risparmi in banca o se possedete titoli di Stato
italiani. In quel caso sicuramente subireste una perdita netta.
Dunque
è importare adottare una prospettiva di classe in queste cose. Così
come l’euro non ha fatto male a tutti – e anzi c’è chi ci ha guadagnato
molto: in particolare le classi parassitiche, i rentier, ma anche i
grandi capitalisti – allo stesso modo uscire dall’euro non farebbe male
a tutti e non beneficerebbe tutti.
Dunque la prima domanda che
uno dovrebbe porsi è: «A qualche classe appartengo io?». E sulla base di
quello valutare l’auspicabilità o meno di un’uscita.
Questo per
quanto riguarda l’impatto di breve termine. Per quanto riguarda invece l’idea
stessa che un paese non possa sopravvivere fuori dall’UE, mi pare che
qui si tracimi nel campo della pura ideologia: basta infatti guardarsi
intorno per vedere centinaia di paesi – di ogni tipo: grandi, piccoli,
medi, sviluppati, emergenti, democratici, autoritari, ecc. – che se la
cavano benissimo fuori dall’UE e anzi in molti casi se la cavano molto
meglio dei paesi dell’eurozona.
Per limitarci all’Europa, non mi
pare che l’Islanda, la Norvegia, la Svezia, la Svizzera, ecc. siano in
preda a carestie, more, invasioni di cavallette e altre piaghe di questo
tipo; anzi, come sappiamo bene, sono tutti paesi che in media se la
passano meglio dei paesi dell’eurozona.
Dunque l’idea che
l’Italia – una delle prime dieci economie al mondo – non potrebbe
“farcela” fuori dall’UE è un’affermazione semplicemente ridicola. Il
problema semmai è psicologico: anni e anni di autoflagellazione – spesso
e volentieri fomentata ad arte – ci hanno convinto di non essere in
grado di autogovernarci, di avere bisogno del “vincolo esterno”
dell’Europa per non sprofondare nella barbarie, ecc.
Ma si
tratta, appunto, di un problema psicologico. Basti pensare che prima di
Maastricht – dunque di prima di aderire all’UE – l’Italia se la passava
molto meglio di oggi. Dunque, a meno di non pensare che in questi
trent’anni sia avvenuta una trasformazione antropologica tale da averci
reso dei minus habens, è evidente che il problema è perlopiù di natura
psicologica. Abbiamo tutte le capacità tecniche, intellettuali, morali
per ricostruire il paese. Dobbiamo solo convincercene.
Più in
generale, comunque, è del tutto fallace l’idea che oggi staremmo
assistendo al declino – se non addirittura alla morte – degli
Stati-nazione. Semmai è vero l’esatto contrario.
E a proposito
dell’argomentazione per cui l’Italia avrebbe bisogno dell’UE per non
essere “schiacciata” dai nuovi giganti dell’economia mondiale come la
Cina, vi invito a leggere ciò che scriveva il Financial Times qualche
settimana fa: che se oggi tutti i paesi europei – inclusa l’Italia –
spalancano le porte agli investimenti cinesi è perché l’Europa non
investe: non investono gli Stati, in virtù degli assurdi vincoli di
bilancio europei, ma non investono neanche le istituzioni dell’UE.
Dunque,
l’Europa, lungi dal proteggerci da questi potenze, ci espone alla loro
mercé. Sentite per esempio cosa dice Alberto Bradanini, ambasciatore a Pechino tra il 2013 e il 2015, quindi non esattamente un radicale:
«L’Italia potrà usufruire di qualche beneficio da un’interlocuzione con la Cina se,
dopo aver recuperato la propria sovranità monetaria, saprà avviare una
politica economica degna di questo nome, riavviando il tessuto
industriale ridottosi del 20 per cento nell’ultimo decennio e investendo
massicciamente su innovazione e ricerca. In assenza di ciò, l’Italia è
destinata a raccogliere solo poche briciole dal dialogo con la Cina, sia
in seno che al di fuori del progetto Belt and Road».
Chiaro?
Dunque, per concludere, non solo l’Italia può farcela fuori dall’euro,
ma, come dice Bradanini, può farcela *solo* fuori dall’euro.
Fonte
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