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16/05/2019

Euro: una questione di classe

Nell'ambito del dibattito sull'Europa pubblichiamo un interessante intervento di Thomas Fazi

[Ringraziando Stefano Tancredi, Robin Piazzo e Domenico Cerabona Ferrari per il bell'incontro di ieri a Settimo Torinese, riporto il testo del mio intervento, in cui rispondevo alla seguente domanda: «Un singolo Stato può “reggere” dal punto di vista economico l’uscita dalla realtà economica neoliberista dell’UE? Se “no” perché? È più opportuno un processo di riforme economiche nel contesto europeo? Come rapportarsi ai vincoli economici imposti dall’UE? Se si può “reggere” questa uscita come? Quali strategie adottare? Si deve ritornare alla propria moneta? È possibile un’alleanza economica con altri Stati dalla struttura economica più simile alla nostra?»].

La prima cosa da dire è che c’è poco da scegliere. O meglio, la scelta non è se uscire dall’UE o se riformare l’UE, per il semplice fatto che quest’ultima opzione non è praticabile.

L’UE è strutturata in maniera tale da non essere riformabile, perlomeno non nel senso che auspicano gli integrazionisti di sinistra, cioè nella direzione di una riforma dell’UE in senso democratico e progressivo/sociale, men che meno nella direzione di un vero e proprio Stato federale sul modello degli Stati Uniti o dell’Australia.

Come disse il compianto Luciano Gallino poco prima di morire: «Nessuna realistica modifica dell’euro sarà possibile», in quanto esso è stato progettato «quale camicia di forza volta a impedire ogni politica sociale progressista, e le camicie di forza, vista la funzione per cui sono state create, non accettano modifiche “democratiche”».

Basti pensare che per “riformare i trattati” è necessaria l’unanimità di tutti e 28 gli Stati membri dell’UE. In altre parole, sarebbe necessario che in tutti e 28 i paesi dell’UE salissero al potere dei governi progressisti che condividono le stesse prospettive di riforma “di sinistra” dell’euro. Ora, non bisogna essere particolarmente pessimisti per capire perché questo non accadrà mai.

E non accadrà mai innanzitutto perché le condizioni economiche, politiche, sociali, ecc. che si registrano nei diversi Stati sono estremamente eterogenee: ci sono paesi che registrano tassi di disoccupazione estremamente bassi (come la Germania) e paesi come il nostro che registrano tassi di disoccupazione altissimi; ci sono paesi che crescono e paesi che non crescono, ecc.

E la ragione non è che ci sono paesi virtuosi e paesi non virtuosi, come vorrebbe la narrazione dominante: la ragione è che l’architettura dell’eurozona va bene per alcuni paesi – nella fattispecie i paesi che hanno storicamente una forte propensione all’export: vedi appunto la Germania – e non va bene per altri, come il nostro, che invece storicamente sono molto più dipendenti dalla domanda interna.

Detta in altre parole: gli interessi di noi italiani – e in particolare gli interessi dei lavoratori italiani – non sono gli stessi interessi dei lavoratori tedeschi. Questa è la realtà dei fatti: hai voglia a parlare di “internazionalismo”, come insiste a fare la sinistra europeista.

Come scrive Fritz Scharpf, ex direttore del Max-Planck-Institute: «L’impatto economico dell’attuale regime dell’euro è fondamentalmente asimmetrico. È modellato sulle precondizioni strutturali e sugli interessi economici dei paesi del nord, mentre è in conflitto con le condizioni strutturali delle economie dei paesi del sud, che si vedono così condannati a lunghi periodi di declino, stagnazione o bassa crescita».

Ma questa non è una peculiarità dell’eurozona. Questo è tipico di tutte le unioni monetarie ed economiche: poiché i paesi, come è normale che siano, hanno diverse strutture economiche – ma non solo: hanno pratiche sociali, istituzionali, ecc. diverse – l’unione monetaria o economica finisce sempre per privilegiare un certo modello – di solito quello dei paesi dominanti: nel nostro caso la Germania – a scapito di altri.

Questo succede anche all’interno degli Stati nazionali: basti pensare agli squilibri che si registrano in Italia tra regioni del nord e regioni del sud. La differenza fondamentale è che negli Stati nazionali – cioè nelle federazioni compiute – questi squilibri sono compensati da trasferimenti perequativi (fiscali e di altro tipo) da parte delle regioni più ricche e da parte dello Stato centrale.

Che è esattamente quello che non c’è – e non ci sarà, almeno non nel futuro prossimo – in Europa. È assolutamente impensabile, infatti, che nel breve-medio termine la Germania accetti un sistema di trasferimenti fiscali permanenti nei confronti degli Stati più poveri della periferia. Chiunque conosce un minimo la Germania ed il dibattito tedesco sa che è così.

E non perché la Germania sia “cattiva”, ma perché non sussistono – non sono mai sussistite e non sussisteranno nel futuro prossimo – le condizioni per una reale statualità europea: per la trasformazione cioè dell’UE in uno Stato democratico sovranazionale. E la ragione di fondo, a prescindere delle questioni più aritmetiche di cui parlavo prima, è che la democrazia – come si evince dal termine stesso – si fonda necessariamente su un demos sottostante: cioè su una comunità politica – che solitamente si contraddistingue per un linguaggio, una cultura, una storia, un sistema normativo comuni e relativamente omogenei, ecc. – i cui membri si sentono sufficientemente uniti non solo da sottostare a un processo democratico e dunque da accettare la legittimità del volere della maggioranza, ma anche e soprattutto da accettare di impegnarsi in prassi solidaristiche quali appunti le politiche redistributive tra classi e/o regioni.

In una parola, senza demos non può esistere democrazia, men che meno una democrazia sociale, cioè solidaristica. E oggi, checché ne dicano i federalisti, un demos europeo semplicemente non esiste: non solo parliamo lingue diverse, ma abbiamo prassi sociali, culturali, ecc. molto diversi.

Dunque oggi – come ieri – la democrazia è possibile solo al livello nazionale perché solo il livello nazionale storicamente è stato in grado di creare le condizioni per l’emergere di un demos. Questo non vuol dire che non possa emergere in futuro un demos europeo, ma proprio la storia della formazione degli Stati nazionali ci insegna che questi sono processi molto lunghi e complessi che richiedono secoli – e da noi il processo è a malapena iniziato.

E questo alcuni dei primi teorizzatori dell’UE – come per esempio Hayek, uno dei padri del neoliberismo – lo sapevano benissimo e anzi ne auspicavano la creazione proprio per questo motivo, cioè proprio perché sapevano che la diversità di interessi presenti all’interno dell’unione avrebbe reso impossibile il tipo di intervento pubblico nell’economia e di politiche redistributive (che osteggiavano) che invece sono possibili all’interno dello Stato nazionale, che presenta una maggiore omogeneità interna.

Dunque, per ricollegarmi a quello che dicevo all’inizio, non si tratta di scegliere tra riformare l’UE o uscire dall’UE. Si tratta di scegliere tra rimanere nell’UE a grandi linee così com’è ora – con tutto quello che comporta in termini non solo di costi economici e sociali ma anche in termini di una ormai sempre più evidente sospensione della democrazia – o uscire dal sistema (in particolare dall’euro ma a mio avviso anche dalla stessa UE) e recuperare quel minimo di autonomia economica e politica – e dunque di democrazia – necessaria per poter tornare a immaginare un futuro diverso dal presente. Cioè per rimettere in moto le lancette della storia. Questa è la scelta che abbiamo di fronte. Tertium non datur.

E anche qua io sono d’accordo sempre con Luciano Gallino, che poco prima di morire era giunto alla conclusione che «il costo economico, politico e sociale delle sovranità perdute a causa dell’euro supera il costo di uscirne». E se guardiamo a quanto ammonta quel conto, è difficile dargli torto.

Ora, per quanto riguarda la possibilità o meno di uno Stato di “sopravvivere” fuori dall’UE, bisogna distinguere tra due livelli: il primo è l’impatto che avrebbe l’uscita nel breve termine; il secondo è la possibilità o meno per uno Stato di sopravvivere nel “mare magnum della globalizzazione” – secondo un’accezione diffusa – fuori dall’UE.

Per quanto riguarda l’impatto di breve termine, è ovvio che ci sarebbe un costo. Ma è anche chiaro a mio avviso che la cosa sarebbe gestibile a livello tecnico. Senza entrare nei dettagli, ricordiamoci che la storia è piena di unioni monetarie che si sono disfatte (basti pensare all’Unione Sovietica, alla Jugoslavia o all’unione monetaria cecoslovacca) così come di paesi che hanno abbandonato unilateralmente delle unioni monetarie (per esempio diversi paesi africani nel corso degli anni hanno abbandonato il franco CFA, l’unione monetaria imposta dalla Francia alle sue ex colonie). E spesso l’hanno fatto in condizioni molto più deboli e tecnologicamente arretrate di quanto non lo sia l’Italia oggi.

Basti pensare al fatto che la stragrande maggioranza delle transazioni e del “denaro” circolante oggi sono digitali; dunque, non ci sarebbe bisogno di stampare e di distribuire alle banche vagonate di banconote da un giorno all’altro, ma in un primo tempo si potrebbe introdurre una nuova valuta a livello digitale. Dunque la cosa è tecnicamente fattibile, anche se ovviamente ci sarebbero dei costi, alcuni dei quali non sono quantificabili perché dipendono da fattori esogeni che sono al di fuori del controllo del paese uscente.

E poi c’è un altro punto: in politica raramente ci sono scelte che beneficiano tutti indistintamente. Ogni decisione politica ed economica tende ad avere degli effetti redistributivi che vanno a beneficio di alcune classi e a scapito di altre classi. Dunque la domanda che ognuno dovrebbe porsi non è se sia nell’interesse “dell’Italia” o meno uscire dall’euro, ma se sia nell’interesse mio in quanto lavoratore precario, in quanto disoccupato, in quanto persona che fatica ad arrivare a fine mese, in quanto classe lavoratrice, recuperare quelle leve economiche necessarie per rilanciare gli investimenti, la produzione e l’occupazione. Diverso è il discorso, per esempio, se avete un bel gruzzolo di risparmi in banca o se possedete titoli di Stato italiani. In quel caso sicuramente subireste una perdita netta.

Dunque è importare adottare una prospettiva di classe in queste cose. Così come l’euro non ha fatto male a tutti – e anzi c’è chi ci ha guadagnato molto: in particolare le classi parassitiche, i rentier, ma anche i grandi capitalisti – allo stesso modo uscire dall’euro non farebbe male a tutti e non beneficerebbe tutti.

Dunque la prima domanda che uno dovrebbe porsi è: «A qualche classe appartengo io?». E sulla base di quello valutare l’auspicabilità o meno di un’uscita.

Questo per quanto riguarda l’impatto di breve termine. Per quanto riguarda invece l’idea stessa che un paese non possa sopravvivere fuori dall’UE, mi pare che qui si tracimi nel campo della pura ideologia: basta infatti guardarsi intorno per vedere centinaia di paesi – di ogni tipo: grandi, piccoli, medi, sviluppati, emergenti, democratici, autoritari, ecc. – che se la cavano benissimo fuori dall’UE e anzi in molti casi se la cavano molto meglio dei paesi dell’eurozona.

Per limitarci all’Europa, non mi pare che l’Islanda, la Norvegia, la Svezia, la Svizzera, ecc. siano in preda a carestie, more, invasioni di cavallette e altre piaghe di questo tipo; anzi, come sappiamo bene, sono tutti paesi che in media se la passano meglio dei paesi dell’eurozona.

Dunque l’idea che l’Italia – una delle prime dieci economie al mondo – non potrebbe “farcela” fuori dall’UE è un’affermazione semplicemente ridicola. Il problema semmai è psicologico: anni e anni di autoflagellazione – spesso e volentieri fomentata ad arte – ci hanno convinto di non essere in grado di autogovernarci, di avere bisogno del “vincolo esterno” dell’Europa per non sprofondare nella barbarie, ecc.

Ma si tratta, appunto, di un problema psicologico. Basti pensare che prima di Maastricht – dunque di prima di aderire all’UE – l’Italia se la passava molto meglio di oggi. Dunque, a meno di non pensare che in questi trent’anni sia avvenuta una trasformazione antropologica tale da averci reso dei minus habens, è evidente che il problema è perlopiù di natura psicologica. Abbiamo tutte le capacità tecniche, intellettuali, morali per ricostruire il paese. Dobbiamo solo convincercene.

Più in generale, comunque, è del tutto fallace l’idea che oggi staremmo assistendo al declino – se non addirittura alla morte – degli Stati-nazione. Semmai è vero l’esatto contrario.

E a proposito dell’argomentazione per cui l’Italia avrebbe bisogno dell’UE per non essere “schiacciata” dai nuovi giganti dell’economia mondiale come la Cina, vi invito a leggere ciò che scriveva il Financial Times qualche settimana fa: che se oggi tutti i paesi europei – inclusa l’Italia – spalancano le porte agli investimenti cinesi è perché l’Europa non investe: non investono gli Stati, in virtù degli assurdi vincoli di bilancio europei, ma non investono neanche le istituzioni dell’UE.

Dunque, l’Europa, lungi dal proteggerci da questi potenze, ci espone alla loro mercé. Sentite per esempio cosa dice Alberto Bradanini, ambasciatore a Pechino tra il 2013 e il 2015, quindi non esattamente un radicale: «L’Italia potrà usufruire di qualche beneficio da un’interlocuzione con la Cina se, dopo aver recuperato la propria sovranità monetaria, saprà avviare una politica economica degna di questo nome, riavviando il tessuto industriale ridottosi del 20 per cento nell’ultimo decennio e investendo massicciamente su innovazione e ricerca. In assenza di ciò, l’Italia è destinata a raccogliere solo poche briciole dal dialogo con la Cina, sia in seno che al di fuori del progetto Belt and Road».

Chiaro? Dunque, per concludere, non solo l’Italia può farcela fuori dall’euro, ma, come dice Bradanini, può farcela *solo* fuori dall’euro.

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