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20/05/2019

Genova - Chi fa la guerra non va lasciato in pace!

Nel mentre scriviamo la nave Bahri Yanbu, della maggiore compagnia di navigazione saudita e vettore consolidato del traffico di armi che alimenta la più grande catastrofe umanitaria mondiale (secondo la definizione dell’ONU) ovvero la guerra in Yemen è nella rada del porto di Genova ed entrerà – se entrerà – nello scalo ligure lunedì mattina alla sei circa.

Per quell’ora è convocato un presidio – anticipato di alcune ore rispetto all’indizione precedente – di fronte al varco portuale Etiopia, su lungomare Canepa, uno dei principali accessi all’area portuale nella delegazione di Sampierdarena.

La nave saudita è salpata ad aprile dagli States e ha imbarcato il 4 maggio container di munizioni al porto di Anversa, e sarebbe dovuta entrare l’8 maggio nel porto di Le Havre per caricare 8 cannoni semoventi Caesar da 155 mm prodotti da Nexter, rinunciandovi per la decisa opposizione e l’azione intrapresa nello scalo francese da associazioni pacifiste e dockers.

Questi sistemi d’arma, non caricati nello scalo francese sarebbero stati spostati su rotaia per essere poi imbarcati dallo scalo ligure di La Spezia.

Nello scalo iberico non previsto, nel porto di Santander, dov’è approdata dopo il mancato arrivo a Le Havre, la nave ha incontrato l’opposizione di forze che ne hanno denunciato la funzione militare, ma nonostante le denunce e gli esposti alla magistratura delle associazioni pacifiste “avrebbe caricato armi e munizioni solo destinate ad una esposizione negli Emirati Arabi Uniti”, come riporta l’OPAL, prendendo spunto da ciò che era accaduto nello scalo francese.

Il porto di le Havre è stato uno dei maggiori epicentri dell’opposizione all’approvazione della Lois Travaille durante la presidenza Hollande – “il job act” francese – e le immagini della marea umana che costantemente usciva in sciopero dallo scalo è ancora viva nella memoria di chi ha seguito quel movimento di lotta.

Allo stesso tempo la città portuale è stata uno dei punti di forza e di congiunzione dei gilets jaunes e delle “giacche rosse” del sindacato – insieme a Tolosa, Marsiglia, Parigi, Bordeaux, ecc. – durante questi sei mesi di mobilitazione permanente iniziati il 17 novembre 2018 in Francia.

Un movimento che è stato una scuola politica di massa, in cui varie tematiche sono state conosciute e fatte proprie da un ampio fronte di lotta in una coniugazione di rivendicazioni politiche e sociali in cui si sono innestati i temi della transizione ecologica, della parità di genere, della condizione abitativa fino alla critica alla tendenza alla guerra e al coinvolgimento della Francia in conflitti, come quello Yemenita.

L’Arabia Saudita, che guida la coalizione che dal 2015 ha dato vita all’escalation militare contro lo Yemen – colpevole in sostanza di avere defenestrato dalla sua posizione di potere un “uomo dei sauditi” nel 2014 – è il secondo cliente per il commercio di armi francese.

L’establishment governativo aveva sempre pervicacemente negato il coinvolgimento dei dispositivi bellici francesi venduti alla petromonarchia saudita nel conflitto yemenita, ma una inchiesta giornalistica (prima del mancato sbarco a Le Havre) ha reso pubblici alcuni documenti ufficiali che smentiscono clamorosamente le menzogne di Macron e del suo entourage.

I due autori dell’inchiesta giornalistica sono stati interrogati dai servizi segreti interni francesi e su di loro è stata aperta un’indagine, suscitando l’indignazione dell’opinione pubblica e degli altri operatori dell’informazione (che hanno fatto un comunicato più complessivo sul diritto di informazione citando il caso) per questo abuso di potere nei confronti di coloro che hanno solo fatto quello che sarebbe uno dei principali doveri per l’informazione nei confronti dell’assetto di potere: dire che è il re è nudo.

Questa manovra “a tenaglia” coronata dall’azione di Le Havre ha contribuito ad una maggiore delegittimazione del “presidente dei ricchi” e posto in evidenza il ruolo della Francia nei conflitti che infiammano l’Africa e il Medio Oriente.

Bisogna infatti ricordare che il neo-colonialismo francese, oltre alla funzione che svolge attraverso il Franco CFA e le sue multinazionali nel continente africano, agisce anche con una presenza militare ormai costante nell’Africa Trans-Sahariana, senza che sia stata limitata la presenza dello “jihadismo” e la strage dei civili – come è avvenuto in Mali, per esempio – in cui in primavera la popolazione dopo l’ennesima strage ha manifestato contro la presenza militare di Parigi.

Un altro dato importante è la sponsorizzazione del signore della guerra libica, Haftar, che ha lanciato una escalation militare su Tripoli, provocando altre immani sofferenze a questo martoriato popolo, e di fatto mandando all’aria qualsiasi ipotesi di “pacificazione” del conflitto.

Una ragione in più per sostenere, senza se e senza ma, la “marea gialla” e l’ampio fronte di lotta contro Macron ed il mondo che l’ha generato.

L'Italia, come la Francia, è pesantemente coinvolta in questo traffico di morte grazie agli accordi firmati durante il governo targato PD (mantenuti dall’attuale governo giallo-verde) ed aveva visto la ministra Pinotti tra le maggiori responsabili – e allo stesso tempo negatrici – del coinvolgimento del paese nel conflitto yemenita.

Una partecipata assemblea alla sala chiamata della Compagnia Unica Lavoratori Merci Varie Paride Battini – la storica cooperativa di camalli che impiega 1.000 lavoratori dello scalo ligure – promossa dai delegati sindacali della Filt-CGIL della CULMV, ha fatto il punto sull’annunciato arrivo della nave e del suo carico, ribadendo il rifiuto di “lavorare” materiale bellico e chiamando la città a sostenere questo rifiuto e denunciando il traffico d’armi precedente, prendendo una chiara posizione di opposizione all’aggressione militare al popolo yemenita.

Nei giorni precedenti delegati della FILT CGIL della CULMV e dei terminal privati dello scalo genovese si erano riuniti e avevano chiesto formalmente al segretario generale, Natale Colombo, di farsi carico della situazione e prendere una posizione contraria allo scalo della nave.

Colombo ha condiviso e sostenuto le preoccupazioni dei portuali liguri, ribadendo in un lancio dell’ANSA del 15 maggio la richiesta che in casi come questo il Ministro dell’Interno dovrebbe intervenire, chiudendo “i nostri porti per evitare che la nave in questione possa caricare armi anche nel nostro paese”.

Il segretario nello stesso comunicato ha ribadito che “resteremo vigili e al fianco dei lavoratori portuali di Genova affinché nessuno utilizzi i nostri porti per alimentare conflitti che violano i diritti umani”.

Bisogna ricordare che l’iniziativa è partita dalla “base” dei lavoratori portuali più impegnati a vario titolo nell’azione politico-sindacale in questi anni, e che non è la prima “denuncia” di un traffico di strumenti di morte che da quattro anni almeno passa per il maggior porto italiano, cui fino ad ora non era stata dato il giusto rilievo dalla stampa mainstream e dalle forze politiche organizzate.

Già nei mesi precedenti, il Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali, un organismo che da anni è protagonista delle mobilitazioni nello scalo e nella città, aveva denunciato questo genere di traffici avvenuto nel terminal gestito dalla GMT, continuando una denuncia puntuale delle condizioni di lavoro in generale nel porto (dalla lotta contro l’auto-produzione sulle banchine alla precarietà e alla mancanza di sicurezza che caratterizza ormai anche il lavoro portuale).

Nel corso dell’assemblea è stato ribadito che se la nave, come nega capitaneria portuale e prefettura, ha in stiva o carica materiale a fine bellico – dopo una ispezione da parte del personale che sarebbe incaricato delle operazioni di carico-scarico della merce – scatterà lo sciopero, “rafforzato” dalla presenza solidale che comunque ci sarà all’accesso dell’area portuale in uno dei principali varchi e che inizierà all’alba.

Dalle foto della banchina del Ponte Eritrea (terminal Steinweg-GMT) sono in attesa alcuni imballi di grandi dimensioni. “apparentemente shelter per generatori elettrici fabbricati da TECKNEL Srl di Roma, che come hanno affermato l’agenzia delta (Gastaldi) che gestisce la nave, la prefettura e la capitaneria genovese, non si tratterebbe di materiale classificato come militare.

Queste componenti vendute ai sauditi però come riporta il sito dell’OPAL sono parti essenziali per il controllo dei droni, la cui consegna iniziata nel 2018 sono ancora in corso.

In più la nave contiene senz’altro materiale bellico imbarcato a Sunny Point negli USA – maggior terminal militare del mondo – ad Anversa in Belgio, a Santander e probabilmente a Tibury, in Gran Bretagna e Bemerhaven in Germania.

La mobilitazione di una parte dei portuali e della città (dalle forze dell’opposizione politico-sindacale alle reti pacifiste e del mondo cattolico) è uno dei punti più alti di opposizione alla tendenza alla guerra ed uno dei rari momenti in cui uno conflitto rimosso come quello yemenita torna alla ribalta e costringe a pensare a quella “terza guerra mondiale” a pezzi di cui parla apertamente da anni il Pontefice.

Una guerra quella in Yemen in cui “la carne da cannone” è costituita per buona parte da soldati – anche bambino – provenienti dal Sudan, in particolare dal Darfur che vengono pagati attraverso un istituto bancario saudita, uno stato che materialmente paga gli satati che contribuiscono alla coalizione in una sorta di ricatto che si fa forza grazie ai proventi economici del settore petrolifero (così come avviene per Pakistan, Giordania, ecc.)

Ma questa “carne da cannone” da mesi si sta ribellando ed ha defenestrato Bashir – un dittatore sanguinario che dal 1989 governava il paese africano grazie ad un colpo di stato in cui le forze più retrive dell’islam politico gli hanno dato un fondamentale appoggio ed hanno fatto diventare la Sharia – introdotta nell’83 in Sudan – l’architettura del paese, insieme alla feroce repressione degli oppositori politici ed il razzismo istituzionale delle componenti più marginalizzate della popolazione ora al centro della protesta insieme alle donne.

Mentre l’autorità militare che governa transitoriamente il paese dall’11 aprile dopo la destituzione del presidente avvenuta con un “colpo di stato” al picco di una storica mobilitazione popolare vuole continuare l’avventura militare in Sudan (i due suoi principali esponenti sono vicini all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti), la coalizione che da metà dicembre ha guidato le proteste – tra cui il Partito Comunista Sudanese – vuole risolvere i conflitti armati interni e porre fine all’avventura bellica in Yemen.

Una ragione fondamentale in più per sostenere la rivoluzione sudanese.

La mobilitazione genovese ha aperto uno squarcio nel velo di ipocrisia di cui si sono cinti tutti coloro che ad ogni ordine e grado, in qualsiasi schieramento politico e sindacale, hanno sostenuto e alimentato il business della guerra, provocando sofferenze indicibili ad un popolo che da poco tempo aveva conosciuto la riunificazione, in cui il colera ormai è diventato endemico, e i bambini muoiono di malnutrizione quando non vengono massacrati dai bombardamenti della coalizione saudita, a cui il nostro governo, come quello francese, vende armi.

I camalli genovesi – come gli attivisti in Francia ed in Spagna prima di loro – mostrano la via, e inchiodano alle loro responsabilità chi ha dichiarato di essere al loro fianco e che ha disertato questa importantissima lotta, e di denunciare il ruolo nefasto che l’Unione Europea (ed i governi alla testa degli stati che la compongono) svolge nella spirale bellica perché: chi fa la guerra non va lasciato in pace.

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