Il tema immigrazione è, da ormai molti
anni, ostaggio di un pericoloso scontro retorico tra due visioni
apparentemente diverse, ma del tutto convergenti nel vedere nello
straniero un oggetto, un mero strumento da valutare nel suo impatto sul
benessere economico degli italiani.
All’odiosa schiera, sempre più nutrita,
degli xenofobi di professione e dei fomentatori d'odio, coloro che
nello straniero vedono il pericolo principale per la stabilità sociale e
l’integrità culturale ed una serissima minaccia per i posti di lavoro
degli italiani, rispondono, con numeri e dati sciorinati
meticolosamente, coloro secondo i quali senza stranieri il Paese
andrebbe a scatafascio, l’economia collasserebbe e lo stato sociale non
potrebbe più essere finanziato.
La prima visione semina odio e guerra tra
poveri; la seconda, apparentemente conciliante nelle conclusioni,
semina in verità un similissimo razzismo strisciante e una mostruosa
concezione reificata e strumentale dell’immigrato e di tutti i soggetti
economici subalterni.
Una recente indagine
della UIL e dell’istituto di ricerca EURES, riportata con entusiasmo da
diversi periodici di ispirazione liberal-progressista, ha simulato cosa
accadrebbe nella regione Lazio se d’un tratto scomparissero tutti i
lavoratori stranieri: “Scompaiono colf, babysitter, muratori,
infermieri, cuochi, commercianti e imprenditori. Le aule si svuotano,
diminuiscono i matrimoni. Tremano le casse dell’Inps. Le città sono in
tilt. Cosa accadrebbe se sparissero di colpo tutti gli immigrati in una
regione come il Lazio? Il Pil regionale crollerebbe di 19 miliardi di
euro, i conti della previdenza registrerebbero un buco milionario,
salterebbero 80mila imprese e 300mila occupati”.
Così, con questa serie di numeri e dati da panico collettivo, un articolo di Repubblica introduce
la descrizione della ricerca UIL-Eures. Entrando nel merito dello
studio, i numeri riportati dimostrerebbero dapprima che interi settori
dell’economia regionale subirebbero un drammatico tracollo: in
agricoltura con 20.000 posti di lavoro persi; nel lavoro domestico
(pulizie e badanti) dove l’84% degli occupati sarebbe costituito da
stranieri con conseguenze drammatiche (sic!) sulla vita degli anziani non autosufficienti. Poi viene affermato, con un artificio retorico già usato
insistentemente dall’ex presidente dell’INPS Tito Boeri, un inevitabile
tracollo del sistema previdenziale dovuto al fatto che i lavoratori
stranieri, data la composizione anagrafica, versano molti più contributi
di quanti ne ricevano i pensionati stranieri. Si passa poi alla scuola
asserendo che l’ipotetica scomparsa di tutti gli studenti stranieri
comporterebbe uno svuotamento delle aule con un esubero di
ben 6800 insegnanti. Ed infine, ciliegina conclusiva, crollerebbe
persino il numero di matrimoni visto che gli italiani si sposano sempre
meno mentre le coppie straniere sempre di più. Insomma grazie agli
stranieri la nostra economia e società starebbe evitando quello che,
altrimenti, sarebbe un inevitabile collasso!
Sembrerebbe quasi superfluo rimarcare la
disarmante banalità e sciattezza di questi dati usati come presunta
dimostrazione dell’utilità della popolazione straniera negli equilibri
socio-economici del sistema Italia. Vale però la pena
entrare nel merito del ragionamento di fondo che fa da sfondo
all’elencazione dei presunti effetti benefici della presenza degli
immigrati nell’economia del paese.
Quando ad esempio si afferma che il
settore agricolo o quelli dei servizi di badanti, colf e lavoratori
domestici crollerebbero e che i nostri anziani si troverebbero senza
possibilità di assistenza si sta commettendo un doppio e gravissimo
scivolone: da un lato si dipinge lo straniero come un soggetto
stabilmente dedito a determinate attività a bassa qualificazione, una
sorta di ruolo eterno che il migrante di turno sarebbe condannato a
svolgere adempiendo così a quelle funzioni vitali che il lavoratore
italiano non vorrebbe più compiere; inoltre si rappresenta l’economia
come un sistema di relazioni cristallizzate, in cui i salari sono dati,
le condizioni di lavoro sono date e, di conseguenza, l’ipotetica
sparizione della popolazione straniera farebbe automaticamente fallire
l’intera agricoltura italiana, dando per scontato che un italiano quel
lavoro non lo svolgerebbe mai perché mal pagato e massacrante. Un
pregiudizio economico e culturale che parte dal doppio assunto che
un’ora di lavoro agricolo o domestico venga pagata con salari da fame immutabili
e che esistano lavori che, in quanto tali, nei paesi più sviluppati
vengano a priori scartati dai lavoratori locali e che uno Stato non
possa intervenire nell’economia per fornire servizi (ad esempio alla
popolazione anziana oggi presa in cura dal sistema dei badanti
stranieri).
Il secondo spauracchio agitato è quello
dei conti pensionistici che finirebbero inesorabilmente in rosso senza
lavoratori stranieri. Anche qui si mischiano numerosi pregiudizi e
credenze tipiche dell’ideologia dominante. Da un lato il consueto terrorismo infondato
sull’insostenibilità strutturale dei sistemi pensionistici nei paesi a
demografia declinante come l’Italia; dall’altro l’idea secondo cui
l’immigrato è e sempre sarà un oggetto itinerante destinato a non
radicarsi, a lavorare come schiavo per qualche anno per far funzionare
la macchina economica del paese versando anche contributi previdenziali,
per poi ritirarsi altrove senza percepire la pensione avendo così
un’eterna posizione di contribuente netto.
Infine, la boutade conclusiva
sulle scuole, per cui si perderebbero 6800 posti di lavoro tra gli
insegnanti, è totalmente priva di senso. La scuola italiana ha un
disperato bisogno di personale e di manutenzione. Classi-pollaio,
evasione scolastica, aule sporche e strutture pericolanti sono problemi
che poco hanno a che fare con la platea di studenti iscritti e molto con
i vincoli imposti alla finanza pubblica. Non è certo dalla prolificità
degli immigrati, ancora una volta ridotti a strumento (stavolta per
l’occupabilità degli insegnanti) che dobbiamo aspettarci un aumento
degli investimenti in istruzione, un miglioramento del sistema
scolastico, un dimensionamento adeguato del corpo docenti. Questi
dovrebbero essere obiettivi delle politiche pubbliche indipendentemente
dalla questione migratoria.
In definitiva, i risultati della ricerca
UIL ed EURES forniscono il tipico quadro ad uso e consumo di chi
nell’immigrato lavoratore vede uno strumento usa e getta di
valorizzazione del profitto dei capitalisti, ma copre ideologicamente
questa funzione asserendo improbabili teoremi sul ruolo imprescindibile
dei lavoratori stranieri come strumenti irrinunciabili per il
funzionamento del sistema economico.
Un teorema costruito su deleteri
pregiudizi culturali, su una visione segregante della società,
sprezzante nei confronti tanto dell’immigrato quanto del lavoratore
autoctono, nonché su una lettura liberista del sistema economico. Una
concezione del mondo in cui l’immigrato è e deve restare l’ultima ruota
del carro, costretto a svolgere lavori temporanei, dequalificati e mal
pagati e a supplire alle inevitabili carenze di uno stato sociale ormai a
brandelli. Una narrazione in cui il lavoratore italiano è invece il
“privilegiato” che non vorrebbe mai fare quei lavori, come se i livelli
salariali fossero una variabile indifferente. Una concezione in cui la
distribuzione del reddito e la produzione di beni e servizi sono
determinate dal mercato e in cui lo Stato non è capace di determinare i
livelli occupazionali, offrire servizi e garantire il funzionamento del
sistema pensionistico.
Se questi fossero davvero i miseri
argomenti economici e culturali per arginare il razzismo dilagante, non
ci sarebbero allora speranze. Il razzismo buonista
del mito dello straniero che salva un’economia altrimenti insostenibile
non fa altro che incrementare esponenzialmente il razzismo cattivista
di reazione di chi nello straniero individua un capro espiatorio per
spiegare la propria condizione di subalternità, in una spirale senza
fine. Soltanto una concezione radicalmente diversa del sistema
economico e del ruolo dei lavoratori, tutti, nella loro dignità di
classe sociale e di persone, può ribaltare ogni pregiudizio razzista e
classista, arginando l’onda del pensiero segregante che sta devastando
il tessuto sociale del paese e rilanciando la lotta di classe. Una lotta
che deve necessariamente vedere i lavoratori italiani e quelli
immigrati combattere fianco a fianco contro chi, in un modo o nell’altro, vorrebbe vederli contrapposti per perpetuarne lo sfruttamento.
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