di Luca Baiada
Che un cittadino non sia permesso ucciderlo o deportarlo; se succede,
che lo Stato si muova contro i colpevoli e non a loro favore. È il
minimo sindacale della cittadinanza.
La prima volta che me l’hanno detto, non l’ho creduto. Familiari di
italiani uccisi o deportati dai tedeschi dal 1943 al 1945, anche di
partigiani, fanno cause civili contro la Germania davanti ai tribunali
italiani. Si può, l’ha ristabilito la Corte costituzionale nel 2014, e
si ottengono decisioni favorevoli, con condanne a risarcimenti in
denaro, anche se poi è difficile eseguirle. Il punto è che l’Avvocatura
dello Stato, giuristi specializzati, difensori e consulenti della
Repubblica italiana, interviene nei processi. Intervento ad adiuvandum, in questi casi in favore di Berlino. Insomma, chiede ai tribunali di respingere le richieste.
Difficile da credere, perché la Germania si può permettere avvocati
privati; in passato, anche chiamata come responsabile civile in processi
penali ai suoi militari, si è rivolta a un noto studio legale. Poi ha
preso a non comparire neanche e a mandare una lettera ai giudici, contro
la procedura. Difficile da credere, perché in passato, proprio in
processi penali, l’Avvocatura è comparsa per il governo italiano,
ottenendo le condanne economiche degli imputati (che si sono guardati
bene dal pagare). Difficile da credere, soprattutto, perché
l’Avvocatura, finanziata dal contribuente, sembra assumere quasi la
difesa d’ufficio civile della Germania; questo, per debiti che non sono
conti d’osteria ma crimini: massacri per decine di migliaia di vittime,
deportazioni di centinaia di migliaia di persone. Delitti che in quei
due anni epocali furono l’ostacolo, il rovescio e la vendetta contro il
faticoso riscatto dal fascismo, cioè contro l’edificazione della
Repubblica di cui l’Avvocatura fa parte.
Difficile da credere ma vero. L’Avvocatura interviene, argomenta e i
tribunali le danno torto, riconoscendo un risarcimento; il vincitore
della causa ottiene un foglio di carta ma fatica a trovare un bene
tedesco, in Italia, per eseguire cosa c’è scritto. Se invece provasse a
portare il foglio in Germania, pur venendo da un paese europeo, farebbe
un buco nell’acqua. A prescindere dagli esiti, resta il fatto che
l’Avvocatura assume questa posizione. Non è così proprio in ogni causa:
in qualche caso isolato è rimasta assente.
L’Avvocatura, che a differenza dei liberi professionisti non ha
bisogno di dimostrare il mandato e difende l’amministrazione per legge,
compare a volte in nome della Presidenza del consiglio, a volte del
Ministero degli esteri. Dai dati disponibili, la sua attivazione
sembrerebbe iniziare non prima dello stesso anno del vertice
italo-tedesco di Trieste (Berlusconi-Merkel, novembre 2008); in
quell’anno la Cassazione ribadisce che si può condannare lo Stato
tedesco.
Ce n’è abbastanza per provare a capire di più, anche perché a
comparire per gli uffici governativi è una struttura altamente
qualificata, ci lavorano legali scelti con una selezione severissima, e
schierare nella contesa un pezzo di quel calibro è una cosa grossa.
Nel 2016 il decreto legislativo 97, «decreto trasparenza», ha introdotto il FOIA, Freedom of Information Act.
La normativa ha dei limiti ma va apprezzata: c’è un nuovo istituto,
l’accesso civico generalizzato. Secondo la legge chiunque, non
necessariamente giornalista o studioso, può chiedere atti e documenti
«allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento
delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e
di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico». Suona bene.
Il Dipartimento della funzione pubblica scrive: «Con la normativa
FOIA, l’ordinamento italiano riconosce la libertà di accedere alle
informazioni in possesso delle pubbliche amministrazioni come diritto
fondamentale». Una bella novità, nell’Italia dei segreti, dei misteri,
delle trame, delle trattative, degli omissis, dei sottintesi, del qui lo
dico e qui lo nego. I silenzi hanno un brutto retrogusto. Liliana
Segre, nel convegno al Senato Stragi e deportazioni nazifasciste: per la giustizia e contro l’ambiguità,
accorata: «Rivedere che non solo l’Armadio della vergogna è rimasto lì,
mezzo aperto e mezzo chiuso, ma che si riapre un’altra vergogna, del
detto e non detto».
È stato chiesto l’accesso, all’Avvocatura dello Stato e alla
Presidenza del consiglio, per sapere chi e come ha ordinato gli
interventi nei processi civili. Le domande sono state rigettate. Allora,
istanze di riesame e poi un ricorso al Tar del Lazio. Tutto seguendo la
procedura.
L’accesso, il riesame e il ricorso non chiedono di posizionarsi
diversamente, di tutelare i parenti dei massacrati e deportati, ma solo
di chiarire quale governo, quale ministro, chi ha disposto quegli
interventi davanti ai tribunali. Non si dice all’Avvocatura «smettete»,
ma «fate sapere chi l’ha chiesto e perché». Tutto qui. È democrazia,
sapere chi ha preso una decisione e se ha offerto una motivazione, un
perché, un per chi. Si può sapere chi ha voluto spostare un
semaforo o chiudere un ospedale; si deve sapere chi ha deciso di
chiedere ai tribunali di negare i risarcimenti.
Uno Stato attiva suoi abili giuristi in difesa degli interessi di uno
Stato estero, debitore per eccidi e deportazioni dei suoi cittadini.
Colpisce, quanto l’indifferenza delle forze politiche che si dichiarano
antifasciste, o semplicemente democratiche, o anche solo populiste,
forzute, sovraniste, fraterne, veritofore, familiofile, buone come il
pane, generose come il vino.
Il silenzio degli storici, quello si spiega con la convinzione che la storia sia una cosa distante dalla giustizia,
quasi un laboratorio a luce fredda. Che il diritto al risarcimento, per
i crimini che studiano, sia ancora aperto, è una nozione con cui non
fanno i conti: passato, per loro, vuol dire senza conseguenze.
Merita un discorso a parte la circostanza che un gruppo, fra gli
storici, abbia ricevuto finanziamenti da Berlino, proprio dopo il
vertice di Trieste del 2008, per realizzare prodotti culturali,
presentati come riparazione o lenimento o memoria attiva.
Eppure, se si schierassero per i risarcimenti, la Germania non potrebbe
chiedere indietro quel poco denaro. Al più direbbe che l’Italia fa
sempre giri di valzer, ma avrebbe torto perché gli storici non sono i
creditori. E poi, proprio l’approfondimento di quei fatti –
devastazioni, eccidi, stupri, incendi, bambini massacrati, partigiani
impiccati col filo spinato – gli storici dovrebbe averli scossi.
Col ricorso alla giustizia amministrativa sarà deciso non cosa si
deve fare, ma se si può sapere chi è stato, a scegliere di fare ciò che
si sta facendo. Le questioni coinvolte sono complesse: leggi, una
circolare, una delibera dell’Autorità nazionale anticorruzione e altro.
La sostanza è chiara: quanto sono conoscibili le scelte dell’autorità e
cosa vale un essere umano quando cozza contro il potere, magari mentre
cerca libertà e castagne in un bosco a Monte Sole nel 1944, o verità fra
dati contraddittori nel Ventunesimo secolo. Mentre i giuristi
distinguono, il passato finge di essere passato, il futuro si fa
attendere e il presente si dice orfano per la vergogna di non avere
figli.
Chissà come proseguirà la battaglia per la giustizia su stragi e
deportazioni. La cantavano bene, i Gufi, quella canzone partigiana:
«Questa notte mi sono insognato che ero sceso giù in città: c’era mia
mamma vestita di rosso che ballava col mio papà; c’era i tedeschi
buttati in ginocchio che chiamavano pietà; c’era i fascisti vestiti da
prete che scappavan di qua e di là. Se non ci ammazza i crucchi, se non
ci ammazza i bricchi, quando saremo vecchi ne avrem da raccontar...».
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