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31/05/2019

Vivere alla fine del giorno

di Jack Orlando

È possibile definire grande democrazia un paese dove la polizia uccide quasi mille persone l’anno? Dove i tassi di malnutrizione infantile, povertà cronica e violenza endemica sono gli stessi di un teatro bellico?

Si direbbe di no, eppure è questa la condizione degli Stati Uniti d’America; il gigante più giovane dell’età degli imperi, che ha saputo plasmare, a sua immagine e somiglianza, l’Occidente stesso da cui è nato, un gigante dai piedi d’argilla che si voleva invincibile e che ora scorge il proprio tramonto.

Le contraddizioni stridenti del sistema yankee sembrerebbero ad una prima indagine storpiature inspiegabili. Com’è possibile che la terra del benessere e dei sogni a portata di mano possa far convivere, nelle sue città, accumulazione sfrenata di ricchezza e lande sterminate di miseria?

È possibile perché l’essenza stessa di un certo modo di produrre ricchezza e concepire la democrazia si fonda proprio sul diritto del censo più forte, sulla violenza sistematica e sulla negazione di dignità degli esseri su cui questa ricchezza è prodotta.

D’altronde è il paese costruito col sudore degli schiavi, espanso con lo sterminio dei nativi, reso grande dal saccheggio di ogni terra di prossimità. Rapimento, omicidio, rapina, governo, profitto.

La questione nera, dramma cardine della storia americana, ben lungi dall’essersi risolta con l’elezione di un afroamericano alla Casa Bianca, è riemersa dopo alcuni decenni di buio e il mondo ha scoperto che esiste ancora l’apartheid e che la violenza razziale appartiene ancora agli attrezzi di dominio dello Stato, che ancora si muore di fame sotto le insegne dell’opulenza capitalista.

I viadotti degli Stati Uniti post-crisi sono diventati spontanei slums di tende e cartoni abitati da esseri umani che hanno perso tutto dopo essere stati espulsi dal mondo del lavoro; le vestigia della Rust Belt, la vecchia cintura industriale, presentano uno scenario desolante disertato da chiunque ne avesse l’opportunità ed in cui sono rimasti a contendersi le briciole solo i più disperati; i quartieri dei neri, peggio ancora, arrancano in un limbo a metà tra la quarantena e l’abbandono di stato.

Praticamente ogni membro della comunità afroamericana è immerso, già dall’infanzia, in un ambiente afflitto dalla fame, dal razzismo, dalle bande armate, dalla dilagante dipendenza dalle droghe, dall’abuso di potere e dall’assenza di vie d’uscita dalla povertà; arrivare ai trent’anni senza essere in galera o sotto terra per overdose o morte violenta è considerabile un lusso.

La narrazione ufficiale, fedele ad una tradizione colonialista, vorrebbe i neri come soggetti irrecuperabili, antisociali ed autodistruttivi ed a guardare le statistiche si scoprirebbe che è anche vero che nei ghetti ci si ammazza di più, ci si rapina di più, ci si droga di più, si stupra di più, si rinuncia di più ad una vita ordinaria ma, d’altronde, come potrebbe essere diverso quando la storia ed ogni forza del paese condannano ogni giorno e senza appello questa comunità ad una condizione perenne di morte in vita, di disperazione e svilimento?

Il movimento Black Lives Matter, reazione agli omicidi polizieschi, ha riacceso le luci su questo universo negato, risvegliando l’interesse ed l’attenzione del mondo su di sé. Non a caso ha ricominciato ad essere oggetto di studio, narrazione, analisi. L’ultimo prodotto, cronologicamente, di questo interesse è il docufilm di Roberto Minervini: Che fare quando il mondo è in fiamme, un ritratto neorealista in bianco e nero della vita nel ghetto di Baton Rouge.

È un racconto della resistenza (o resilienza) a quest’inferno terreno, resistenza individuale o collettiva, politica o esistenziale; unica possibilità di riscatto per questi dannati della metropoli.

Resistono quei bambini che provano a crescere sani in un’aria malata, resiste quella donna che tenta di conservare il proprio lavoro e il proprio equilibrio nonostante i colpi della vita, resistono gli indiani contro lo spettro della gentrificazione che sottrae il tetto a chi già fatica ad avere pane, resistono le nuove pantere nere che cercano di rivitalizzare le vecchie parole d’ordine del Black Power.

È un film di denuncia che fa il paio con il precedente Louisiana (2015) che invece narra della non-vita dei bianchi poveri, i redneck/white trash del sud rurale e dimenticato da dio. Certamente è un film che ha il pregio di dare voce a chi voce non ne ha, che costringe a guardare ciò che ancora non si vuole vedere e che, per chi non ha alcuna cognizione del contesto americano, sarà probabilmente un pugno allo stomaco.

C’è però da dire che basta una conoscenza minimamente approfondita dell’argomento per notare che è un film che resta in superficie, non entra purtroppo nel profondo del ghetto: questa sensazione di vivere in un crepuscolo interminabile, dove il domani o non c’è o, se c’è, non sarà che peggio dell’oggi è perfettamente ripresa dalla telecamera ma rimane una sorta di condizione naturale ed immanente della vita afroamericana, probabilmente andare più al fondo dei meccanismi economici, sociali e politici che determinano questa condizione avrebbe reso un maggior servizio alla causa nera nonché una critica strutturale al sistema americano, che andasse oltre la dimensione pasoliniana.

Anche le minacce del Ku Klux Klan, la testa mozzata, le svastiche sulle scuole e le ronde armate delle Black Panthers somigliano, più che ad espressioni politiche di tensioni reali e determinanti, a rimanenze di un passato remoto, spettri che ancora vagano anacronisticamente in un’epoca che si sovrappone al loro tempo. Eppure le Panthers sono impegnate nel rivendicare giustizia per la morte di Alton Sterling, ucciso negli stessi giorni di Philando Castile in modo egualmente brutale e ingiustificabile, in una delle fasi di picco del movimento nero e dei disordini razziali che hanno attraversato il paese contando anche atti di spontaneismo armato contro la polizia.

La stessa regia, con una fotografia magistrale ed una scala di grigi che restituisce forte il senso di marginalità e di sogni negati, concentrandosi sui corpi lascia fuori un’altra grande protagonista della vita dei ghetti: l’urbanistica. Le inner cities dei neri sono ambienti degradati e degradanti, fatti di alloggi malsani, sovraffollamento; il deserto sociale ed esistenziale è ovunque riflesso da edifici sventrati dall’abbandono e grate di ferro alle finestre non di rado forate da proiettili; l’economia asfittica dei ghetti è fatta di rivendite di liquori, rigattieri, piccole botteghe scalcagnate. Non è mai pienamente comprensibile la sfera dell’umano se non si tiene conto del contesto in cui questa vita va dispiegandosi e quali siano gli spazi, tanto fisici che relazionali, che permettano il manifestasi di comunità.

In definitiva potremmo dire: è un bel film, che nonostante i passaggi profondi e toccanti di alcune scene, mantiene una sua leggerezza di fondo che lo rende un film forte, ma non scomodo.

Si potrebbe anche dire che sia un’occasione mancata per un prodotto così esteticamente valido e per una storia così forte, ma forse sarebbe ingeneroso.

Ciò che invece rimane ben impresso, ed è forse il maggior pregio di Minervini, è la cappa di vuoto opprimente che circonda il ghetto, una dimensione in cui il futuro è assente, il passato è doloroso ed il presente costringe a chiedersi se Dio sia ancora sveglio o abbia chiuso gli occhi sugli ultimi, lasciandoli soli in questa bolla deprimente.

Eppure, dentro la bolla, c’è chi tira avanti a testa alta, ci sono cuori che continuano a battere dove ci sono istinti di resistenza, sia essa la protezione della comunità o la cura dei propri affetti e di sé stessi senza cedere al nichilismo ed alla follia necrocapitalista.

Evidentemente, alla fine dei giorni, c’è ancora possibilità vita.

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