di Jack Orlando
È possibile definire grande democrazia
un paese dove la polizia uccide quasi mille persone l’anno? Dove i
tassi di malnutrizione infantile, povertà cronica e violenza endemica
sono gli stessi di un teatro bellico?
Si direbbe di no, eppure è questa la condizione degli Stati Uniti
d’America; il gigante più giovane dell’età degli imperi, che ha saputo
plasmare, a sua immagine e somiglianza, l’Occidente stesso da cui è
nato, un gigante dai piedi d’argilla che si voleva invincibile e che ora
scorge il proprio tramonto.
Le contraddizioni stridenti del sistema yankee sembrerebbero ad una
prima indagine storpiature inspiegabili. Com’è possibile che la terra
del benessere e dei sogni a portata di mano possa far convivere, nelle
sue città, accumulazione sfrenata di ricchezza e lande sterminate di
miseria?
È possibile perché l’essenza stessa di un certo modo di produrre
ricchezza e concepire la democrazia si fonda proprio sul diritto del
censo più forte, sulla violenza sistematica e sulla negazione di dignità
degli esseri su cui questa ricchezza è prodotta.
D’altronde è il paese costruito col sudore degli schiavi, espanso con lo
sterminio dei nativi, reso grande dal saccheggio di ogni terra di
prossimità. Rapimento, omicidio, rapina, governo, profitto.
La questione nera, dramma cardine della storia americana, ben lungi
dall’essersi risolta con l’elezione di un afroamericano alla Casa
Bianca, è riemersa dopo alcuni decenni di buio e il mondo ha scoperto
che esiste ancora l’apartheid e che la violenza razziale appartiene
ancora agli attrezzi di dominio dello Stato, che ancora si muore di fame
sotto le insegne dell’opulenza capitalista.
I viadotti degli Stati Uniti post-crisi sono diventati spontanei slums
di tende e cartoni abitati da esseri umani che hanno perso tutto dopo
essere stati espulsi dal mondo del lavoro; le vestigia della Rust Belt,
la vecchia cintura industriale, presentano uno scenario desolante
disertato da chiunque ne avesse l’opportunità ed in cui sono rimasti a
contendersi le briciole solo i più disperati; i quartieri dei neri,
peggio ancora, arrancano in un limbo a metà tra la quarantena e
l’abbandono di stato.
Praticamente ogni membro della comunità afroamericana è immerso, già
dall’infanzia, in un ambiente afflitto dalla fame, dal razzismo, dalle
bande armate, dalla dilagante dipendenza dalle droghe, dall’abuso di
potere e dall’assenza di vie d’uscita dalla povertà; arrivare ai
trent’anni senza essere in galera o sotto terra per overdose o morte
violenta è considerabile un lusso.
La narrazione ufficiale, fedele ad una tradizione colonialista,
vorrebbe i neri come soggetti irrecuperabili, antisociali ed
autodistruttivi ed a guardare le statistiche si scoprirebbe che è anche
vero che nei ghetti ci si ammazza di più, ci si rapina di più, ci si
droga di più, si stupra di più, si rinuncia di più ad una vita ordinaria
ma, d’altronde, come potrebbe essere diverso quando la storia ed ogni
forza del paese condannano ogni giorno e senza appello questa comunità
ad una condizione perenne di morte in vita, di disperazione e svilimento?
Il movimento Black Lives Matter, reazione agli omicidi polizieschi,
ha riacceso le luci su questo universo negato, risvegliando l’interesse
ed l’attenzione del mondo su di sé. Non a caso ha ricominciato ad essere
oggetto di studio, narrazione, analisi. L’ultimo prodotto,
cronologicamente, di questo interesse è il docufilm di Roberto
Minervini: Che fare quando il mondo è in fiamme, un ritratto neorealista in bianco e nero della vita nel ghetto di Baton Rouge.
È un racconto della resistenza (o resilienza) a quest’inferno terreno,
resistenza individuale o collettiva, politica o esistenziale; unica
possibilità di riscatto per questi dannati della metropoli.
Resistono quei bambini che provano a crescere sani in un’aria malata,
resiste quella donna che tenta di conservare il proprio lavoro e il
proprio equilibrio nonostante i colpi della vita, resistono gli indiani
contro lo spettro della gentrificazione che sottrae il tetto a chi già
fatica ad avere pane, resistono le nuove pantere nere che cercano di
rivitalizzare le vecchie parole d’ordine del Black Power.
È un film di denuncia che fa il paio con il precedente Louisiana (2015)
che invece narra della non-vita dei bianchi poveri, i redneck/white
trash del sud rurale e dimenticato da dio. Certamente è un film che ha
il pregio di dare voce a chi voce non ne ha, che costringe a guardare
ciò che ancora non si vuole vedere e che, per chi non ha alcuna
cognizione del contesto americano, sarà probabilmente un pugno allo
stomaco.
C’è però da dire che basta una conoscenza minimamente approfondita
dell’argomento per notare che è un film che resta in superficie, non
entra purtroppo nel profondo del ghetto: questa sensazione di vivere in
un crepuscolo interminabile, dove il domani o non c’è o, se c’è, non
sarà che peggio dell’oggi è perfettamente ripresa dalla telecamera ma
rimane una sorta di condizione naturale ed immanente della vita
afroamericana, probabilmente andare più al fondo dei meccanismi
economici, sociali e politici che determinano questa condizione avrebbe
reso un maggior servizio alla causa nera nonché una critica strutturale
al sistema americano, che andasse oltre la dimensione pasoliniana.
Anche le minacce del Ku Klux Klan, la testa mozzata, le svastiche
sulle scuole e le ronde armate delle Black Panthers somigliano, più che
ad espressioni politiche di tensioni reali e determinanti, a rimanenze
di un passato remoto, spettri che ancora vagano anacronisticamente in
un’epoca che si sovrappone al loro tempo. Eppure le Panthers sono
impegnate nel rivendicare giustizia per la morte di Alton Sterling,
ucciso negli stessi giorni di Philando Castile in modo egualmente
brutale e ingiustificabile, in una delle fasi di picco del movimento
nero e dei disordini razziali che hanno attraversato il paese contando
anche atti di spontaneismo armato contro la polizia.
La stessa regia, con una fotografia magistrale ed una scala di grigi
che restituisce forte il senso di marginalità e di sogni negati,
concentrandosi sui corpi lascia fuori un’altra grande protagonista della
vita dei ghetti: l’urbanistica. Le inner cities dei neri sono
ambienti degradati e degradanti, fatti di alloggi malsani,
sovraffollamento; il deserto sociale ed esistenziale è ovunque riflesso
da edifici sventrati dall’abbandono e grate di ferro alle finestre non
di rado forate da proiettili; l’economia asfittica dei ghetti è fatta di
rivendite di liquori, rigattieri, piccole botteghe scalcagnate. Non è
mai pienamente comprensibile la sfera dell’umano se non si tiene conto
del contesto in cui questa vita va dispiegandosi e quali siano gli
spazi, tanto fisici che relazionali, che permettano il manifestasi di
comunità.
In definitiva potremmo dire: è un bel film, che nonostante i passaggi
profondi e toccanti di alcune scene, mantiene una sua leggerezza di
fondo che lo rende un film forte, ma non scomodo.
Si potrebbe anche dire che sia un’occasione mancata per un prodotto così
esteticamente valido e per una storia così forte, ma forse sarebbe
ingeneroso.
Ciò che invece rimane ben impresso, ed è forse il maggior pregio di
Minervini, è la cappa di vuoto opprimente che circonda il ghetto, una
dimensione in cui il futuro è assente, il passato è doloroso ed il
presente costringe a chiedersi se Dio sia ancora sveglio o abbia chiuso
gli occhi sugli ultimi, lasciandoli soli in questa bolla deprimente.
Eppure, dentro la bolla, c’è chi tira avanti a testa alta, ci sono cuori
che continuano a battere dove ci sono istinti di resistenza, sia essa
la protezione della comunità o la cura dei propri affetti e di sé stessi
senza cedere al nichilismo ed alla follia necrocapitalista.
Evidentemente, alla fine dei giorni, c’è ancora possibilità vita.
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