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24/05/2019

Troppe incognite sui dazi, USA in preda ai dubbi

La partita si complica, e Trump deve correre ai ripari, mettendo toppe su una strada che aveva immaginato liscia come l’olio.

La “guerra dei dazi” non sta andando secondo le sue previsioni. Un rapporto del Fondo Monetario Internazionale spiega che l’aumento delle tariffe doganali (quello deciso un anno fa, con una quota del 10%) ha contribuito – sì – alla riduzione delle importazioni dalla Cina, ma questo non ha cambiato affatto la bilancia commerciale degli Stati Uniti. Quel calo è stato infatti compensato dall’aumento delle importazioni da altri Paesi (a cominciare dal Messico).

Risultato: il deficit complessivo degli Stati Uniti a marzo è aumentato del 3% su base annua (solo beni), anche se il disavanzo con Pechino è diminuito del 20%.

La situazione non è nemmeno andata a favore delle imprese statunitensi. Tanto che alcune di loro – stiamo parlando di multinazionali – hanno scritto al presidente chiedendo di ripensarci. Quelle che producono in Cina, infatti, come Nike o Adidas, si sono ritrovate a dover ridurre i profitti pur di mantenere intatti i volumi di vendita (il dazio aumenta il “costo pre-vendita”, dunque o si aumento il prezzo al dettaglio o si riduce il ricavo per il produttore). Ma non potrebbero fare altrettanto una volta che il dazio arriverà al 25%, che significherà perdite sulle vendite e dunque anche nel profitto totale.

Stesso discorso, non paradossalmente, per i settori di esportazione dagli Usa verso la Cina. Solo per ricompensare i produttori di soia del Midwest, infatti, Trump ha dovuto firmare stanziamenti per 16 miliardi. In questo caso si erano addirittura sommati due eventi negativi: la riduzione dei quantitativi comprati dalla Cina e la concorrenza di altri paesi produttori, come il Brasile, che si sono ritrovati più competitivi pur potendo aumentare i prezzi (per loro non ci sono sovraccarichi doganali).

Ma pagano anche i consumatori Usa. Uno studio della Federal Reserve di New York calcola che “l’aumento dei dazi al 25% su 200 miliardi di dollari di import dalla Cina costerà 106 miliardi di dollari l’anno alle famiglie americane: in media 800 dollari all’anno per ogni nucleo”. Oppure un proporzionale calo dei consumi, con effetti depressivi sull’aconomia...

In pratica, con i dazi ci guadagnano soltanto le aziende Usa che producono negli States per il mercato interno, mentre ci rimettono tutte quelle che producono altrove per vendere poi negli Usa.

Non solo. Se i dazi fossero stati imposti da un paese con “capacità produttiva inutilizzata”, magari l’effetto avrebbe potuto essere moderatamente positivo. Ma gli Stati Uniti non sono in questa posizione, anzi... E quindi dovranno a breve sopportare anche un “effetto collaterale” della scelta di Trump: lo spostamento dei flussi commerciali.

Tutte cose che i cinesi sanno benissimo e ora possono sfruttare. Come scrive la Cri Online:
“Recentemente gli Stati Uniti hanno affermato che, nel caso in cui la Cina imponesse dazi doganali aggiuntivi ai prodotti importati dagli Usa, alcune aziende si trasferirebbero dalla Cina in Vietnam e in altri Paesi asiatici, e alcune aziende statunitensi tornerebbero negli Stati Uniti. Tali affermazioni sono contrarie al senso comune dell’economia di mercato, e rappresentano solo idee soggettive degli Usa mosse dai loro secondi fini.

Come tutti sanno, è in atto una riconversione dell’economia cinese verso uno sviluppo di alta qualità e la Cina sta gradualmente scalando posizioni nella catena industriale globale e in quella del valore. Le industrie manifatturiere di fascia medio-bassa si stanno trasferendo all’estero. Tutti questi fenomeni corrispondono alla legge sullo sviluppo del trasferimento industriale globale e sono un fatto assolutamente normale nell’economia di mercato, e non il risultato dei dazi doganali aggiuntivi imposti dagli Stati Uniti. Gli Usa vogliono solamente approfittare dei dazi doganali aggiuntivi per costringere le compagnie straniere in Cina a trasferirsi.”
E’ la differenza tra un’economia che funziona in base a una programmazione (quella cinese) e una che viene orientata dalle scelte di mercato delle aziende private (quella Usa). Questo trasferimento delle produzioni cinesi a bassa valore aggiunto verso altri paesi – asiatici, ma anche africani – era programmato da tempo, e anche noi ne avevamo scritto.

Ma ora Pechino fa valere la competitività complessiva del suo sistema:
“Essendo l’unico Paese al mondo che possiede tutte le categorie industriali, la Cina non solo fornisce una catena di fornitura e una catena industriale complete, ma possiede anche un gran numero di tecnici specializzati, che riduce notevolmente i costi delle imprese statunitensi. Nel caso di Apple, ci sono circa 800 fabbriche fornitrici in tutto il mondo, della quali circa la metà si trova in Cina. Secondo quanto illustrato dal Rapporto di ricerca 2018 di Goldman Sachs, se la produzione e l’assemblaggio verranno trasferiti negli Stati Uniti, i costi di produzione di Apple aumenterebbero del 37%”.
Con l’aggiunta decisamente beffarda:
“Per di più, la Cina gode di un enorme mercato di 1,4 miliardi di persone. I consumi sono già diventati il motore più importante della crescita economica cinese. Attualmente, il fatturato annuale delle imprese finanziate dagli Stati Uniti in Cina è di circa 700 miliardi di dollari con un profitto di oltre 50 miliardi. Il libro bianco ha inoltre indicato che, anche tenendo conto dei dazi doganali aggiuntivi imposti dagli Stati Uniti, il 69% delle aziende statunitensi intervistate dichiara che farà ancora profitti.

Ritornando agli Usa, la Casa Bianca insiste nell’imporre arbitrariamente dazi doganali aggiuntivi, peggiorando notevolmente l’instabilità e l’incertezza del mercato. Sin dall’anno scorso, le aziende statunitensi hanno trasferito le loro catene industriali in altri Paesi per far meglio fronte alla domanda della Cina e degli altri mercati. La città di Chicago ha addirittura firmato il Piano di cooperazione delle industrie chiave 2018-2023 con la Cina, ed ha deciso di cooperare con la Cina in settori chiave come l’industria medica e sanitaria, la produzione avanzata, la tecnologia innovativa, i servizi finanziari, l’agricoltura e prodotti alimentari.

La minaccia statunitense di innalzare i dazi doganali non spaventa le imprese straniere in Cina, ma costringe il “Made in Usa” a lasciare il proprio Paese. A creare questo fenomeno assurdo sono proprio i decisori statunitensi che perseguono “l’egoismo estremo” ”.
Forse anche Trump ha cominciato a capirlo, visto che nelle ultime ore ha cambiato improvvisamente registro: «E’ possibile che il caso Huawei sia incluso in un’intesa commerciale (con la Cina, ndr). Se abbiamo un’intesa, vedo Huawei inclusa in un modo o nell’altro».

Gli interessi del profitto sanno come farsi sentire, a quanto pare...

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