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21/05/2019

Guerra Usa alla Cina? Mica tanto facile...

L’impressione è che gli Stati Uniti, come spesso è accaduto alle potenze in crisi di egemonia, abbiano dato il via ad una “guerra” senza fare un calcolo preciso delle forze in campo. Insomma, come se la loro potenza fosse così straripante da non richiedere altro che l’attivazione della catena di comando per eseguire gli ordini.

Con Grenada o Panama te lo potevi permettere, con l’Iraq di Saddam anche. Ma col passare del tempo i problemi aumentano, si fanno più complessi, man mano che il tuo strapotere diventa visibilmente meno totalizzante... fino al punto che devi fare un passo indietro proprio quando avevi annunciato di volerne fare due avanti.

A sole 24 ore dalla rivelazione dell’agenzia Reuters, poi confermata (“Google rompe il contratto di fornitura con Huawei per il sistema operativo Android e tutte le app proprietarie”), come conseguenza delle sanzioni decise da Trump contro il colosso delle comunicazioni cinese, “il governo americano concede una tregua di 90 giorni”. Parte delle restrizioni vengono per il momento sospese fino al 19 agosto.

Perché?

Sul piano dei rapporti diplomatici tra i due paesi c’è sicuramente in ballo il contenzioso sui dazi commerciali. Per quanto faccia la voce grossa, non è interesse di Trump – più ancora che degli Stati Uniti – andare davvero fino in fondo. Le contromisure cinesi, infatti, colpiscono prodotti come la soia o la carne di maiale, quindi direttamente i produttori agricoli del Midwest, che costituiscono la vera spina dorsale del blocco sociale a suo sostegno.

L’incontro con Xi Jinping non è stato ancora cancellato, dunque lo stop and go (“voglio trattare, ma ho la pistola posata sul tavolo”) è nella logica delle cose, dal punto di vista yankee.

Ci sono poi i problemi tecnologici e commerciali. Scrivere un ordine di espulsione è facile, e Trump sorride sempre soddisfatto mentre firma qualche scemenza delle sue. Ma disaccoppiare le tecnologie è impresa che richiede tempo, e non garantisce nemmeno successo.

Banalmente, ci sono milioni di cittadini statunitensi che usano dispositivi Huawei, aziende che hanno adottato router cinesi, compagnie telefoniche che utilizzano le sue centraline e dispositivi di rete, reti di negozi dedicate, tecnici che lavorano sulla manutenzione di quelle reti e device, ecc.

Se non si dà il tempo di trovare alternative tecnologicamente all’altezza – e non ce ne sono moltissime, specie sui dispositivi di rete – il rischio per gli Usa è di spararsi sui piedi. Tre mesi, a questo scopo, sono anche pochi...

Anche perché, come spiegato in un’intervista da Ren Zhengfei – il fondatore della società sotto attacco – “gli Stati Uniti sottostimano la forza di Huawei, che si era già preparata a questa eventualità accumulando delle riserve di chip nei magazzini e all’occorrenza è in grado di trovare fornitori alternativi o produrli da soli, continuando così lo sviluppo della tecnologia 5G”.

Ma c’è un terzo capitolo, in questo confronto geostrategico, di cui si parla poco perché ignorato dai più, anche se probabilmente è uno di quelli decisivi: le terre rare. Scientificamente, si tratta di gruppo di 17 elementi chimici della tavola periodica, precisamente scandio, ittrio e i lantanoidi.

Ma è sul piano industriale che oggi valgono quasi più del petrolio.

E sarà un caso, ma proprio ieri – riferisce l’agenzia cinese Xinhua – Xi Jinping ha visitato uno dei principali impianti minerari e di lavorazione di questi minerali a Ganzhou, nella provincia di Jiangxi. Insieme a lui c’era il vice-premier Liu He, ossia il capo-negoziatore commerciale della Cina nei colloqui con gli Stati Uniti.

Le terre rare sono decisive in molte delle applicazioni industriali hi-tech: superconduttori, magneti, leghe metalliche, catalizzatori, componenti di veicoli ibridi, applicazioni di optoelettronica (laser, ecc.), fibre ottiche, risonatori a microonde e via elencando.

La Cina è al momento il principale estrattore ed esportatore di questi materiali quasi introvabili. Anzi, praticamente l’unico. E proprio le terre rare non figurano nella sterminata lista di importazioni cinesi su cui apporre dazi Usa del 25%. Curioso, vero?

L’ipotesi di una diminuzione di queste esportazioni, o addirittura il blocco totale come risposta alla guerra commerciale, costituisce di per sé un potente disincentivo alla prosecuzione della schermaglia armata.

Anche perché i possibili fornitori alternativi sono relativamente pochi (Sudafrica, Brasile, Australia, India) e non tutti dispongono esattamente degli stessi elementi, dispersi in quantità quasi impercettibili in terreni argillosi. E tantomeno degli stessi quantitativi.

Certo, per gli Stati Uniti c’è un grande giacimento di risorse alternativo molto più vicino a casa e fin qui quasi non sfruttato: ma si chiama Venezuela.

Bingo...

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