È l’irrompere del fattore umano nella concezione e nell’agire i conflitti il dato che si rileva dalle parole di Aboubakar Soumahoro. Sindacalista dell’Usb e voce ormai pubblica di quelle persone venute da altri paesi per lavorare o transitare in Italia. In particolare di quei braccianti che sono diventati l’anello iniziale e più sfruttato della filiera agroalimentare nel nostro paese.
“Abu” come lo chiamano da anni i suoi compagni dell’Usb, è venuto a presentare il suo libro “Umanità in rivolta” a Roma e in una cornice un po’ diversa da quelle viste negli ultimi mesi: il “Giardino Liberato” di Villa Certosa venerdì sera gremito di persone.
Villa Certosa è un angolo del più noto quartiere di Tor Pignattara, denominato Calcutta per l’altissimo numero di immigrati che vi risiedono, provenienti soprattutto da Pakistan e Bangladesh. È un angolo un po’ più quieto e che i suoi abitanti, insieme al comitato di quartiere, da anni stanno difendendo dalla “gentrificazione” che invece ha stravolto il vicino Pigneto. Villa Certosa fino agli '90 era un quartiere nel quartiere, poverissimo e degradato, una periferia “interna”. Sulla piazza campeggia il murales che ricorda Ciro Principessa, il giovane della Fgci ucciso a coltellate da un fascista – ovviamente “squilibrato” – negli anni '80 davanti alla sezione del Pci di Tor Pignattara. Ciro era di Villa Certosa ed ogni anno, per l’anniversario della morte, si tiene una riuscita e partecipatissima festa popolare nel quartiere che lo ricorda.
Il “Giardino Liberato” si chiama così perché non è stato occupato, ma recuperato al quartiere. Ci tiene a spiegarlo Eleonora del comitato di Villa Certosa, introducendo la serata. E spiega anche come abbiano apprezzato la proposta dell’Usb di presentare il libro di Aboubakar Soumahoro in questo quartiere dove l’immigrazione è così presente e visibile in tutti gli angoli. Racconta della collaborazione con la scuola elementare Pisacane, diventata un po’ il simbolo di quelle scuole dove i bambini stranieri sono ormai maggioranza.
Guido Lutrario dell’Usb si assume il compito di fare un po’ da conduttore per le domande ad Abu. Ma ci tiene in premessa a sottolineare che questo libro – Umanità in rivolta – è un libro scritto da un sindacalista, un libro che parla finalmente dello sfruttamento e che è un libro che la gente sta leggendo in massa, raggiungendo una platea assai più ampia e che forse le categorie di sindacato, conflitto e sfruttamento le ha rimosse da tempo.
“La vita è una lotta” dice Abou, “si lotta per una speranza, ma questa speranza va conquistata, senza ingenuità”. “Lo sfruttamento non va considerato solo nel perimetro del lavoro, se vogliamo un cambiamento e riconquistare la speranza dobbiamo allargare lo sguardo. Prima di essere lavoratori o lavoratrici siamo esseri umani. Possiamo tornare a considerare questa dimensione?”.
Indubbiamente è questo il fattore intorno a cui si snoda l’elaborazione di Aboubakar Soumahoro nel suo libro e nelle discussioni che sta portando in giro per l’Italia. Inevitabile che tale approccio costringa un po’ tutti ad una ginnastica mentale diversa da quella fin qui praticata.
Abu, incalzato dalle domande, si sofferma su quella che definisce la “razzializzazione”. Richiama la scrittrice afroamericana Toni Morrison, recentemente scomparsa, quando afferma che “il linguaggio dell’oppressione è peggiore della violenza” e le “norme sull’immigrazione approvate in questi anni costituiscono un insieme di violenza. La violenza, come la colonizzazione, non è solo quella fisica ma ha anche una sua dimensione ideologica”. La razzializzazione è qualcuno di più e di diverso dal razzismo.
Ma la razzializzazione, secondo Aboubakar, ha assunto nel tempo una dimensione orizzontale, nel senso che il livello di esclusione, prima riservato sia nelle colonie che nelle metropoli a quelli che si riteneva di razze diverse, oggi è stato esteso anche ai “bianchi” o “nativi” esclusi ad esempio nelle periferie.
Un discussione dunque niente affatto scontata né semplice. “Umanità in rivolta” è sicuramente scritto da un sindacalista che ha sperimentato e agisce sul piano del conflitto e non della concertazione, ma che introduce nelle nostre riflessioni sul presente e sul futuro una elaborazione assai più complessa, una elaborazione che ha dentro il portato complessivo dell’anticolonialismo e che oggi interagisce dentro i nostri territori con il dato materiale delle migliaia di persone che dalle ex colonie sono fuggite per venire qui, nelle metropoli. Inquadrarli solo in quanto immigrati e dargli voce solo sulle questioni che attengono a questa dimensione, potrebbe farci sfuggire tanti altri aspetti decisivi per ricostruire una idea generale – e dunque complessa – del cambiamento e della trasformazione sociale. E non è detto che il nostro mondo, la “compagneria” per intendersi, riesca a porsi sul livello adeguato. In giro c’è tanto schematismo e quote rilevanti di imbecillità che fanno tremare i polsi.
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