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25/09/2019

Tutti giù per Terra

Per una volta – una sola – ci tocca ringraziare Trump e Bolsonaro. La stupidità ignorante dei loro discorsi all’Onu permette infatti di rompere una narrazione altrettanto infame, ma ammantata di “buonismo”.

Le due frasi che hanno colpito tutti, all’interno di discorsi brutalmente nazionalistici, sono in prima pagina su ogni giornale:

“Il futuro non appartiene ai globalisti ma ai patrioti. Il futuro appartiene a nazioni sovrane e indipendenti che proteggono i loro cittadini, rispettano i loro vicini e onorano le differenze” (Trump).

“L’Amazzonia non è patrimonio dell’umanità”, ma (sottinteso) del solo Brasile e delle multinazionali che la spianano.

I nostri media “democratici ed europeisti” hanno immediatamente ri-sfoderato il termine più insulso da loro coniato – “sovranisti!” – speculare all’altrettanto insulso “globalisti” usato da Trump.

L’uso delle parole nasconde sempre interessi concreti e visioni complessive elaborate per affermarli. La visione nazionalistica – dei Salvini, Bannon, Trump, Bolsonaro, Orbàn e via dicendo – parte dalla necessità politica di comprare consenso elettorale da parte di “leader” che sanno di avere la scadenza scritta nel codice genetico.

Le grandi multinazionali, anche se “basate” nei loro paesi, ragionano su scadenze temporali ancora più stringenti: la relazione trimestrale da sottoporre al giudizio dei “mercati” e i dividendi agli azionisti. E dunque, dovendo scegliere tra interesse “patriottico” e tasso del profitto, optano decisamente per il secondo (fanno relativa eccezione i big dell’informatica – Google, Facebook, Microsoft, ecc. – che possono mettere i dati dei loro clienti-utenti a disposizione delle “agenzie di sicurezza” degli Stati Uniti, senza che questo interferisca affatto con il proprio business).

Dimensione nazionale della sfera politica e dimensione multinazionale della struttura economica, avevano trovato un equilibrio nella fase della “seconda globalizzazione” (a partire dal 1989, con la caduta del Muro; la prima aveva segnato la fine dell’800 e si è conclusa con la Prima Guerra Mondiale), con gli Stati tutti impegnati nel favorire al massimo grado la libertà di movimento dei capitali (delocalizzazioni produttive comprese, non solo quella finanziaria), compensandola però con la costruzione di istituzioni sovranazionali finalizzate a organizzare una governance sufficientemente condivisa sulla base dei brutali rapporti di forza (l’Unione Europea è un esempio concreto, così come il Wto, la Banca mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, ecc).

Questo trentennio si è decisamente concluso, a partire dall’esplosione della crisi finanziaria 2007-2008, consegnandoci una stagnazione dell’Occidente capitalistico che ora sta parzialmente coinvolgendo anche i “mercati emergenti”, unici motori rimasti della sempre più lenta crescita mondiale.

Delocalizzazioni, finanziarizzazione dell’economia, automazione della produzione, bassi salari per i lavoratori, politiche di austerità e quantitative easing hanno radicalizzato le diseguaglianze all’interno delle classiche “potenze occidentali”, dagli Usa all’Europa, mettendo definitivamente in crisi “la politica”; ossia il contrasto tra interessi sociali contrapposti, che poteva essere temperato solo dentro lunghe fasi di crescita e dunque di distribuzione (comunque ineguale) di ricchezza prodotta.

Su questo arretramento generale della possibilità/capacità di “governare conflittualmente il mondo”, è piombata in tutta la sua drammatica evidenza la crisi ambientale. Ossia la più globale di tutte le dinamiche che trasformano il mondo.

Di fronte al moltiplicarsi delle crisi, segno evidente della loro dimensione sistemica, le reazioni in campo capitalistico hanno preso a divaricarsi in modo altrettanto evidente.

Chi non ce la fa a misurarsi con questa dimensione delle crisi prova a negarne anche l’evidenza (Trump, Bolsonaro, Boris Johnson, la destraccia leghista italica, ecc.) e a rifugiarsi nell’antico nazionalismo, nostalgico del “buon tempo andato”, quando si poteva decidere autonomamente quasi qualsiasi cosa all’interno di determinati confini.

Chi si ostina a tenere in piedi il vecchio impianto (economico, politico, culturale) della “globalizzazione” prova a cavalcare anche l’emergenza climatica per tentare di rilanciare l’accumulazione capitalistica, immaginando “nuove idee” e politiche monetarie che sostituiscano il vecchio deficit spending per raggiungere gli stessi obbiettivi (investimenti infrastrutturali e per la transizione energetica).

In altre parole, c’è una parte del capitale che vede nell'“emergenza ambientale” un’altra occasione di business, senza neanche interrogarsi sull’immane circolo vizioso (fare soldi cercando di ridurre la spazzatura che hai seminato nel mondo per fare soldi), anzi utilizzando la “critica” per facilitare l’assunzione pubblica di scelte opportunamente suggerite da media sotto ferreo controllo.


Per entrambe le “fazioni” che si combattono accapigliandosi a parole (“sovranisti” vs “globalisti”) il problema centrale è tutelare il business che va distruggendo il pianeta, senza assolutamente metterlo in discussione. Chi senza troppe modifiche, chi accettandone alcune “ma non troppo in fretta”.

Due posizioni (e interessi) fortemente conservatrici, che si distinguono per il grado di reazionarietà, ma in cui non si nota alcun “progressismo”.

Al contrario, proprio la crisi climatica mostra che la dimensione “nazionale” è ormai indifendibile (nulla e nessuno può fermare le catastrofi e il degrado ai confini del proprio paese). E al tempo stesso che è questo modo di produzione a dover essere cambiato immediatamente, se si vuole che i nostri figli e nipoti possano sopravvivere.

Proprio la crisi climatica mostra la necessità di un governo internazionale non capitalistico, ovvero socialista. Un concerto in grado di condividere scelte fatte secondo un approccio win-win, reciprocamente vantaggioso, rispettando popoli e differenze culturali nel mentre mette in comune risorse, tecnologia, opportunità, know how. Un concerto in grado di fare quel che si deve fare per arrestare la corsa verso il baratro, sacrificando il business per salvare gli esseri umani. Chiedere ai vampiri di smettere di cibarsi di sangue non ha senso; chiedere ai “potenti del mondo” di smettere di arricchirsi distruggendo il pianeta e chi lo abita, altrettanto.

È con questo spirito che saremo in piazza il 27 settembre. È una lotta vera, non delegabile alla “buona volontà dei governanti”. È una lotta internazionale, internazionalista e sistemica, perché – lo ricordiamo agli scarsi di memoria – “La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi [...] lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta”.

Sarebbe da scemi accettare la “comune rovina planetaria” senza neanche battersi...

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