Anche la durata di questo periodo è avvolta nell’incertezza. Si potrebbe datarla a partire da Keynes, quindi dagli anni ‘30 (sia in versione nazifascista che in versione democratico-rooseveltiana, comunque su scala rigidamente nazionale e in chiave nazionalistica), anche se l’ondata neoliberista degli anni ‘80 ne decretò la (temporanea?) morte.
O forse si potrebbe fissare l’anno del “recupero vergognoso” al 2008, quando il crollo di Lehmann Brothers e del mercato dei “prodotti derivati” costrinse tutte le banche centrali del mondo a riversare nel sistema finanziario quantità gigantesche di moneta letteralmente “stampata di notte”. In barba cioè a tutte le teorie e le raccomandazioni che ne derivano, e definita “socialismo per ricchi” persino da Joseph Stiglitz (ex presidente della Baca Mondiale).
Il risultato di questa fase di “iniezioni di liquidità” è noto: il sistema è rimasto in vita, non è esploso, ma neanche ha ripreso a funzionare “normalmente” (per quel che può significare questo termine in sistemi teorici che ipotizzano come “normale” l’equilibrio economico e vedono nelle crisi il frutto di “errori”, anziché la fisiologia del capitalismo). Stagnazione più che decennale, che non pochi interpretano come avvio di quella “secolare”.
Il tentativo di ritorno alla normalità – stop ai quantitative easing, rialzo prudente dei tassi di interesse – c’è stato, ma è risultato subito intollerabile sia per il sistema finanziario occidentale sia per l’industria propriamente detta. Dunque, la necessità di riprendere a “stampare moneta” si riaffaccia prepotente.
Lo pretende Trump dalla Federal Reserve, che obbedisce frenando. Ma intanto la banca centrale Usa è intervenuta per iniettare liquidità nel sistema interbancario statunitense, oltre ad aver abbassato i tassi di interesse. Quasi 300 miliardi di dollari fin qui, ma già da oggi e fino al 10 ottobre dovrebbe iniettare liquidità per almeno 75 miliardi al giorno (al giorno!). Il totale, alla fine dell’intervento, potrebbe superare i 1.300 miliardi di dollari.
Lo fa autonomamente la Bce con l’ultima decisione di Mario Draghi, suscitando proteste dai criminali del “Grande Nord” (Germania, Olanda, Finlandia, baltici colonizzati da Berlino).
Ma anche questa “flebo monetaria” continua, di per sé segnale di fallimento sistemico, non basta più. “Il cavallo non beve” (gli investimenti sono fermi), ed è inutile fornirgli acqua supplementare. Tocca letteralmente inventarsi qualcosa di diverso.
E l’occasione c’è. La “transizione ecologica ed energetica” è un bisogno immediato, anzi il mondo è a rischio per l’estremo ritardo con cui i governi – tutti sotto ricatto dei grandi gruppi multinazionali – stanno prendendo atto che il tempo per fare qualcosa è quasi scaduto. Dunque, le prossime mosse delle banche centrali, le uniche a disporre di qualche capacità operativa just in time, dovranno avere motivazioni green e obbiettivi conservatori sul piano economico.
Si tratta di salvare il capitalismo dicendo di voler salvare il pianeta.
Il discorso è quasi esplicito in un articolo dell’insospettabile Sole24Ore, quotidiano di Confindustria, dedicato all’ormai prossimo inizio dell’era Lagarde alla testa della Bce. Non si tratta di “pentirsi” del già combinato, né di convertirsi ad un credo cui nessun “investitore professionale” ha mai creduto. Si tratta di fare i conti con freddezza: le perdite provocate da disastri ambientali e climatici aumentano di continuo, e i profitti – anche per questo motivo (non chiedete a dei capitalisti di comprendere la “caduta tendenziale”...) – sono in calo.
Dunque si tratta di rendere la transizione ecologica un business profittevole, trovando per un verso le risorse monetarie necessarie (senza chiedere alle imprese di investire un dollaro proprio), creando un sistema finanziario ad hoc, utilizzando e sostenendo una versione innocua della “sensibilità ambientale”. In pratica, colpevolizzando i singoli esseri umani costretti a vivere in un sistema di produzione che non permette loro scelte libere sulle merci e blaterando di una “difesa dell’ambiente” che non metta mai in discussione quel sistema di produzione. In sintesi: un capitalismo finanziario spietato, ma verde.
Siamo troppo cattivi? “Prevenuti”? “Ideologici”?
Leggetevi IlSole, almeno... Anche solo il finale dell’articolo: “il vento sta cambiando un po’ troppo in fretta: la stessa Bce ha sottolineato che una violenta “decarbonizzazione” dei portafogli mondiali rischia di destabilizzare il sistema finanziario internazionale. Quindi sì agli investimenti green, ma con regole chiare su cosa significhi essere “verde” e senza creare scossoni troppo forti nell’abbandono degli asset legati ai combustibili fossili.”
Traduciamo per i profani: “decarbonizzare i portafogli” significa vendere le azioni delle multinazionali petrolifere e similari (tutte quelle impegnate nelle energie fossili). Se le vendite sono massicce e continue, perché gli “investitori” hanno capito che il futuro di queste imprese non è roseo, i prezzi crollano e molti registreranno perdite cospicue “in portafoglio”. Quindi bisogna procede lentamente (“senza creare scossoni troppo forti”), dando il tempo alla “grande alleanza” delle banche centrali di creare un sistema finanziario specializzato ma non alternativo (“ il principio della ‘market neutrality’ obbliga l’istituzione comunitaria a non discriminare un settore rispetto ad altri”).
I tempi di questa “transizione finanziaria” possono essere troppo lenti rispetto a quelli fisico-ambientali, con la scienza a dare ormai meno di dieci anni prima del “punto di non ritorno”?
E che mai gliene può fregare, a questi signori che hanno creato il problema ambientale? Loro sono interessati unicamente al mantenimento del sistema (di produzione e finanziario). Il resto non conta. In fondo loro troveranno sempre un’isoletta abbastanza alta, rispetto al livello del mare in aumento...
Dunque dobbiamo prendere atto della situazione e non lasciarci abbindolare dalle frasi ad effetto, dal “buonismo” o “cattivismo” ambientale; dobbiamo “seguire il denaro” (follow the money), non le dichiarazioni ufficiali, per capire cosa sta accadendo.
Dobbiamo sapere che il progetto del ministro dell’economia tedesco Altmaier – poi ampliato nel mega-piano di investimenti deciso dal governo Merkel – prevede un “fondo per il clima” con rendimento al 2%, in modo da fare di Francoforte un polo dei “green bond”.
E che dal canto suo Macron ha riunito a Parigi i big del risparmio gestito, assieme a sei fondi sovrani (c’era Singapore, ma non i cinesi). In totale questi soggetti controllano 18 mila miliardi di dollari (dieci volte il Pil italiano). Anche Macron vuole fare di Parigi la “capitale finanziaria del verde”.
Molti pretendenti, tanta competizione (alla faccia dell’“unità europea”). Tutti a nascondersi dietro Greta e i sacrosanti movimenti ambientalisti, ma solo per condurre al meglio una vera e propria guerra finanziaria.
Claudio Lolli ci canterebbe del “nemico che marcia alla tua testa”. Dario Fo del “tutti uniti, tutti insieme... ma scusa, quello non è il padrone?” Chico Medes, ambientalista brasiliano ucciso proprio per questo, ci ricorderebbe che “L’ambientalismo senza lotta di classe è semplicemente giardinaggio”.
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Bce, il nuovo «bazooka» di Lagarde è contro il climate change
Lagarde, che dal 1° novembre guiderà la Banca centrale europea, ha preso posizione contro il mutamento climatico. E non è sola: su iniziativa di Mark Carney, numero uno della Banca d’Inghilterra, è nato un colossale network finanziario a difesa dell’ambiente con trenta tra banche centrali e istituti di regolamentazione, forte di un portafoglio complessivo di 100mila miliardi di dollari.
Enrico Marro – IlSole24Ore
Christine ha in testa un “whatever it takes” diverso da quello di Mario: mentre allora ci fu la difesa dell’euro, oggi in primo piano c’è (anche) la lotta al cambiamento climatico, che «dev’essere al centro della missione della Bce e di ogni altra istituzione». Parola appunto di Christine Lagarde, l’ex ministro delle Finanze francese e attuale numero uno del Fondo monetario internazionale che dal primo novembre siederà sulla poltrona di Mario Draghi nel nuovo palazzo della Banca centrale europea a Francoforte. «Siamo solo agli inizi, ma dobbiamo farne una priorità”, ha scandito in una recente audizione al Parlamento Ue, aggiungendo che «ogni istituzione dovrebbe avere come missione la protezione dell’ambiente».
Certo, la Bce non può investire all’improvviso tutto il suo bilancio di 2600 miliardi di euro in green bond, anche perché non esiste un mercato di “obbligazioni verdi” così vasto. Ma la Lagarde ha chiaramente indicato che la strada su cui bisogna muoversi è quella degli investimenti sostenibili. Almeno per quanto riguarda l’istituzione che presto guiderà.
Sulla strada della lotta della Bce al global warming c’è un unico problema: il principio della “market neutrality”, che obbliga l’istituzione comunitaria a non discriminare un settore rispetto ad altri. La soluzione però è a portata di mano, e a indicarla è stata la stessa Lagarde. Si tratterebbe di accelerare il via libera alla normativa comunitaria, attualmente in discussione presso il Parlamento europeo, che classifica con precisione il profilo di sostenibilità dei vari asset finanziari. Provvedimento opportuno, anche perché classificazioni puntuali e dettagliate sugli investimenti sostenibili tendono a latitare, con la conseguenza che alcuni green bond si sono rivelati ben poco “verdi”, come ha rivelato un recente studio di Insight, società di asset management del gruppo Bny Mellon.
Christine in realtà potrebbe rivelarsi solo la punta dell’iceberg di un’inedita sensibilità ambientale del mondo finanziario, molto preoccupato delle ricadute economici di un climate change che secondo un recente studio di Moody’s Analytics potrebbero toccare i 69mila miliardi di dollari. Oltre trenta tra banche centrali e autorità di regolamentazione hanno unito le proprie forze nel nuovo “Network for Greening and Financial System”, fondato dal Governatore della Banca d’Inghilterra Mark Carney (ex di Goldman Sachs e della Banca centrale canadese), che per primo nel settembre 2015 sollevò in ambito finanziario il problema del mutamento climatico. Il network può contare su asset gestiti colossali: qualcosa come 100mila miliardi di dollari, quaranta volte il debito pubblico italiano.
Intanto tutte le grandi multinazionali mondiali, inclusi i colossi della Silicon Valley e naturalmente le banche europee già colpite dai tassi sottozero, si stanno preparando a far fronte a un crollo della profittabilità legato al riscaldamento globale. Ma c’è già chi ha iniziato a soffrire: il climate change sta colpendo con durezza alcuni settori del mondo della finanza e dell’economia. Un paio di esempi? Mentre le grandi società assicurative stanno già da anni leccandosi le ferite del mutamento climatico, con picchi di catastrofi naturali molto costosi da gestire, le major petrolifere sono alle prese con performance borsistiche assai deludenti, per usare un chiaro eufemismo, probabilmente legate a loro volta al vento che cambia nei portafogli degli investitori.
Forse, anzi, il vento sta cambiando un po’ troppo in fretta: la stessa Bce ha sottolineato che una violenta “decarbonizzazione” dei portafogli mondiali rischia di destabilizzare il sistema finanziario internazionale. Quindi sì agli investimenti green, ma con regole chiare su cosa significhi essere “verde” e senza creare scossoni troppo forti nell’abbandono degli asset legati ai combustibili fossili.
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