di Sandro Moiso
Razmig Keucheyan, La natura è un campo di battaglia. Saggio di ecologia politica, Ombre corte, Verona 2019, pp. 168, 15,00 euro
L’esperienza della nostra generazione: il fatto che il capitalismo non morirà di morte naturale (Walter Benjamin)
Fin dalla citazione di Benjamin posta in esergo il testo di Razmig
Keucheyan rivela il suo intento: quello di indagare la stretta
interconnessione tra sviluppo capitalistico, uso della Natura e della
sua ideologia e creazione di diseguaglianze ambientali per rivelare come
tutto ciò sia strettamente ascrivibile al conflitto di classe che
sottende e determina ogni scelta economica, politica e sociale della
società in cui viviamo. Non solo in Occidente, ma su scala planetaria.
L’autore, nato nel 1975, è attualmente professore presso il Centro
Émile Durkheim dell’Università di Bordeaux e fa parte del comitato di
redazione della rivista “Actuel Marx”. Oltre a ciò è riconosciuto come
uno dei più esperti conoscitori dell’opera di Antonio Gramsci e ha
aderito al Nouveau Parti anticapitaliste oltre che aver firmato, nel
2014, l’appello del Movimento per la VI Répubblica avviato da Jean-Luc
Mélenchon e dal Parti de gauche.
Una militanza politica e culturale “di sinistra” e “gramsciana” che
traspare da ogni pagina di un testo che, proprio per questi motivi, è
allo stesso tempo stimolante e discutibile (a causa di una manifesta e
forse eccessiva speranza riformistica) per tutti coloro che si occupano
attualmente dei problemi legati alla crisi ambientale, a quella
economica e a quella climatica e dei risvolti che queste possono avere
sui conflitti sociali sia già in corso che futuri.
Uscito per la prima volta in Francia nel 2014, il testo si articola
sostanzialmente intorno a tre temi ritenuti fondamentale dall’autore e
che costituiscono le tre parti che lo compongono: il razzismo
ambientale, la finanziarizzazione della natura attraverso le pratiche
assicurative nei confronti dei rischi climatici e la militarizzazione
dell’ecologia. Tutte strettamente collegate tra di loro.
Tre argomenti attraverso i quali l’autore delinea e delimita un
discorso al centro del quale è posto continuamente in risalto il tema
delle diseguaglianze sociali, economiche e “razziali” che costituiscono
il problema centrale e, certamente, maggiormente conflittuale
dell’attuale emergenza climatica. Un’emergenza che, al di là dei suoi
connotati ambientali e fisici, si rivela essere innanzitutto ancora una
questione di classe.
Tale impostazione permette all’autore sia di superare le posizioni
ecologiste tipiche di un movimento come Fridays For Future che, in linea
con le correnti ecologiste tradizionali, sembra voler accomunare tutta
l’umanità, senza distinzioni di classe o di appartenenza alle aree più
povere del pianeta, in una comune battaglia per la salvezza di una casa
ritenuta “comune”, sia le posizioni di quelle sinistre che, in nome di
un progresso sempre meno credibile e di uno sviluppo sempre più
devastante, respingono le lotte ambientali ritenendole un mero prodotto
dell’ideologia borghese.
Se è infatti vero che, all’interno dell’attuale crisi del modo di produzione capitalistico, il green capitalism
può porsi come strumento di rilancio di dinamiche innovative e
produttive utili alla ripresa di processi di accumulazione sempre più
asfittici, è altresì vero che proprio queste politiche, che pretendono
di proporre un modello di sviluppo maggiormente sostenibile, tenderanno
ad accentuare le differenziazioni di classe e a separare sempre più la
grande maggioranza della società che, di fatto, le subirà, da una
minoranza che ne trarrà profitto.
A dimostrazione di ciò basti riflettere sul fatto che lo stesso
movimento francese dei gilets jaunes è sorto proprio a partire da un
aumento del costo del carburante giustificato dalla comune necessità di
finanziare iniziative in difesa dell’ambiente o di rinnovamento degli
apparati produttivi in chiave green. Uno degli slogan del
movimento affermava infatti che a pagare la crisi ambientale dovessero
essere prima di tutto coloro, governanti e imprenditori, che di tale
crisi erano la causa.
Inquadrare quindi l’attuale emergenza planetaria da un punto di vista
di classe (cui poi andrebbero aggiunti, come fa l’autore, quello
razziale e di genere, essendo spesso le donne a costituire l’anello più
debole e vulnerabile della catena di coloro che ne subiscono
maggiormente le conseguenze) diventa quindi importantissimo per il
rilancio di una comune richiesta di giustizia ambientale che non si basi
ancora una volta su principi universali, troppo spesso generici ed
inafferrabili, ma sul superamento di un disagio estremamente concreto e
sulle risposte da dare a necessità e bisogni che non appartengono in
maniera uguale a tutti i settori della popolazione, ma che, troppo
spesso, si concentrano soprattutto nelle aree abitate dalle fasce più
povere e disagiate.
Sia che si tratti di discariche di rifiuti tossici prossimi ad aree
urbanizzate degradate, sia che si tratti delle diverse conseguenze che
catastrofi presunte “naturali” (ad esempio l’uragano Katrina del 2005)
possono avere su settori differenti di cittadini: perdita della casa e
di ogni avere per una (ad esempio la componente afro-americana di New
Orleans) e guadagni enormi sulla speculazione edilizia legata alla
ricostruzione per l’altra (bianca e ricca).
Ma, come dimostra bene il testo anche le guerre portano (oserei dire
da sempre) il loro contributo alla devastazione ambientale, dando vita a
movimenti migratori, di differente intensità a seconda del conflitto e
delle aree interessate, di cui oggi vediamo le conseguenze nell’immensa
mole di profughi che cercano di fuggire da tutto ciò. E per i quali la
“casa comune” di cui parla Greta Thunberg davvero non esiste ancora.
Guerre che, inoltre, depositano sui territori e sui corpi il loro
ricordo a lungo indimenticabile: dall’agente arancio in Vietnam, che ha
devastato quel paese per anni ancora dopo la fine della guerra e i corpi
di molti di coloro che l’hanno combattuta su un fronte o sull’altro,
all’uranio arricchito che ha a sua volta impestato gli ambienti, e
ancora una volta i corpi, in tutte le aree in cui la Nato è intervenuta
per le sue missioni di pace.
La natura, come recita il titolo del testo, è quindi davvero un campo
di battaglia, anzi è teatro di un’autentica guerra di classe, non
dichiarata e di fatto negata proprio da coloro che l’hanno iniziata e la
stanno portando avanti in nome del profitto e dell’interesse privato, e
il libro di Keucheyan ci aiuta a comprenderlo ancora meglio.
Per far sì che, alla fine, a morire sia proprio il capitalismo.
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