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20/09/2019

“La politica” alla canna del gas

Non c’è speranza. Al di là dei possibili giochi di parole (c’è un ministro con questo nome), neanche il tempo di chiudere la formazione del governo giallo-blu e già scricchiola tutto.

Chi è abituato a guardare gli avvenimenti della “politica” secondo le movenze di qualche decennio fa è preso da un capogiro continuo, come su montagne russe che non hanno fine.

Il fatto occasionale è stato il voto a scrutinio segreto della Camera sull’autorizzazione all’arresto di un oscuro deputato berlusconiano, tal Diego Sozzani. Lo schieramento ufficiale (Cinque Stelle, Pd, l’”Italietta viva” di Renzi) era per il sì, Lega, Fratelli d’Italia e ovviamente i berlusconiani erano per il no (e tanto basta a chiarire come le sceneggiate “legge e ordine” di questa destra postribolare valgano solo contro i più deboli).

Ma 46 franchi tiratori hanno salvato Sozzani e aperto la prima crepa nella maggioranza. Tutti hanno ovviamente individuato i responsabili del voltafaccia nei renziani (fuoriusciti e rimasti nel Pd), e nessuno l’ha neanche smentito. Del resto, il dominio “Italia Viva” è stato registrato il 9 agosto, mentre Salvini “sbroccava” tra un mojito e una cubista... Ci deve essere un perché, o no?

Com’è possibile che un paese, forse ancora tra i primi dieci del mondo capitalista, abbia una classe politica così infame?

Consigliamo di lasciar perdere i discorsi moralistici, o peggio ancora i grandi pensamenti sulle caratteristiche dei vari guitti che popolano la scena parlamentare.

Perché la politica, da sempre e per sempre, riflette e riassume interessi sociali strutturati. Quindi il degrado della “classe politica” deve per forza essere conseguenza di una degrado altrettanto profondo nella “classe dirigente”, ovvero degli interpreti del capitalismo italiano.

Se andiamo a guardare l’età d’oro della democrazia parlamentare italiana – il dopoguerra, fino a Tangentopoli (1992) – vediamo anche una “borghesia nazionale” decisamente strutturata. Agnelli-Fiat, Pirelli, Olivetti, Mediobanca, Pesenti, Marzotto e diversi altri amministratori delegati di grandi aziende italiane costituivano la spina dorsale del padronato italiano; al tempo stesso formavano il “salotto buono” che controllava i grandi giornali (il Corriere della Sera, per oltre un secolo), mediavano con l’altra grande spina dorsale dell’industria italiana (quella pubblica, racchiusa in Iri, Eni, Enel, Fincantieri, ecc.) e contribuivano a determinare gli assetti politici e quindi gli atti di governo.

C’era insomma un “progetto-paese” (contrastato sul piano sindacale e politico, ovviamente), e c’era un “mandante sociale” dotato di una visione larga dei propri affari e del modo in cui avrebbe dovuto essere indirizzato il paese per continuare a farli in futuro.

Se guardiamo alla “classe dirigente” di oggi non vediamo più nulla di simile. I grandi gruppi sono scomparsi o hanno cambiato paese (Fiat in testa), si sono frammentati o hanno venduto. Anche l’industria ha subito la stessa sorte, dopo le privatizzazioni.

Al tempo stesso i “centri di potere” si sono moltiplicati, ma sono tutti di piccolo cabotaggio. Ci sono i costruttori (Salini-Impregilo, Astaldi, Rocksoil, ecc) che ovviamente chiedono solo “grandi opere”. Ci sono alcune banche “sistemiche” (Intesa, Unicredit) e grandi gruppi multinazionali che hanno però il loro referente politico reale nell’Unione Europea, dunque a Bruxelles, perché il loro business ha quelle dimensioni (se non ancora superiori) e sanno che le decisioni utili a migliorarlo si devono prendere a livello continentale. La vera attività di lobbying si fa lì, e da lì verranno le “prescrizioni” che poi i singoli Stati applicheranno in modo più o meno fedele.

Poi è tutto un pullulare di consorterie, logge massoniche, interessi territoriali di filiere contoterziste (quasi tutto il Nordest è di questo tipo), dalla visione cortissima e senza alcuna idea strategica.

Stabilito il fatto che, secondo questa classe dirigente, lavoratori e strati sociali deboli “non debbono” avere alcuna rappresentanza politica effettiva, “la politica” si riduce a ben poca cosa. Far passare alcuni emendamenti, favorire le imprese (quello lo fanno tutti i governi, senza eccezioni), costruire carriere sulla base della “comunicazione”, controllare le briciole di spesa pubblica utili a nutrire clientele o gruppi paramafiosi, ecc.

Il tipo di “classe politica” necessaria a fare queste poche cose è esattamente quella che ci troviamo davanti. Più che “liquida”, è una politica allo stato gassoso. Pensare di analizzarla con le categorie del mondo di una volta (quando la “sinistra” poteva essere riformista o rivoluzionaria, ma comunque dalla parte dei lavoratori; e “centro” e “destra” erano due variazioni sul tema degli interessi padronali) è un autocondannarsi a non capirci un fico secco.

La “sinistra” di oggi è piccolissima ed extraparlamentare. Questo è un fatto. E l’attuale Parlamento è popolato di figure che possono andare in qualsiasi direzione, servire qualsiasi interesse contingente. E dunque lo fanno. Cambiano casacca anche più volte nella stessa legislatura (il record c’è stato in quella finita nel 2018), oppure si aggregano e disgregano in sempre nuove sigle dalla durata brevissima, ma solo per preparare – o cercare di farlo – un nuovo assetto stabile per gestire quel poco potere rimasto “a livello nazionale”.

Nella disperazione, si cerca in genere di guardare a quanto avviene fuori di qui. Ma la situazione è grosso modo la stessa.

In Spagna si è votato quattro volte in quattro anni, senza cavare un ragno dal buco (si sono distrutte alcune carriere politiche, ma non si è trovato un assetto stabile).

In Germania si sta andando verso una situazione simile, con la crisi contemporanea di Cdu e Spd.

La Francia sembra reggere solo grazie a un sistema elettorale folle che permette a un tizio che ha preso solo il 24% dei voti di controllare tutti i rami del potere, ma proprio per questo è esposta a rovesciamenti radicali e improvvisi.

Della Gran Bretagna è difficile dire qualcosa che non sembri una prece... La culla dell’imperialismo sembra sotto infarto. E non stanno meglio gli Stati Uniti, ancora increduli di aver sollevato un Trump alla Casa Bianca. Per non dire infine di Israele, incarognita e dalle intenzioni genocide, ma incapace di selezionare uno stato maggiore credibile.

Se dappertutto, in Occidente, c’è la stessa situazione di degrado della “politica”, la ragione deve essere la stessa. E non è difficile individuarla nella “stagnazione” più che decennale e nella rottura della “globalizzazione”, che hanno distrutto le narrazioni ottimistiche sul futuro e, al tempo stesso, la possibilità-necessità di saperlo disegnare con potenza di visione.

Il tran tran prevale ovunque, in attesa di eventi che cambino il quadro, ma senza sapere né quando nè da dove questi eventi potranno arrivare. Dunque, non è tempo per “statisti”, dominano i maneggioni.

Che sono ovviamente degli incapaci, avidi e peracottari. E dunque, inevitabilmente ogni tanto bisogna ridisegnare il “teatro politico”, smontando e rimontando gli elementi che lo costituiscono. A questo servono i Renzi, le molte italiette (viva, forza, fratelli, sorelle, ecc), i tormenti senza dramma dei partiti che si sfasciano e si fondono.

Rigorosamente senza alcun progetto di paese e senza alcuna differenza reale.

Cercare “l’alternativa” o il “fronte antifascista” in quella melma diventa una perversione, non solo tempo perso...

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