37 anni dopo. Come ogni anno il «Comitato per non dimenticare» fondato dal giornalista de il manifesto Stefano Chiarini e animato da Maurizio Musolino torna in Libano per una settimana di solidarietà con i rifugiati, sempre più minacciati dal tentativo di cancellazione del diritto al ritorno portato avanti da Israele e Stati Uniti
Lo status di profugo è una terribile realtà del nostro tempo che l’Occidente tenta come può di gettare sotto il tappeto (ma rispunta con la forza drammatica da ogni barcone avvistato in mare). I palestinesi, invece, conoscono molto bene la condizione di rifugiato da ben 71 anni, cioè da quando furono cacciati dalle loro case per fare posto al nascente stato ebraico.
Oggi sono circa cinque milioni in giro per il mondo, tra essi oltre 500mila vivono nel piccolo stato libanese.
Qui nel settembre 1982 l’allora ministro della Difesa israeliano Ariel Sharon, con la fattiva collaborazione delle milizie falangiste (cristiane-maronite) provò ad applicare la «soluzione finale»: lo sterminio. Questo fu il senso del massacro realizzato con estrema efferatezza nei due poverissimi campi profughi di Sabra e Shatila, alla periferia sud della capitale Beirut.
Come i lettori di questo giornale ben sanno, ogni anno, da quando diciotto anni fa iniziò Stefano Chiarini e poi con lui Maurizio Musolino, il Comitato per non dimenticare Sabra e Shatila, con una delegazione di attivisti provenienti da diverse esperienze, si reca in Libano per partecipare agli eventi e alle manifestazioni organizzate per ricordare le vittime di allora e quelle di oggi.
Già, perché chi allora morì ammazzato barbaramente – gambe spezzate, pance delle donne incinte aperte, corpi di bambini ingiuriati: leggete Quattro ore a Shatila di Jean Genet – non ha mai avuto giustizia e chi vive oggi da eterno rifugiato viene umiliato dalle politiche di Israele e il suo principale sponsor statunitense: da qualche tempo, infatti, i governi di questi due paesi si stanno esercitando al tiro al piccione contro l’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni unite che si occupa esclusivamente dei rifugiati palestinesi e che è simbolo del diritto al ritorno.
Vorrebbero semplicemente chiuderla, per impacchettare anche i suoi assistiti – sempre più palestinesi vivono con i soli aiuti delle Nazioni unite.
Per ricordare il massacro di trentasette anni fa, tragico simbolo della sofferenza e della resistenza palestinese, e per portare solidarietà agli uomini e alle donne che vivono nei campi rifugiati libanesi, anche quest’anno una folta delegazione del Comitato, dal 14 al 21 settembre, si unirà a quelle di altri paesi: per una intera settimana circa 85 persone provenienti da tutto il mondo visiteranno le case dei rifugiati, incontreranno le autorità politiche e istituzionali, faranno sentire la loro voce a fianco di quella parte di società dimenticata e che alcuni vorrebbero cancellare dalla storia.
La vita nei campi è sempre stata molto dura ma un tempo c’era l’Organizzazione per la liberazione della Palestina di Yasser Arafat che era in grado di far fronte alle necessità di base offrendo anche una organizzazione della vita al loro interno e una prospettiva a chi è costretto a vivere ospite non gradito, senza diritti, cittadino di serie b – i palestinesi non hanno mai chiesto la naturalizzazione ma il ritorno nella loro terra.
Poi, nel corso degli anni, le cose si sono via via sempre più complicate a causa della crisi economica mondiale, che ha avuto effetti terribili sulle fasce più povere, e a causa delle guerre che hanno aggiunto profughi ai profughi.
La presenza di una delegazione internazionale così ampia, che viaggia da nord a sud del paese, portando ovunque le ragioni della propria azione politica, rappresenta un momento di solidarietà e vitalità per i palestinesi che da troppi anni dicono al momento, inascoltati: noi siamo un popolo, non una somma di individui, vogliamo dignità e una patria.
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