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23/09/2019

Afghanistan, le presidenziali impossibili

A cinque giorni dalla pluri rimandata scadenza elettorale per le presidenziali afghane c’è un candidato che sicuramente prega Allah perché si giunga al voto. È il presidente uscente Ashraf Ghani, il fantoccio statunitense osteggiato da taliban e dagli altri candidati, compreso l'amico-nemico di governo Abdullah. Gli attentati che fino a una settimana fa hanno cercato di riproporre un ennesimo rinvio per ragioni di sicurezza non ne hanno piegato la convinzione, ma più che saldezza democratica l’ostinazione con cui Ghani resta attaccato a quest’elezione riguarda il suo futuro. Infatti è da tempo il grande escluso dalla vita politica nazionale, un paradosso per chi riveste la carica più alta d’un Paese, pur disastrato com’è l’Afghanistan. Ma si tratta d’un Paese che non esiste. Continua soltanto a essere un luogo di morte per la guerra strisciante fra gli occupanti della Nato e i talebani che rivendicano il ruolo di resistenti all’invasore. Nell’anno in cui i contendenti statunitensi e i turbanti di Quetta si sono ripetutamente incontrati per discorrere del futuro prossimo, Ghani è rimasto fuori dalla porta, considerato indesiderato e indegno dalla delegazione della Shura, senza che gli americani obiettasse nulla. Per questo il ‘presidente senza potere’ si spende da tempo per il ritorno alle urne, senz’altro previsto come scadenza, ma in un sistema completamente svilito.

Allora l’uomo che si sente solo cerca l’unica sponda possibile, quella offerta dagli altri candidati che, non fosse altro perché desiderano prendere il suo posto, s’apprestano al confronto dell’urna pur denunciando quel che appare palese: il voto potrebbe essere inficiato dagli atavici brogli. Nessuno però evidenzia un’altra realtà: questo voto risulterà assolutamente parziale. Poiché i seggi elettorali sono presenti sulla metà del territorio (l’altra metà è impraticabile in quanto controllata dai talebani) e anche le urne aperte e vigilate militarmente potranno essere oggetto di agguati, com’è già accaduto in precedenti circostanze. Dunque, le presenze certe nel 28 settembre che s’approssima sono il terrore generalizzato e i taliban. Quest’ultimi estranei alla competizione elettorale, ma incombenti nel clima creato dalle loro stragi e, di sorpresa in sorpresa, non è detto che il trasformismo che comunque aleggia su quello scenario in futuro non possa accettarli anche nella veste di concorrenti. Finora gli studenti coranici l’hanno rifiutata. Essi conoscono la propria forza e la debolezza altrui e una parte celata dei colloqui, poi interrotti da Trump, riguardava un loro possibile ritorno legale al potere. Però i turbanti vogliono scegliersi i ‘compagni di merende’ e mostravano di non gradirne nessuno fra quelli all’orizzonte. Del resto basta ascoltare le dichiarazioni degli anti Ghani per intuirne, nonostante le critiche rivoltegli, un comune denominatore.

Wali Massoud, figlio d’un padre famoso quanto farabutto, si fa forte della Massoud Foundation, struttura a libro paga statunitense che sulla retorica delle gesta d’un “eroe” che è stato Signore della guerra cerca soluzioni alternative per conservare lo status quo che il Paese conosce da decenni. Massoud junior attacca: “Occorre muovere il popolo contro la mafia di governo, Ghani e Abdullah hanno garantito solo inefficienza”. Altrettanto critico è Rahmatullah Nabil che rincara: “Un governo che ha raccolto solo fallimenti”, la sua candidatura la sostiene Jamiat-e Islami, partito storico del jihad islamico, dove hanno militato Rabbani e Ahmad Massoud, con le conseguenze che tre generazioni di afghani conoscono bene. Se siete curiosi ascoltate anche Noorullah Jalili, sayyed della provincia di Nangarhar, un affarista che a suo tempo ha lavorato anche per i talebani: “La nazione accetterà perfino l’Emirato, ma gli attuali governanti non accettano compromessi sul destino del popolo”. Mentre l’ex parlamentare Latif Pedram, riempie i cuori di promesse: “Se vincerò porterò le riforme che servono al Paese”. Sic, evidentemente si sente atteso. Certo, c’è pure l’ipocrisia fatta persona, quella del premier Abdullah Abdullah, che giorni addietro, a corredo della sua terza candidatura, dichiarava: “Noi non vogliamo la continuazione della guerra per restare al potere”. Le bugie hanno le gambe corte, cortissime. Abdullah ha la faccia di bronzo.

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