Con l’avvio del governo giallo-merda il monopolio dell’opposizione è passato de facto
all’ex compare di governo Salvini. Più in generale, il “sovranismo” si è
imposto quale unica opposizione possibile, dopo essere stato per
quattordici mesi il collante valoriale del contratto giallo-verde. En
passant: qualsiasi valutazione vogliamo darne, il trasformismo è di
fatto il tratto caratteristico del ceto politico del paese dall’Unità ad
oggi. Ma torniamo a noi. Dentro lo schema binario che si è imposto, e
cioè europeismo di governo contro sovranismo d’opposizione, a sparire di
fatto saranno tutte le “voci terze”, di volta in volta stritolate tra
sostegno all’euroliberismo “democratico” o intelligenza col nemico
sciovinista.
Come uscirne? Molto difficile. La premessa sarebbe
riconoscere lo stato di minorità che la situazione impone, al di là
delle nostre forze, già oggettivamente scarse. Subiamo una fase in cui
il quadro politico appare blindato dentro due false alternative, che
però – presentandosi in lotta tra loro – si radicalizzano nella
comunicazione politico-mediatica e quindi anche nella percezione di gran
parte della popolazione. Al momento,
peraltro e nonostante i giochi di palazzo, le forze d’opposizione sono
elettoralmente più forti, ideologicamente più compatte e politicamente
più organizzate. Difficile invertire la tendenza nel breve-medio
periodo. La maestria “democratica” di saper maneggiare i rapporti di
forza nel palazzo non impedirà, prima o poi, di fare i conti coi rapporti di forza fuori dal palazzo. Questo è il motivo decisivo della corsa al proporzionale. Su cui vanno dette alcune cose.
In un quadro definito entro cui si scontrano due partiti (o
coalizioni) elettoralmente predominanti, la spinta ad un sistema
maggioritario si presenta come naturale certificazione di un bipolarismo
di fatto. La ricerca di “governabilità” spinge l’insieme delle forze
politiche ad escogitare quei correttivi utili al mantenimento del potere
del partito o coalizione vincente. In un quadro tripolare come quello
in cui stiamo vivendo da qualche anno, le dinamiche sono inevitabilmente
opposte. La sequenza di elezioni politiche, regionali e comunali dal
2013 ad oggi ha infatti fatto chiarezza su di un fatto
incontrovertibile: al momento del ballottaggio, o in sede di
contrattazione post-elettorale, due delle tre forze – non importa quanto
distanti politicamente l’una dall’altra – saranno naturalmente portate
ad accordarsi, esplicitamente o tacitamente, in vista della lotta al
momentaneo problema principale. È stato così nelle elezioni comunali di
Torino e Roma, e l’esperienza al livello nazionale parla da sola. Se
questa è la tendenza in atto, non può meravigliare la corsa al
proporzionale di un ceto politico fino a ieri convinto del
maggioritario.
Quel che fatichiamo ancora a capire è che per la politica
borghese non esistono problemi etici o principi ideali in funzione del
mantenimento del potere. Renzi docet: non c’è alcuna adesione ideologica
al maggioritario piuttosto che al proporzionale, l’importante è
garantire il quadro politico da intoppi, fughe in avanti ed eccessiva
instabilità. D’altronde, conviene ricordare che il ritorno al
proporzionale è stato compiuto dal centrodestra nel 2005 (legge
Calderoli), e confermato dal centrosinistra nel 2017 (legge Rosato),
anche se con particolari correttivi quali premio di maggioranza e soglie
di sbarramento elevate. Siamo già, da quattordici anni, in regime
proporzionale, nonostante tutto lo sbraitare che vediamo su tg e
giornali sul “golpe proporzionale” in corso. Chi sta gridando al golpe
(Salvini, ad esempio), è lo stesso che lo votò nel 2005. A valere è solo
l’estremo realismo, più correttamente cinismo, dei rapporti di potere.
Proprio Renzi è quello che ha capito prima e meglio l’attuale fase.
Sta tornando il famigerato pentapartito, dunque bisogna attrezzarsi. E
in uno schema proporzionale l’unico modo di sopravvivere non è “vincere
le elezioni” (cosa d’altronde impossibile, a meno che non si raggiunga
il 50% dei voti, cosa mai accaduta dal 1948 ad oggi), ma conquistarsi
una rendita di posizione. Renzi non ha alcuna intenzione di raggiungere
il 20 o il 30% alle elezioni, non è così stupido. Vuole attestarsi su di
una percentuale utile – sia essa il 4, il 6 o l’8%. Utile a contrattare ruoli di governo o di opposizione dopo il
voto, in sede parlamentare (la stessa dinamica che ha portato l’inutile
accrocco di LeU ad avere un ministro nel nuovo governo). Potremmo dire
che tutto ciò sia comunque “più democratico” del quadro
maggioritario-bipolare-presidenziale-di-fatto della cosiddetta Seconda
repubblica. Potremmo, ancora, dire che ristabilisca una logica
parlamentare, in connessione col dettato costituzionale, violato dal
presidenzialismo-di-fatto in vigore tra il ’94 e il 2011. Il problema è
che in assenza di partiti strutturati, di lotta politica e di
riferimenti ideologici forti, uno schema proporzionale anestetizzato di
questo tipo favorisce unicamente i giochi di potere nel palazzo,
senza produrre nessuna vera democratizzazione dei rapporti politici. Si
dirà, insistendo, che è comunque meglio del maggioritario. Quel che
dovremmo capire è che non c’è un meglio o un peggio in questa
fase, perché il meglio e il peggio sono stabiliti da soggetti esterni e
contrari agli interessi di democratizzazione della vita politica del
paese.
Chiusa la parentesi, torniamo a noi: come può una sinistra di classe
minoritaria e frammentata smarcarsi da un quadro chiuso nell’alternativa
tra europeismo liberista e nazionalismo reazionario? Inutile farsi
illusioni: non può smarcarsi. Può testimoniare un’alterità, ma
sarebbe opera appunto di testimonianza, non di iniziativa politica.
L’azione – l’unica possibilità – che ci è data è quella di costringere
le due alternative a convergere. Se infatti queste sono, come diciamo un
po’ tutti da tempo, “false”, va dimostrato coi fatti, non nelle nostre
cavillose analisi.
Questo paese soffre di una straordinaria mancanza di
conflitto, e infatti tutto il quadro politico è tenuto unito dalla
pacificazione. Le idee politiche attualmente in competizione possono
presentarsi “alternative” solo in presenza di pace sociale, una pace
costantemente alimentata e perseguita manu militari da tutti gli attori in campo. Lo scontro è solo nel palazzo, nella rete, nella campagna elettorale permanente, tra leader politici e nel circuito
informativo. Il fuori non è contemplato. È per questo che l’unica
sopravvivenza possibile è quella del conflitto tanto contro il governo
quanto contro questa opposizione. Non la testimonianza del conflitto, ma
il conflitto aperto, quello che costringe a schierarsi a favore o
contro. Da qualche parte, d’altronde, bisognerà pur ricominciare, e non
c’è scommessa che non includa una parte di rischio. Dobbiamo forzare una
situazione bloccata, con ogni mezzo opportuno. Il riavvicinamento – già
in corso – al Pd derenzizzato di una parte della sinistra non può
essere combattuto solo in nome di buoni propositi radicali.
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