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30/09/2019

Quante opposizioni può reggere un quadro politico?

Con l’avvio del governo giallo-merda il monopolio dell’opposizione è passato de facto all’ex compare di governo Salvini. Più in generale, il “sovranismo” si è imposto quale unica opposizione possibile, dopo essere stato per quattordici mesi il collante valoriale del contratto giallo-verde. En passant: qualsiasi valutazione vogliamo darne, il trasformismo è di fatto il tratto caratteristico del ceto politico del paese dall’Unità ad oggi. Ma torniamo a noi. Dentro lo schema binario che si è imposto, e cioè europeismo di governo contro sovranismo d’opposizione, a sparire di fatto saranno tutte le “voci terze”, di volta in volta stritolate tra sostegno all’euroliberismo “democratico” o intelligenza col nemico sciovinista.

Come uscirne? Molto difficile. La premessa sarebbe riconoscere lo stato di minorità che la situazione impone, al di là delle nostre forze, già oggettivamente scarse. Subiamo una fase in cui il quadro politico appare blindato dentro due false alternative, che però – presentandosi in lotta tra loro – si radicalizzano nella comunicazione politico-mediatica e quindi anche nella percezione di gran parte della popolazione. Al momento, peraltro e nonostante i giochi di palazzo, le forze d’opposizione sono elettoralmente più forti, ideologicamente più compatte e politicamente più organizzate. Difficile invertire la tendenza nel breve-medio periodo. La maestria “democratica” di saper maneggiare i rapporti di forza nel palazzo non impedirà, prima o poi, di fare i conti coi rapporti di forza fuori dal palazzo. Questo è il motivo decisivo della corsa al proporzionale. Su cui vanno dette alcune cose.

In un quadro definito entro cui si scontrano due partiti (o coalizioni) elettoralmente predominanti, la spinta ad un sistema maggioritario si presenta come naturale certificazione di un bipolarismo di fatto. La ricerca di “governabilità” spinge l’insieme delle forze politiche ad escogitare quei correttivi utili al mantenimento del potere del partito o coalizione vincente. In un quadro tripolare come quello in cui stiamo vivendo da qualche anno, le dinamiche sono inevitabilmente opposte. La sequenza di elezioni politiche, regionali e comunali dal 2013 ad oggi ha infatti fatto chiarezza su di un fatto incontrovertibile: al momento del ballottaggio, o in sede di contrattazione post-elettorale, due delle tre forze – non importa quanto distanti politicamente l’una dall’altra – saranno naturalmente portate ad accordarsi, esplicitamente o tacitamente, in vista della lotta al momentaneo problema principale. È stato così nelle elezioni comunali di Torino e Roma, e l’esperienza al livello nazionale parla da sola. Se questa è la tendenza in atto, non può meravigliare la corsa al proporzionale di un ceto politico fino a ieri convinto del maggioritario.

Quel che fatichiamo ancora a capire è che per la politica borghese non esistono problemi etici o principi ideali in funzione del mantenimento del potere. Renzi docet: non c’è alcuna adesione ideologica al maggioritario piuttosto che al proporzionale, l’importante è garantire il quadro politico da intoppi, fughe in avanti ed eccessiva instabilità. D’altronde, conviene ricordare che il ritorno al proporzionale è stato compiuto dal centrodestra nel 2005 (legge Calderoli), e confermato dal centrosinistra nel 2017 (legge Rosato), anche se con particolari correttivi quali premio di maggioranza e soglie di sbarramento elevate. Siamo già, da quattordici anni, in regime proporzionale, nonostante tutto lo sbraitare che vediamo su tg e giornali sul “golpe proporzionale” in corso. Chi sta gridando al golpe (Salvini, ad esempio), è lo stesso che lo votò nel 2005. A valere è solo l’estremo realismo, più correttamente cinismo, dei rapporti di potere.

Proprio Renzi è quello che ha capito prima e meglio l’attuale fase. Sta tornando il famigerato pentapartito, dunque bisogna attrezzarsi. E in uno schema proporzionale l’unico modo di sopravvivere non è “vincere le elezioni” (cosa d’altronde impossibile, a meno che non si raggiunga il 50% dei voti, cosa mai accaduta dal 1948 ad oggi), ma conquistarsi una rendita di posizione. Renzi non ha alcuna intenzione di raggiungere il 20 o il 30% alle elezioni, non è così stupido. Vuole attestarsi su di una percentuale utile – sia essa il 4, il 6 o l’8%. Utile a contrattare ruoli di governo o di opposizione dopo il voto, in sede parlamentare (la stessa dinamica che ha portato l’inutile accrocco di LeU ad avere un ministro nel nuovo governo). Potremmo dire che tutto ciò sia comunque “più democratico” del quadro maggioritario-bipolare-presidenziale-di-fatto della cosiddetta Seconda repubblica. Potremmo, ancora, dire che ristabilisca una logica parlamentare, in connessione col dettato costituzionale, violato dal presidenzialismo-di-fatto in vigore tra il ’94 e il 2011. Il problema è che in assenza di partiti strutturati, di lotta politica e di riferimenti ideologici forti, uno schema proporzionale anestetizzato di questo tipo favorisce unicamente i giochi di potere nel palazzo, senza produrre nessuna vera democratizzazione dei rapporti politici. Si dirà, insistendo, che è comunque meglio del maggioritario. Quel che dovremmo capire è che non c’è un meglio o un peggio in questa fase, perché il meglio e il peggio sono stabiliti da soggetti esterni e contrari agli interessi di democratizzazione della vita politica del paese.

Chiusa la parentesi, torniamo a noi: come può una sinistra di classe minoritaria e frammentata smarcarsi da un quadro chiuso nell’alternativa tra europeismo liberista e nazionalismo reazionario? Inutile farsi illusioni: non può smarcarsi. Può testimoniare un’alterità, ma sarebbe opera appunto di testimonianza, non di iniziativa politica. L’azione – l’unica possibilità – che ci è data è quella di costringere le due alternative a convergere. Se infatti queste sono, come diciamo un po’ tutti da tempo, “false”, va dimostrato coi fatti, non nelle nostre cavillose analisi.

Questo paese soffre di una straordinaria mancanza di conflitto, e infatti tutto il quadro politico è tenuto unito dalla pacificazione. Le idee politiche attualmente in competizione possono presentarsi “alternative” solo in presenza di pace sociale, una pace costantemente alimentata e perseguita manu militari da tutti gli attori in campo. Lo scontro è solo nel palazzo, nella rete, nella campagna elettorale permanente, tra leader politici e nel circuito informativo. Il fuori non è contemplato. È per questo che l’unica sopravvivenza possibile è quella del conflitto tanto contro il governo quanto contro questa opposizione. Non la testimonianza del conflitto, ma il conflitto aperto, quello che costringe a schierarsi a favore o contro. Da qualche parte, d’altronde, bisognerà pur ricominciare, e non c’è scommessa che non includa una parte di rischio. Dobbiamo forzare una situazione bloccata, con ogni mezzo opportuno. Il riavvicinamento – già in corso – al Pd derenzizzato di una parte della sinistra non può essere combattuto solo in nome di buoni propositi radicali.

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