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25/09/2019

L’impossibile cambiamento

Quando nel giugno 2016 Il Movimento Grillino riuscì a conquistare il Campidoglio con Virginia Raggi, grazie al massiccio consenso registrato nelle periferie della città, si pensò, con molti se, che la debacle del PD e di quel sistema di potere pervasivo che aveva governato per alcuni decenni, si fosse scomposto, disarticolato. Non certo il partito degli affari ma almeno il referente politico bipartisan che aveva diligentemente portato avanti le politiche liberiste nella città. Sappiamo tutti com’è andata e nessuno nel nostro campo, nonostante l’evidente soddisfazione per la rovinosa sconfitta del PD, considerava la nuova giunta “dell’onestà e della trasparenza”, una giunta che sarebbe stata amica dei movimenti e risolutrice di alcune grandi questioni sociali che affliggevano in particolare la metropoli romana.

Tanta acqua è passata sotto i ponti da quel 2016: abbiamo visto il Renzismo cadere nel giro di un anno, le elezioni del 4 marzo 2018, l’alleanza giallo verde, l’ascesa del Salvinismo (ancora in corso) in consistenti settori delle masse popolari e l’avvento dell’inedita alleanza di sistema Grillo - Renzi. A tre anni di distanza occorre tracciare un bilancio di questo tempo trascorso, partendo da alcune premesse necessarie e non scontate che riguardano il governo della città liberista.

La prima riguarda il contesto, la cornice politica della crisi generale, che è in primis economica e sociale, senza cui è impossibile comprendere la crisi del governo della città. Questa premessa è necessaria per capire la sostanziale ingovernabilità del regime metropolitano, in assenza di una politica espansiva, in cui il diktat, mai messo in discussione, del pareggio di bilancio, è un totem intoccabile. Contro questo macigno posto sull’unica strada percorribile, nessuno, neanche la forza più popolare e di sinistra, sarebbe in grado di segnare quella famosa discontinuità o cambiamento. Oggi il governo delle città, dove si concentrano gran parte della popolazione attiva e dei problemi sociali non sono affrontabili senza una politica radicale, intendendo per radicale il suo termine originario, l’affronto dei problemi alla radice, o più precisamente la natura politica anticapitalista delle scelte economiche.

La seconda premessa è che noi, nel nostro piccolo, ma anche in buona compagnia all’epoca, facemmo campagna attiva per la caduta del convitato di pietra (PD-Destra), vicendevolmente avversari nell’aula del Campidoglio ma alleati trasversali nel programma comune di gestione degli affari e competitor nel rapporto con il partito del mattone, la Curia e le varie Terre di Mezzo che gestiscono fette di potere significative nella città. Nonostante non si sia vista nessuna discontinuità, siamo ancora convinti che la sconfitta del PD a Roma e a Torino, apripista della rovinosa caduta del renzismo nel referendum del 4 dicembre di quello stesso anno, è stata una cosa utile, positiva, per indebolire il partito cardine del liberismo europeista nel nostro paese.

Ognuna di queste premesse andrebbe approfondita ma, per centrare il tema su cui vogliamo soffermarci, bisogna coglierne l’utilità chiarificatrice rispetto al ruolo della giunta Raggi e alla parabola del movimento “antisistema” grillino.

Un punto di vista radicale di critica al governo 5 stelle della città non può e non deve partire semplicemente dai risultati concreti raggiunti nella città, ovvero quante buche ci sono ancora, quanti parchi abbandonati, quanti autobus malandati, andati a fuoco e fermi nelle rimesse ci sono. Questo lavoro certosino sull’improduttività della giunta Raggi lo lasciamo fare ai professionisti della produttività (vedi l’articolo del Sole 24 ore) o, all’inverso, al legittimo lavoro di rivendicazione sindacale conflittuale e non concertativo.

A noi, come sinistra anticapitalista cittadina, spetta un lavoro politico di destrutturazione del messaggio grillino su cui si fondava lo sbandierato cambiamento.

L’impossibile discontinuità ha origine dal carattere determinato della “rivolta antisistema” grillina, dalla retorica della rottamazione del vecchio regime, dall’illusione della fine delle ideologie, figlia legittima del liberismo e del pensiero unico capitalista, del pragmatismo fine a se stesso, del mantra ideologico della competenza come leva per alleviare e sciogliere le storture del sistema capitalistico, dall’assoluta incapacità di capire che il mondo in cui viviamo è pervaso fino nel midollo dalla lotta incessante tra interessi di classe, corporazioni e lobby economiche.

Partendo da questo background ideologico, come si poteva fare a meno di fallire miseramente in una città così complessa, disordinata e disfatta, come intitolava un interessante libro intervista di Vezio de Lucia uscito alcuni anni fa?

Il primo punto della campagna elettorale della candidata Raggi fu l’audit sul debito e la ricontrattualizzazione dello stesso, ma nulla di questo è avvenuto e, solo con l’emendamento nel decreto crescita del precedente governo, si è chiusa la gestione commissariale, risparmiando alcune spese passive, senza mai però porre in discussione l’enorme debito, 12 miliardi, che grava sulla città fino al 2048. Non avere scelto fin da subito come terreno di scontro il punto del debito e dei vincoli di bilancio, e quindi l’impossibilità di fare una politica espansiva, ha condannato la città a vivere in una costante emergenza sociale, nella negazione quotidiana del diritto alla mobilità per molti romani, alla privatizzazione strisciante e a una politica di spending review sui servizi sociali e pubblici.

Quali le conseguenze di questa scelta?

Tale scelta di fondo ha lasciato le periferie, bacino elettorale della giunta, nel declino più totale, facendo incancrenire gli annosi problemi e mantenendo per i cittadini il livello della tassazione locale al punto più alto: Roma ha l’addizionale IRPEF più alta d’Italia  e proprio in questi giorni il Campidoglio sta definendo i passaggi per una campagna di recupero forzoso della Tari, anch’essa tra le imposte più alte d’Italia, per uno dei servizi più scadenti d’Europa.

Il cedimento ai privati, fin dall’inizio, è stato il segno evidente della linea di destra (altro che postideologica) di cui la Raggi si faceva garante nella città e il banco di prova ne è stato la decisione sul progetto Stadio per la Roma, l’accordo con Parnasi, poi parzialmente impantanatosi per la sopravvenuta bufera giudiziaria che ha investito quello stesso e la componente più di “sinistra” del movimento.

Successivamente, tutto il resto è stato, in qualche modo, una conseguenza che si assomma all’enorme ritardo infrastrutturale accumulato negli ultimi venti anni.

Intanto tre anni di governo sono passati e la vita nelle periferie è andata peggiorando sensibilmente, le grandi questioni sociali endemiche sono rimaste tutte sul tappeto, quando non abbiano subito un ulteriore sensibile peggioramento.

La questione Casa, o meglio il diritto all’abitare, è rimasta totalmente inevasa; la questione del gigantesco patrimonio immobiliare sfitto, l’intervento tardivo e disordinato sulle truffe dei piani di zona avvenuto solo grazie al pressing del sindacato di base, l’attacco costante al movimento delle occupazioni e del diritto all’abitare, sventolando la legalità senza diritti, sono un segno della continuità totale con il passato.

Cosa rimane di questo governo della città? Cosa rimane della retorica della partecipazione dal basso, della lotta ai poteri forti, del vaffa al sistema? Poco e nulla. Chiaramente non è solo il caso romano, ma di Torino come del governo del paese, ove il grillismo ormai ha completamente bruciato le potenzialità spontanee che ne avevano fatto, a torto e a ragione, la novità politica di questi anni, l’apparente partito della protesta antisistema.

Da questo angolo visuale, Roma è stata un laboratorio interessante nell’imprimere una linea conservatrice e moderata al movimento che pur negli anni scorsi aveva avuto un forte consenso nelle periferie e in parti del disorientato elettorato di sinistra, visto da quest’ultimo come una possibilità per cambiare le cose.

È la parabola della provinciale visione del mondo di un gruppo dirigente permeato di moralismo e di cittadinismo legalitario che non fa i conti con il mondo diviso in classi e con i poteri economici che comandano e decidono le scelte di fondo.

La giunta Raggi è riuscita a fallire anche nel suo cavallo di battaglia fondamentale: la competenza e la trasparenza, sbandierate in questi anni come armi fondamentali per cambiare le storture del sistema. Secondo questa retorica sarebbe bastato incaricare persone competenti, oneste e di buona volontà per cambiare la macchina politica ed amministrativa della città; si è visto come questa giunta si è giocata gran parte della sua credibilità sul suo stesso terreno, a partire dal gruppo di pressione gestito da Marra, a pochi mesi dal suo insediamento, e nell’incapacità di gestione amministrativa degli assessorati, nel piegarsi al pressing del mondo che conta in questa città.

Nonostante il quadro politico nazionale sia radicalmente cambiato, con l’inedita ed emergenziale alleanza PD-5stelle, il Campidoglio potrebbe non arrivare alla sua scadenza naturale, (2021) per la cronica crisi e instabilità che da sempre si porta dietro anche questa giunta. All’orizzonte si staglia l’assedio delle forze reazionarie che non vedono l’ora di riguadagnare la Capitale e il paese. Ci aspettano mesi in cui sarà auspicabile, per non dire vitale, mettere a bilancio anche il lavoro e le prospettive, se esiste ancora, di una sinistra cittadina popolare e anticapitalista. I segnali nel nostro campo non sono incoraggianti, sembriamo predestinati da troppi anni a essere dei compiaciuti spettatori del disastro che ci scorre davanti, giorno dopo giorno. Sembriamo nell’insieme, nessuno escluso, non all’altezza, delle scelte necessarie, senza una visione d’insieme e senza una mission.

Ecco perché, al momento del passaggio elettorale, il rischio di una dipendenza dal male minore (PD), di una necessaria desistenza frontista contro il salvinismo imperante, è una sirena che potrebbe fare diverse vittime. Non si tratta, però solo di stigmatizzare e lamentarsi di questo esito possibile, ma di esaminare attentamente le nostre debolezze, che sono prima politiche e poi sociali, non l’inverso. Serve allora porre le basi per la costruzione di un tavolo di riflessione profondo e concreto sul da farsi in questa città, tralasciando, o meglio, non dedicandosi esclusivamente alle contingenze dell’eventismo. Nessuno ha la ricetta pronta e servirà un’attenta operazione di brainstorming collettivo con mentalità aperta e finalizzata all’obiettivo comune.

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