Quando nel giugno 2016 Il Movimento Grillino riuscì a conquistare il
Campidoglio con Virginia Raggi, grazie al massiccio consenso registrato
nelle periferie della città, si pensò, con molti se, che la debacle del
PD e di quel sistema di potere pervasivo che aveva governato per alcuni
decenni, si fosse scomposto, disarticolato. Non certo il partito degli
affari ma almeno il referente politico bipartisan che aveva
diligentemente portato avanti le politiche liberiste nella città.
Sappiamo tutti com’è andata e nessuno nel nostro campo, nonostante
l’evidente soddisfazione per la rovinosa sconfitta del PD, considerava
la nuova giunta “dell’onestà e della trasparenza”, una giunta che sarebbe
stata amica dei movimenti e risolutrice di alcune grandi questioni
sociali che affliggevano in particolare la metropoli romana.
Tanta acqua è passata sotto i ponti da quel 2016: abbiamo visto il
Renzismo cadere nel giro di un anno, le elezioni del 4 marzo 2018,
l’alleanza giallo verde, l’ascesa del Salvinismo (ancora in corso) in
consistenti settori delle masse popolari e l’avvento dell’inedita
alleanza di sistema Grillo - Renzi. A tre anni di distanza occorre
tracciare un bilancio di questo tempo trascorso, partendo da alcune
premesse necessarie e non scontate che riguardano il governo della città
liberista.
La prima riguarda il contesto, la cornice politica della crisi
generale, che è in primis economica e sociale, senza cui è impossibile
comprendere la crisi del governo della città. Questa premessa è
necessaria per capire la sostanziale ingovernabilità del regime
metropolitano, in assenza di una politica espansiva, in cui il diktat,
mai messo in discussione, del pareggio di bilancio, è un totem
intoccabile. Contro questo macigno posto sull’unica strada percorribile,
nessuno, neanche la forza più popolare e di sinistra, sarebbe in grado
di segnare quella famosa discontinuità o cambiamento. Oggi il governo
delle città, dove si concentrano gran parte della popolazione attiva e
dei problemi sociali non sono affrontabili senza una politica radicale,
intendendo per radicale il suo termine originario, l’affronto dei
problemi alla radice, o più precisamente la natura politica
anticapitalista delle scelte economiche.
La seconda premessa è che noi, nel nostro piccolo, ma anche in buona
compagnia all’epoca, facemmo campagna attiva per la caduta del convitato
di pietra (PD-Destra), vicendevolmente avversari nell’aula del
Campidoglio ma alleati trasversali nel programma comune di gestione
degli affari e competitor nel rapporto con il partito del mattone, la
Curia e le varie Terre di Mezzo che gestiscono fette di potere
significative nella città. Nonostante non si sia vista nessuna
discontinuità, siamo ancora convinti che la sconfitta del PD a Roma e a
Torino, apripista della rovinosa caduta del renzismo nel referendum del 4
dicembre di quello stesso anno, è stata una cosa utile, positiva, per
indebolire il partito cardine del liberismo europeista nel nostro paese.
Ognuna di queste premesse andrebbe approfondita ma, per centrare il
tema su cui vogliamo soffermarci, bisogna coglierne l’utilità
chiarificatrice rispetto al ruolo della giunta Raggi e alla parabola del
movimento “antisistema” grillino.
Un punto di vista radicale di critica al governo 5 stelle della città
non può e non deve partire semplicemente dai risultati concreti
raggiunti nella città, ovvero quante buche ci sono ancora, quanti parchi
abbandonati, quanti autobus malandati, andati a fuoco e fermi nelle
rimesse ci sono. Questo lavoro certosino sull’improduttività della
giunta Raggi lo lasciamo fare ai professionisti della produttività (vedi l’articolo del Sole 24 ore) o, all’inverso, al legittimo lavoro di rivendicazione sindacale conflittuale e non concertativo.
A noi, come sinistra anticapitalista cittadina, spetta un lavoro
politico di destrutturazione del messaggio grillino su cui si fondava lo
sbandierato cambiamento.
L’impossibile discontinuità ha origine dal carattere determinato
della “rivolta antisistema” grillina, dalla retorica della rottamazione
del vecchio regime, dall’illusione della fine delle ideologie, figlia
legittima del liberismo e del pensiero unico capitalista, del
pragmatismo fine a se stesso, del mantra ideologico della competenza
come leva per alleviare e sciogliere le storture del sistema
capitalistico, dall’assoluta incapacità di capire che il mondo in cui
viviamo è pervaso fino nel midollo dalla lotta incessante tra interessi
di classe, corporazioni e lobby economiche.
Partendo da questo background ideologico, come si poteva fare a meno
di fallire miseramente in una città così complessa, disordinata e
disfatta, come intitolava un interessante libro intervista di Vezio de Lucia uscito alcuni anni fa?
Il primo punto della campagna elettorale della candidata Raggi fu
l’audit sul debito e la ricontrattualizzazione dello stesso, ma nulla di
questo è avvenuto e, solo con l’emendamento nel decreto crescita del
precedente governo, si è chiusa la gestione commissariale, risparmiando
alcune spese passive, senza mai però porre in discussione l’enorme
debito, 12 miliardi, che grava sulla città fino al 2048. Non avere
scelto fin da subito come terreno di scontro il punto del debito e dei
vincoli di bilancio, e quindi l’impossibilità di fare una politica
espansiva, ha condannato la città a vivere in una costante emergenza
sociale, nella negazione quotidiana del diritto alla mobilità per molti
romani, alla privatizzazione strisciante e a una politica di spending
review sui servizi sociali e pubblici.
Quali le conseguenze di questa
scelta?
Tale scelta di fondo ha lasciato le periferie, bacino
elettorale della giunta, nel declino più totale, facendo incancrenire
gli annosi problemi e mantenendo per i cittadini il livello della
tassazione locale al punto più alto: Roma ha l’addizionale IRPEF più
alta d’Italia e proprio in questi giorni il Campidoglio sta definendo i
passaggi per una campagna di recupero forzoso della Tari, anch’essa
tra le imposte più alte d’Italia, per uno dei servizi più scadenti
d’Europa.
Il cedimento ai privati, fin dall’inizio, è stato il segno evidente
della linea di destra (altro che postideologica) di cui la Raggi si
faceva garante nella città e il banco di prova ne è stato la decisione
sul progetto Stadio per la Roma, l’accordo con Parnasi, poi parzialmente
impantanatosi per la sopravvenuta bufera giudiziaria che ha investito
quello stesso e la componente più di “sinistra” del movimento.
Successivamente, tutto il resto è stato, in qualche modo, una
conseguenza che si assomma all’enorme ritardo infrastrutturale
accumulato negli ultimi venti anni.
Intanto tre anni di governo sono passati e la vita nelle periferie è
andata peggiorando sensibilmente, le grandi questioni sociali endemiche
sono rimaste tutte sul tappeto, quando non abbiano subito un ulteriore
sensibile peggioramento.
La questione Casa, o meglio il diritto all’abitare, è rimasta
totalmente inevasa; la questione del gigantesco patrimonio immobiliare
sfitto, l’intervento tardivo e disordinato sulle truffe dei piani di
zona avvenuto solo grazie al pressing del sindacato di base, l’attacco
costante al movimento delle occupazioni e del diritto all’abitare,
sventolando la legalità senza diritti, sono un segno della continuità
totale con il passato.
Cosa rimane di questo governo della città? Cosa rimane della retorica
della partecipazione dal basso, della lotta ai poteri forti, del vaffa
al sistema? Poco e nulla. Chiaramente non è solo il caso romano, ma di
Torino come del governo del paese, ove il grillismo ormai ha
completamente bruciato le potenzialità spontanee che ne avevano fatto, a
torto e a ragione, la novità politica di questi anni, l’apparente
partito della protesta antisistema.
Da questo angolo visuale, Roma è stata un laboratorio interessante
nell’imprimere una linea conservatrice e moderata al movimento che pur
negli anni scorsi aveva avuto un forte consenso nelle periferie e in
parti del disorientato elettorato di sinistra, visto da quest’ultimo
come una possibilità per cambiare le cose.
È la parabola della provinciale visione del mondo di un gruppo
dirigente permeato di moralismo e di cittadinismo legalitario che non fa
i conti con il mondo diviso in classi e con i poteri economici che
comandano e decidono le scelte di fondo.
La giunta Raggi è riuscita a fallire anche nel suo cavallo di
battaglia fondamentale: la competenza e la trasparenza, sbandierate in
questi anni come armi fondamentali per cambiare le storture del sistema.
Secondo questa retorica sarebbe bastato incaricare persone competenti,
oneste e di buona volontà per cambiare la macchina politica ed
amministrativa della città; si è visto come questa giunta si è giocata
gran parte della sua credibilità sul suo stesso terreno, a partire dal
gruppo di pressione gestito da Marra, a pochi mesi dal suo insediamento,
e nell’incapacità di gestione amministrativa degli assessorati, nel
piegarsi al pressing del mondo che conta in questa città.
Nonostante il quadro politico nazionale sia radicalmente cambiato,
con l’inedita ed emergenziale alleanza PD-5stelle, il Campidoglio
potrebbe non arrivare alla sua scadenza naturale, (2021) per la cronica
crisi e instabilità che da sempre si porta dietro anche questa giunta.
All’orizzonte si staglia l’assedio delle forze reazionarie che non
vedono l’ora di riguadagnare la Capitale e il paese. Ci aspettano mesi
in cui sarà auspicabile, per non dire vitale, mettere a bilancio anche
il lavoro e le prospettive, se esiste ancora, di una sinistra cittadina
popolare e anticapitalista. I segnali nel nostro campo non sono
incoraggianti, sembriamo predestinati da troppi anni a essere dei
compiaciuti spettatori del disastro che ci scorre davanti, giorno dopo
giorno. Sembriamo nell’insieme, nessuno escluso, non all’altezza, delle
scelte necessarie, senza una visione d’insieme e senza una mission.
Ecco perché, al momento del passaggio elettorale, il rischio di una
dipendenza dal male minore (PD), di una necessaria desistenza frontista
contro il salvinismo imperante, è una sirena che potrebbe fare diverse
vittime. Non si tratta, però solo di stigmatizzare e lamentarsi di
questo esito possibile, ma di esaminare attentamente le nostre
debolezze, che sono prima politiche e poi sociali, non l’inverso. Serve
allora porre le basi per la costruzione di un tavolo di riflessione
profondo e concreto sul da farsi in questa città, tralasciando, o
meglio, non dedicandosi esclusivamente alle contingenze dell’eventismo.
Nessuno ha la ricetta pronta e servirà un’attenta operazione di
brainstorming collettivo con mentalità aperta e finalizzata
all’obiettivo comune.
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