di Alessandro Barile
Sarah Gainsforth, Airbnb città merce, DeriveApprodi, 2019, pp. 191, € 18,00
Bisognerebbe riflettere sul ritardo che l’Italia – e Roma in
particolare – sconta riguardo ai temi della gentrificazione, della
“turistificazione” dei centri urbani, degli stravolgimenti che in questi
decenni recenti hanno sconvolto la morfologia delle sue principali
città d’arte. Un paese pioniere della riflessione urbanistica si è
trovato improvvisamente impreparato di fronte alle tormentate sfide che
distinguono il volto di città e metropoli dei nostri giorni. A dire il
vero gli ultimi anni hanno visto un inevitabile recupero: la
trasformazione della città si è imposta quale motivo di analisi di un
nuovo modello estrattivo, al tempo stesso produttivo, finanziario e
parassitario. Il libro di Sarah Gainsforth si inserisce precisamente in
questo movimento di attivismo politico-culturale: recuperare il tempo
perduto, aggiornando interpretazioni sfocate, ormai incapaci di
comprendere i fenomeni sociali che investono l’ambiente urbano. Come
ogni lavoro di questo tipo, si presenta immediatamente interessante e
inevitabilmente parziale. Interessante perché l’autrice coglie il motivo
decisivo: smascherare le retoriche del capitalismo parassitario che
travolge i centri urbani e li trasforma in qualcos’altro (ma cos’altro?
Questa rimane la domanda inevasa); parziale perché, per l’appunto,
pioneristico – almeno, come detto, nel nostro paese – e che quindi non
può servirsi di una mole dignitosa e condivisa di studi italiani
rilevanti sull’argomento. Si presenta dunque come lavoro dal quale partire, ed è la sua inequivocabile importanza.
Proviamo a centrare subito il tema, liberandoci dalle pastoie
sociologiche o urbanistiche che ingarbugliano il problema dentro punti
di vista troppo ristretti per svelare pienamente la complessità della
vicenda: la città attuale è il prodotto della crisi economica. Una crisi
economica di lungo periodo, che sfocia clamorosamente con la bolla dei
mutui subprime del 2008, ma che qualifica il modello capitalistico occidentale almeno dalla
fine dei mitizzati “trenta gloriosi”. Sarebbe davvero troppo
pretenzioso provare in poche battute i caratteri di questa crisi, che si
presenta – in ultima istanza – come crisi di valorizzazione dei
capitali privati. La curva di accrescimento di questi capitali – visti
nel loro insieme – ad un certo momento rallenta fino ad arrestarsi,
generando contestualmente la moltiplicazione geometrica del debito
privato per sostenere una valorizzazione che, per perpetuarsi, non può
che essere continuamente drogata: i consumi reggono, ma lo fanno
scollegandosi vieppiù marcatamente dal livello reale dei redditi
generati nel rapporto tra lavoro disponibile e produzione economica.
Questa crisi può essere valutata da diversi punti di vista, tutti
importanti. Per quel che qui ci interessa, a farne le spese è la
dimensione cittadina, investita frontalmente dalle contorsioni di un
capitalismo che dilegua la sua fase “mista” – e cioè
contraddittoriamente sostenuta da capitali privati e pubblici in egual
misura – e smantella progressivamente la serie di legami che sostenevano
il rapporto tra Stato (inteso come recinto politico) e sviluppo
economico. Sempre limitandoci alla vicenda urbana, David Harvey – in un
suo noto articolo del 1989 – ha definito questo passaggio dalla città manageriale alla città imprenditoriale.
Quale è il significato di questo passaggio (epocale)? In buona sostanza
le città – tutte le città, ma in particolare le metropoli divenute
“globali” – strutturate politicamente per amministrare le
risorse che lo Stato trasferiva loro dalla fiscalità generale, sono
state catapultate forzatamente nella dimensione imprenditoriale,
dovevano divenire – per sostenere l’insieme dei servizi di cui erano
intestatarie – aziende urbane, generando da sé quelle risorse economiche non più trasmesse dallo Stato centrale.
Sempre tagliando con l’accetta e in maniera rozzamente sintetica, la
turistizzazione dei centri urbani si inserisce in questo schema,
risponde alla medesima necessità che ha portato le città a privatizzare
la propria economia, “liberalizzando” i servizi, “cartolarizzando” il
patrimonio immobiliare comunale, svendendo porzioni sempre crescenti di
proprietà pubblica, dismettendo sempre più attività che si presentavano
come costi aggiunti di un bilancio che continuava a non tornare, che non
poteva più tornare al fatidico pareggio. La città imprenditoriale è il
risultato della città (fiscalmente) fallita.
In sintesi: dalla città
bisognava estrarre reddito per colmare le mancate risorse trasferite
dallo Stato. Questa necessità si è incontrata con la difficoltà dei
capitali privati – come accennato prima – di valorizzarsi, di
accrescersi stabilmente, inceppandosi la droga del debito privato. E
quale miglior investimento che tornare alla rendita? La crisi economica
non ha infatti prodotto una diminuzione dei capitali in circolazione,
tutt’altro: nel mondo non c’è mai stata così tanta massa di capitale
privato inutilizzato, finanziarizzato ma non valorizzato, perché ad
essersi spezzata è la catena fondamentale che generava valore per questi
capitali: il consumo interno delle economie ricche dell’Occidente.
Questa dimensione letteralmente infinita di capitale fittizio –
moltiplicato finanziariamente e raggiungendo diversi multipli ormai non
più misurabili del Pil globale – è costretto però a trovare ricadute
concrete al quale ancorarsi. La rendita immobiliare è il principale
ancoraggio. Di qui, tra le altre cose, la turistificazione.
Come viene insegnato al prima anno di economia politica, non è la
domanda a generare l’offerta, bensì il contrario: è l’offerta a generare
bisogni indotti. Fatti salvi i bisogni primari (sostanzialmente volti
alla riproduzione dell’uomo), l’universo dei bisogni secondari è indotto
dall’offerta economica. Da questo angolo di visuale, l’intera retorica
sul turismo andrebbe ribaltata: non è questo ad investire i paesi
dell’Occidente, costringendoli al cambiamento produttivo e
riconvertendolo in ricettività turistica; sono i paesi occidentali (e
non solo loro, ovviamente) ad attirare i flussi turistici globali
investendo su di una domanda indotta, che – in qualche modo – costringe
al bisogno di turismo (cioè al bisogno di entrate esterne al
sistema cittadino o nazionale). I flussi sono costruiti e alimentati da
quei paesi che se ne dicono oggetto “loro malgrado”. Venuto
(parzialmente) meno il potere d’indirizzo economico da parte dello
Stato, trasformata la città in ente imprenditoriale, sono dunque le
città a stesse a plasmarsi in funzione del turismo globale. Deformandone
– letteralmente – la morfologia, tanto quella urbana quanto
(soprattutto) quella sociale, cioè i caratteri fondamentali della
cittadinanza.
Sarah Gainsforth illustra questa macroscopica vicenda attraverso una
sineddoche, che però coglie davvero nel segno: lo studio e il
disvelamento di un pezzo di questa economia del turismo – Airbnb – per
descriverne la complessità, restituendo un distopico quadro d’insieme
che ancora oggi fatica ad affermarsi fuori dai circuiti politicamente
più emancipati. Ci sono più piani che si intersecano in un lavoro di
questo tipo, ed è l’unico modo per coglierne il senso. Da una parte c’è
il duro confronto con i numeri e i dati di realtà che distinguono il
processo di turistificazione. Attraverso mirati focus di alcuni casi
urbani scelti dall’autrice, veniamo subito colpiti dalla forza dei
numeri. Alcuni esempi: Lisbona ha circa 500mila abitanti, ma sopporta
l’arrivo di 14 milioni di turisti ogni anno. In seguito al “salvataggio”
dei conti pubblici portoghesi operato dall’Unione europea, una delle
clausola capestro del memorandum «invitava a stimolare il
mercato immobiliare con interventi di rigenerazione urbana e una
massiccia liberalizzazione degli affitti». Il risultato, oltre la fine
dell’equo canone e la moltiplicazione degli sfratti, è stata la consegna
ad Airbnb di una quota rilevante dell’intero mercato degli affitti:
22mila alloggi sono gestiti da Airbnb nel solo centro cittadino; nel
solo quartiere di Santa Maria Maior – 1,5 kmq – 3mila case sono in
affitto su Airbnb.
Ancora: in seguito (attenzione: in seguito) alla crisi del
2008, i prezzi delle case di San Francisco – cuore della multinazionale
Airbnb – si sono moltiplicati indefinitamente: «oggi più della metà delle case di San Francisco costa oltre 1 milione di dollari. Nel quartiere di Westwood Park le case da 1 milione di dollari erano il 3% nel 2012; nel 2016 erano il 96%. In 14 quartieri della Bay Area, per lo più concentrati intorno a Palo Alto, il 100% delle case costa più di questo valore».
E, attenzione, in una città che vive una crisi abitativa epocale, e
dove è il “ceto medio”, non gli strati più popolari, a doversi
trasferire altrove, sempre più lontano da una città dove però continua a
gravitare per ragioni di lavoro. Il caro affitti colpisce famiglie con
100mila dollari di reddito l’anno. Ancora: «Toronto è nel pieno di un
boom immobiliare e, al tempo stesso di una crisi abitativa senza
precedenti. […] Nel 2016 le case sottratte al mercato ordinario di
Toronto erano circa 3000, nel 2017 erano diventate 45.000 e un anno
dopo, nel 2018 erano 65.000». E ancora, a caso tra i dati citati
ossessivamente ma giustamente dall’autrice: «Nella zona urbanistica del
centro storico di Roma il 19% degli appartamenti è in affitto su Airbnb.
[…] A Venezia il 12% delle case nella città storica, […] è affittato a
turisti tutto l’anno. […] Firenze è la città con la più alta
concentrazione di case su Airbnb nel centro storico, il 18%». E
importante: non stiamo parlando di hotel, b&b o altre strutture
ricettive “ufficiali”. Parliamo di appartamenti privati che si sommano
all’offerta già mastodontica della ricettività turistica. Percentuali
esasperate – vicine dunque al 50% dell’intero patrimonio abitativo di
una città, o almeno del suo centro storico – vengono riconvertite al
turismo. Con quali risultati è facile immaginare: «A Roma l’intero
mercato degli affitti viene stimato da Istat in 210.000 alloggi. Il
primo gestore di alloggi è l’Ater Roma, con 48.000. […] Il secondo è il
Comune, che detiene 28.000 alloggi pubblici. Il terzo, poiché di fatto è
un gestore immobiliare, è Airbnb, con quasi 19.000 alloggi interi, ma
se contiamo anche le singole stanze arriviamo a 30.000». L’effetto, a
dire il vero, è stato anche calcolato: «A Boston, una ricerca del
dipartimento di Economia dell’Università ha trovato non solo una
correlazione ma una relazione causale tra la proliferazione di Airbnb e i
prezzi delle abitazioni: a ogni 12 annunci su Airbnb per zona
censuaria corrisponde una perdita di case sul mercato ordinario del
5,9%, un aumento dei canoni di locazione dello 0,4% e un aumento dei
valori immobiliari dello 0,76%». Ogni dodici annunci. Siamo di
fronte ad un terremoto che travolge direttamente le città, la loro
fisionomia e, soprattutto, gli abitanti residenti.
Si dirà, e infatti viene detto, che tutto ciò risponde a dinamiche
molecolari, processi intimi del capitalismo privato, di scelte
individuali, come ad esempio mettere una casa o una stanza in affitto su
di un sito, “disintermediando” la canonica offerta ricettiva, piegando
inevitabilmente le città a flussi inarrestabili che possono solo essere
“governati” ma non limitati. E veniamo al secondo focus del libro di
Gainsforth, e cioè la natura ideologica di questo fenomeno: «fu chiaro
quasi subito che solo il 10% degli host di Airbnb erano inquilini che
arrotondavano; nel 90% dei casi si trattava di proprietari che affittavano tutto l’anno.
[…] Molti degli interi edifici dove gli inquilini erano stati sfrattati
con il ricorso all’Ellis Act erano gli stessi in cui gli appartamenti
comparivano negli annunci su Airbnb e VRBO». E ancora: «Gli host con più
di una casa in affitto […] gestiscono il 56,2% di tutte le case in
affitto su Airbnb a Roma: sono 10.583 gli appartamenti di utenti con più
di un annuncio». In altre parole, la leggenda – perché di questo si
tratta – che Airbnb faccia parte del “processo di disintermediazione”
dell’economia, liberando le energie del piccolo capitalismo privato, è
una bufala: Airbnb è un gestore, uno dei più grandi, di proprietà
immobiliari, che destina alla ricettività turistica contribuendo alla
moltiplicazione di questa. Non risponde ad un bisogno (più stanze o
appartamenti per turisti), ma lo genera. Non è Airbnb a rispondere ad
una domanda di turismo: è Airbnb a generare la domanda di sempre più
turismo. «Airbnb è finora la principale success story del
capitalismo delle piattaforme e dell’ideologia neoliberale e
startuppara, secondo cui ognuno è imprenditore di se stesso. [...] Le
piattaforme hanno trovato il modo di mercificare sempre nuove risorse,
ampliando la sfera di ciò che è possibile mettere a profitto – la casa,
il proprio tempo, le città. […] Il turismo […] è uno strumento di
produzione di località per l’estrazione di valore dalla città-merce». E
ancora, più avanti e in maniera decisiva: «il turismo è oggi il
principale strumento di gentrificazione e di marketing delle città,
diventate al tempo stesso imprenditrici e merce di consumo, la risorsa e
il prodotto finale, in vendita sul mercato globale».
Se però le dinamiche sono globali, rispondono cioè alle strategie di
poche enormi multinazionali private e non-localizzate, modellando
giocoforza l’insieme del tessuto urbano, le ricadute rimangono locali.
L’ideologia della disintermediazione, delle startup e della sharing economy serve
a demolire i regimi regolatori urbani, in perfetta assonanza con
l’attacco ai regimi regolatori statuali portata avanti dal più vasto
processo di globalizzazione dell’economia mondiale. Rimanendo alla
città, la sostituzione in corso è quella della popolazione
residente con una temporanea, di passaggio, “utilizzatrice” della città,
anzi: di città, in generale, senza risiedervi, secondo la (ormai)
classica intuizione di Martinotti riferendosi ai metropolitan businessperson.
Eppure una popolazione residente continuerà inevitabilmente ad esserci.
Ma sarà spostata sempre più lontano, sempre più fuori dai confini
urbani, e però costretta – per ragioni lavorative – a gravitarvi
attorno, sovente attorno a quel centro cittadino nel frattempo divenuto
luogo di transito dei flussi del turismo e dell’economia globale.
In conclusione, dunque, la città divenuta metropoli si presenta sempre più come duale:
un piccolo centro nevralgico – non sempre o per forza sovrapposto al
centro geografico – circondato da un’immensa periferia che si estende
ben oltre la provincia e coincidendo con la regione di riferimento,
senza soluzione di continuità. Ma non è gioco a somma zero: nella
periferia disurbanizzata e non più cittadina a venire sconvolti sono
quei diritti di cittadinanza su cui si fonda il concetto stesso di
città. Per chi può ancora permetterseli, cioè comprarli,
persisteranno. Per tutti gli altri, cioè per la stragrande maggioranza
della popolazione, si apre (si è già aperta) una nuova fase delle
relazioni sociali.
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