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19/09/2019

La lezione iraniana e i fallimenti di bin Salman

di Alberto Negri

Guerre nel Golfo. La rete regionale sciita ha dimostrato di poter colpire chiunque e ovunque, a partire da uno dei principali produttori di greggio e tra i primi arsenali militari al mondo. Se restano le sanzioni, non vince nessuno

L’attacco agli impianti petroliferi sauditi è la più potente umiliazione subita dal Regno delle Due Spade degli ultimi settant’anni, ancora maggiore dell’attacco alla Mecca di 40 anni fa, quando nel 1979 gli insorti guidati dal predicatore Al Otaybi ingaggiarono due settimane di battaglia nel luogo simbolo dell’Islam con oltre 250 morti. Questa volta è ancora più grave perché il regime saudita, capeggiato dal figlio del re il principe Mohammed Bin Salman, è stato colto di sorpresa, le sue difese vìolate nel cuore pulsante della sua unica ragione economica, e forse politica, di esistere: il petrolio.

Il regno scricchiola nonostante l’Arabia Saudita sia il terzo paese al mondo per spese militari e spenda decine di miliardi di dollari versati all’industria bellica europea e degli Stati Uniti, il suo vero protettore. Ricordiamo che Trump fece la prima missione all’estero proprio a Riad firmando contratti da oltre 100 miliardi di dollari. Eppure l’Arabia Saudita non è stata in grado di difendersi dai droni (e forse dai missili) degli insorti yemeniti Houthi, un’azione che sarebbe ingenuo pensare abbiano potuto portare a termine da soli.

L’Iran respinge le accuse americane ma senza Teheran i ribelli yemeniti non avrebbero conquistato Sanaa e messo alle corde la coalizione araba guidata dall’Arabia Saudita che dal 2015 bombarda senza tregua anche la popolazione civile. Quando incontrai per la prima volta gli Houthi nel 2009 i sauditi già li bersagliavano in accordo con il governo yemenita. Ma allora erano soltanto i guerriglieri sciiti male armati di un clan zaydita: ora rivendicano di avere messo in ginocchio l’industria petrolifera del Paese che ospiterà il prossimo G-20, che sta per quotare sui mercati il suo gioiello, l’Aramco (100 miliardi di incasso previsto) e ha appena nominato, per la prima volta, un membro della casa reale ministro del Petrolio.

Insomma un disastro, un colpo al prestigio dei Saud, che hanno mostrato la vulnerabilità di uno dei maggiori produttori mondiali. Mohammed bin Salman, ritenuto dalla stessa Cia il mandate dell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi, subisce un pessimo ritorno di immagine, tanto più che è proprio lui a capeggiare una guerra in Yemen che non vince e lo ha messo persino in rotta di collisione con gli Emirati. Bin Salman ha voluto l’isolamento del Qatar e ha fallito, conduce il conflitto in Yemen e ha fallito, vorrebbe che gli americani o Israele facessero la guerra all’Iran ma forse anche la tempistica non è dalla sua parte. L’attacco è arrivato alla vigilia delle elezioni di oggi in Israele dove rischia grosso il premier Netanyahu, l’alleato più forte del principe saudita nello spingere Trump a stracciare l’accordo sul nucleare voluto da Obama nel 2015.

Ma la vita di popoli e nazioni nel Golfo corre sul filo. Mentre i sauditi non hanno ancora osato accusare Teheran – al contrario di quanto ha già fatto dal segretario di Stato Mike Pompeo – l’Iran del presidente Hassan Rohani ha incontrato ieri ad Ankara Erdogan e Putin, in un vertice trilaterale di tre ex imperi sulla Siria, un’altra pesante sconfitta per i sauditi e le monarchie del Golfo che nel 2011 volevano abbattere Assad e hanno appoggiato la più grande insurrezione jihadista della storia recente.

Chi vuole destabilizzazione rischia di morire di destabilizzazione. I vicini di casa dei sauditi, dal Qatar allo Yemen, dimostrano di volere respingere la loro influenza, i loro soldi e di non avere paura di quello che sulla carta è uno dei più agguerriti arsenali del mondo. Manca però la ragione per combattere: i loro avversari lottano per la sopravvivenza. Riad dovrebbe saperlo: ha già perso la guerra per procura con un milione di morti voluta nell’80 da Saddam contro l’Iran. Oggi gli iraniani contano su una rete di movimenti di guerriglia come Hezbollah libanesi, Houthi yemeniti, milizie sciite in Siria e in Iraq che hanno portato la Mezzaluna sciita a sfidare chiunque, a contrastare il jihadismo sunnita, l’Isis e persino Israele e gli Usa. È di pochi giorni fa l’incontro tra il capo sciita iracheno Muqtada Sadr, la Guida Suprema Alì Khamenei e l’onnipresente generale Qassem Soleimani: una foto di gruppo che stride con quella di Sadr e di Bin Salman che soltanto un anno fa stava per comprarselo.

L’attacco è un chiaro messaggio agli Usa: se le sanzioni all’Iran continuano Teheran è in grado di colpire l’export petrolifero e far esplodere i prezzi. Gli Usa possono scegliere tra una risposta militare e una diplomatica. Se scelgono la prima l’Iran e i suoi alleati possono colpire i Paesi del Golfo, il commercio di petrolio e gli stessi americani che hanno soldati e basi in Iraq, in Siria e nel Golfo. Con la seconda possono evitare una escalation incontrollabile con riflessi globali. L’osservazione più calzante forse l’ha fatta Ali Vaez, capo dell’Iran Project all’International Crisis Group: “L’Iran vuole mostrare che invece di una gara dove c’è un vincente e un perdente, ci può essere una gara dove tutti escono perdenti”.

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