Dopo quelli di Amazon e Microsoft, anche i dipendenti Google hanno annunciato che prenderanno parte al Global strike di venerdì prossimo, 20 settembre, il primo dei due appuntamenti (il secondo è il 27) che vedranno le strade di 150 paesi nel mondo accerchiare simbolicamente il “Climate action summit 2019”, programmato per lunedì 23.
Come riportato da Fortune ieri sera, il “Google workers for action on climate change” ha twittato la propria presenza dando vita al secondo importante giorno di protesta dell’ultimo anno, dopo che nel novembre dello scorso anno 20.000 lavoratori dell’azienda presero la strada per mettere pressione ai vertici del gruppo, a seguito dei casi di molestie sessuali registrati a Mountain View, quartier generale californiano.
Se per ora non si conoscono i numeri che il gruppo riuscirà a movimentare, i lavoratori del gigante del gruppo Alphabet si aggiungeranno ai 1.203 (scientifico!) dipendenti di Amazon che avevano già annunciato, assieme al gruppo “Microsoft workers 4 good”, di scendere in piazza a Seattle, segnando la più importante assenza dal lavoro per i lavoratori e le lavoratrici dell’azienda di Jeff Besoz nei venticinque anni di storia di Amazon.
Si è scritto «assenza dal lavoro» di proposito perché, tecnicamente, di sciopero non si tratterà: i dipendenti Amazon infatti prenderanno un giorno di vacanza per far sentire la propria voce ai grandi della terra.
Ma quali saranno le rivendicazioni che saranno portate in piazza?
A quanto pare, i dipendenti Amazon chiederanno all’azienda di usare il «tremendo potere accumulato» per agire con urgenza nell’affrontare i temi che riguardano il cambiamento climatico, come raggiungere le “emissioni zero” entro il 2030 (Amazon contribuisce direttamente al riscaldamento climatico attraverso l’uso intensivo di combustibili fossili in tutte le attività), guidare i veicoli elettrici prima nelle zone direttamente colpite dall’inquinamento causato dall’azienda o fermare le donazioni alle lobby o ai politici che negano il cambiamento in atto.
A questo punto, una riflessione si impone, a partire da una certezza: il cambiamento climatico è la partita che questa e le prossime generazioni saranno loro malgrado costrette a giocare per disegnare il futuro assetto delle relazioni sociali, politiche ed economiche – data la portata del problema – su scala globale. Ma la domanda che più di tutte può aiutare a inquadrare la questione è la seguente: chi pagherà la transizione ecologica?
Il modo di produzione capitalistico, che struttura i rapporti sociali in una gerarchia funzionale allo sfruttamento da parte di pochi delle risorse umane e naturali (nonché del rimanente mondo animale), spinto dall’insaziabile necessità di remunerazione dei propri investimenti, ha portato la Terra sull’orlo di un “infarto ecologico” (con rischi annessi e connessi per tutto ciò che vive su di essa), riuscendo però fin qui a nascondere le proprie responsabilità agli occhi del mondo.
Capita così che le grandi multinazionali del nostro tempo, frutto di una tendenza naturale dei processi di accumulazione, che portano le aziende più grandi a diventare sempre più tali a discapito di quelle minori, possano essere individuate come le maggiori responsabili della mancata emancipazione di una fetta sempre più grande di popolazione mondiale dai bisogni primari o più strettamente necessari (lasciando anche perdere, per ora, lo sviluppo delle capacità individuali) – che in termini ecologici si può tradurre, tra l’altro, nel non respirare aria inquinata o vedere la propria terra resa sterile dal dilagare della siccità o da improvvise piogge torrenziali – senza però che questo divenga “senso comune” agli occhi di tutti.
Cos’è allora l’implicito che preoccupa, dietro il giorno di ferie utilizzato (dei già non molti di cui godono i lavoratori statunitensi) dal dipendente Amazon per chiedere alla sua azienda di take action, di fare qualcosa contro il climate change? Il mancato riconoscimento del colpevole che, una volta portatoci sull’orlo del baratro – ma allo stesso tempo accortosi che (parafrasando uno slogan dei braccianti conflittuali del nostro paese) “se casca uno, cascano tutti” – pone le condizioni per sembrare in realtà il possibile “salvatore della patria-Terra”, con buona pace del tempo passato e della responsabilità avuta nel guidare il mondo verso il baratro.
Insomma, il killer che si presenta come un medico di buona volontà...
Amazon, assieme ad Apple, Google, Facebook e Microsoft, è uno dei cinque giganti dell’hi-tech statunitense (i cosiddetti “Big five”) il cui potere economico-finanziario sovrasta di gran lunga la maggior parti dei circa duecento Stati sovrani riconosciuti sul nostro pianeta. Questo potere le permette di godere di sgravi fiscali per assicurare al paese di riferimento i propri investimenti, di retribuire e utilizzare la forza-lavoro in maniera da garantirsi profitti esemplari, di spostare la propria produzione lungo il segmento della catena del valore che meglio sposa le esigenze di accumulazione dell’impresa.
Amazon sfrutta dunque benissimo, e lo fa come poche altre, secondo la logica di questo modello di società. Eccolo allora il problema che intravediamo nelle motivazioni che spingono i suoi dipendenti all’azione di venerdì: la mancanza di un’alternativa reale a questo modello di sviluppo non permette a chi lo subisce di riconoscere il proprio “carnefice”.
Astraendo dalla peculiarità del sindacalismo a stelle e strisce, ci si aspetterebbe uno sciopero nei magazzini di Seattle per un miglioramento delle condizioni salariali, per la riduzione dell’orario di lavoro (a parità di salario), per l’allargamento delle tutele previdenziali, ecc., non certo per richiamare il proprio datore di (basso) salario a vestire il mantello del supereroe.
Vuol dire questo che la richiesta di ridurre l’impatto ecologico dell’azienda è un errore tout court? Solo un Trump (qui inteso nella peggior accezione possibile) potrebbe affermarlo; ma se non inserita in un più generale ripensamento della struttura che da forma alle relazioni di interdipendenza in questa società, allora rischia di essere un enorme regalo a chi di queste concessioni a) non ha bisogno, e che inoltre b) li sfrutta sapientemente, come la storia ci insegna, solo per vantaggi personali, mai collettivi o addirittura universali. Il killer, in fondo, spesso conosce l’anatomia, ma non fa il medico...
In definitiva, la transizione ecologica è la battaglia del (per il) futuro, e lo è talmente tanto che si gioca subito, adesso. Fare in modo che la transizione investa l’intero modo di essere e pensare la società è l’orizzonte entro cui inserire ogni singola vertenza. Oggi più che mai non sembra superfluo ricordare quanto il lavoratore Amazon, e con lui il mondo del lavoro tutto, possa essere determinante per questo processo.
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