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19/09/2019

L’eccezione tedesca e la regola dell’austerità

Ormai i numeri hanno sostituito le previsioni: la Germania è in recessione. L’indebolita locomotiva europea, che si è recentemente assestata su tassi di crescita prossimi allo zero, ha fatto registrare addirittura una riduzione dello 0,1% di PIL nel secondo trimestre del 2019, e di conseguenza si prevede un aumento della disoccupazione che, secondo le stime, passerà dall’attuale 5% al 5,2% nel 2020. Certo, nulla a che vedere con il nostro Paese, in cui crescita zero o negativa sono all’ordine del giorno da ormai un decennio, e dove la disoccupazione si attesta stabilmente attorno al 10%. Tuttavia, questa frenata dell’economia tedesca deve essere vista come il segnale ultimo, sebbene il più lampante, di un modello di politica economica – quello incarnato ed imposto dell’Unione Europea – in cui non c’è spazio alcuno per la crescita unita al progresso sociale.

Da ormai vent’anni la Germania – quel Paese che ci viene sistematicamente proposto come emblema di efficienza, produttività, stabilità, rigore, cultura, eccellenza tecnologica, ed altre mille e una meraviglia – ha scelto di adottare uno specifico schema economico. Il dinamismo tedesco è principalmente dipeso dal ritmo sostenuto delle esportazioni, garantito da una elevata competitività delle proprie merci sui mercati internazionali che si basa, oltre che su vantaggi qualitativi dei beni prodotti, anche e soprattutto sul contenimento dei costi di produzione. In particolare, le imprese tedesche riescono a contenere i costi del lavoro, potendo contare su precarietà e su delocalizzazioni.

Questo nefasto modello di crescita, che è integralmente compatibile e connaturato all’attuale architettura dell’Unione Europea, sta avendo conseguenze funeste sulle classi subalterne che in Germania – così come in altri Paesi della periferia europea più falcidiati dalla crisi – vedono sempre più assottigliarsi la fetta di prodotto sociale destinata ai redditi da lavoro.

Ribadiamolo: per adottare questo specifico modello di crescita diventa centrale il contenimento dei salari, elemento che permette di moderare la dinamica dei prezzi e quindi di sostenere le esportazioni. Questa strategia, però, ha due evidenti criticità.

La prima è di immediata comprensione: non è possibile estendere questo modello di crescita a tutti i Paesi, specialmente a quelli di un’area fortemente integrata quale l’Eurozona. Non occorre particolare acume per comprendere che non tutti i Paesi del mondo possono vivere simultaneamente di export, dal momento che le esportazioni di qualcuno sono le importazioni di qualcun altro. Tuttavia, questa ricetta è ormai il suggerimento standard dall’Unione Europea, che vede nella svalutazione salariale il miglior meccanismo di aggiustamento degli squilibri commerciali e, in ultimo, il modo più efficace per uscire dalla crisi.

La seconda concerne il disfacimento della domanda interna, che in un contesto di diminuzione dei salari viene erosa dalla caduta dei consumi della classe lavoratrice. Alla compressione salariale la Germania, similmente a tutti i paesi europei, ha abbinato delle politiche fiscali restrittive: nel 2012 Berlino ha raggiunto il pareggio di bilancio, e nei cinque anni successivi ha addirittura accumulato un avanzo, dove con questo si intende che lo Stato ha consistentemente speso meno di quanto ha drenato dall’economia attraverso la tassazione. In altre parole, anche il settore pubblico ha contribuito a frenare la domanda interna, sottraendo risorse all’economia, alimentando la disoccupazione ed esacerbando ulteriormente le pressioni al ribasso sui salari. Tuttavia, fino a che la strategia esportatrice riusciva, il paese poteva contenere i potenziali effetti deleteri sulla crescita di questo mix recessivo. Quando l’export frena, però, come sta accadendo in questo periodo anche a seguito del crollo della domanda estera o delle recenti scorribande commerciali, il contenimento della spesa pubblica rappresenta il corollario di una strategia suicida. Rendendo, tra l’altro, lampante come la questione in gioco non sia tanto una ‘guerra commerciale’ tra Germania ed altri Paesi esportatori, quanto piuttosto uno scontro di classe senza confini geografici.

Questo secondo elemento ci porta al punto più interessante dell’attualità di politica economica. Sta rimbalzando da qualche giorno la notizia per cui Angela Merkel stia valutando un pacchetto di stimolo dell’economia di 50 miliardi di euro. Sì, abbiamo capito bene: l’austera Germania, la rigorosa Cancelliera, quel Governo che si è posto in perfetta continuità con i precedenti esecutivi che hanno introdotto le più feroci riforme del mercato del lavoro, starebbe vagliando l’ipotesi di sostenere l’economia reale attraverso un importante manovra di spesa pubblica. Quanto di più normale e sano suggerirebbe il semplice buon senso: lo Stato che interviene nell’economia (specialmente se questa è in difficoltà e pertanto dilagano povertà e disoccupazione) per garantire crescita e lavoro. Un tentativo, quello che pare stia per fare la Germania, di riattivare, seppur minimamente, una domanda interna falcidiata da decadi di austerità fiscale e salariale. Il tutto, in barba agli spauracchi dello spread e del debito.

Ed è qui che emergono tuttavia i due elementi cruciali che rendono l’apparente giravolta tedesca non solo effimera ma del tutto compatibile con l’ordine gerarchico e classista europeo. In primo luogo, è evidente come il governo tedesco non stia elaborando un ripensamento della politica economica in chiave espansiva di carattere strutturale ma un intervento emergenziale orientato a sostenere i volumi di vendita delle imprese, in una fase di calo della domanda estera. Non appena quest’ultima dovesse risalire e la strategia di crescita trainata dalle esportazioni tornare a funzionare, tornerà anche l’austerità e il contenimento della domanda interna e dei salari, a tutto beneficio dei capitalisti tedeschi. In secondo luogo, mentre questo barlume di temporaneo “buon senso keynesiano” viene annunciato con disinvoltura in Germania, nei paesi della periferia europea si discute al massimo sugli zero virgola di deficit, contrattando il peso più o meno recessivo che le imminenti manovre fiscali devono avere in ossequioso rispetto dell’austerità.

A nulla vale, del resto, l’argomentazione per cui la Germania potrebbe permettersi un po’ di cuccagna in deficit in quanto paese virtuoso, con un basso livello del rapporto debito/PIL e politiche di avanzo conseguite negli anni più recenti. Il ragionamento è del tutto fallace per almeno due motivi.

Anzitutto, la Germania non è il solo paese ad avere un debito contenuto. Ad altri paesi con livelli di debito/PIL relativamente bassi, come la Spagna, non è stata certo accordata la stessa libertà di bilancio. Ma, al di là di questo, il vero punto rilevante è che sono proprio quelle presunte politiche “virtuose” di contenimento della spesa e del debito, prerequisito retorico per poter di tanto in tanto aspirare a rompere le regole di bilancio per un po’, la causa della recessione economica, la stessa crisi che si afferma poi di voler combattere con un ricorso straordinario al deficit. Che senso logico avrebbe concedere uno strappo alla regola dell’austerità ai cosiddetti virtuosi se proprio quelle virtù sono la causa madre della crisi economica? Oppure, vista in termini opposti: che senso logico avrebbe imporre austerità di bilancio ad oltranza ai paesi considerati viziosi promettendo flessibilità solo a seguito del rispetto di una condotta di politica economica che è alla base della continua recessione? Insomma: si impone la recessione come prerequisito per dotarsi degli strumenti per risolverla. Se non fosse tragico, sembrerebbe il copione di una straordinaria commedia dell’arte degli equivoci.

La verità, purtroppo, è un’altra e risiede, oltre ogni tecnicismo, nel fine eminentemente politico degli strumenti di politica economica che il quadro istituzionale e politico europeo permette o non permette di usare. Oltre ogni apparente ideologia o teoria di supporto, ciò che davvero emerge è che una politica di bilancio espansiva può essere annunciata e consentita ad un paese forte e che tiene le redini del processo di integrazione europea, senza che ciò susciti alcuno scandalo, solo e soltanto nella misura in cui ciò consente un rafforzamento della classe capitalistica in una fase di recessione economica. Con buona pace della furia ideologica anti-keynesiana ed antistatalista della commissione europea. La prova ennesima di come gli spazi di flessibilità politica da poter davvero usare a vantaggio delle classi subalterne sono solo e soltanto il risultato dei rapporti di forza e di potere. Rapporti che possono divenire più favorevoli solo come esito del riaccendersi del conflitto politico e sociale.

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