Ormai i numeri hanno sostituito le previsioni:
la Germania è in recessione. L’indebolita locomotiva europea, che si è
recentemente assestata su tassi di crescita prossimi allo zero, ha fatto
registrare addirittura una riduzione dello 0,1% di PIL nel secondo
trimestre del 2019, e di conseguenza si prevede un aumento della
disoccupazione che, secondo le stime, passerà dall’attuale 5% al 5,2%
nel 2020. Certo, nulla a che vedere con il nostro Paese, in cui crescita
zero o negativa sono all’ordine del giorno da ormai un decennio, e dove
la disoccupazione si attesta stabilmente attorno al 10%. Tuttavia,
questa frenata dell’economia tedesca deve essere vista come il segnale
ultimo, sebbene il più lampante, di un modello di politica economica – quello incarnato ed imposto dell’Unione Europea – in cui non c’è spazio alcuno per la crescita unita al progresso sociale.
Da ormai vent’anni la Germania – quel
Paese che ci viene sistematicamente proposto come emblema di efficienza,
produttività, stabilità, rigore, cultura, eccellenza tecnologica, ed
altre mille e una meraviglia – ha scelto di adottare uno specifico
schema economico. Il dinamismo tedesco è principalmente dipeso dal ritmo
sostenuto delle esportazioni, garantito da una elevata competitività
delle proprie merci sui mercati internazionali che si basa, oltre che su
vantaggi qualitativi dei beni prodotti, anche e soprattutto sul contenimento dei costi di produzione. In particolare, le imprese tedesche riescono a contenere i costi del lavoro, potendo contare su precarietà e su delocalizzazioni.
Questo nefasto modello di crescita, che è integralmente compatibile e connaturato all’attuale architettura dell’Unione Europea,
sta avendo conseguenze funeste sulle classi subalterne che in
Germania – così come in altri Paesi della periferia europea più
falcidiati dalla crisi – vedono sempre più assottigliarsi la fetta di
prodotto sociale destinata ai redditi da lavoro.
Ribadiamolo: per adottare questo specifico modello di crescita diventa centrale il contenimento dei salari, elemento che permette di moderare la dinamica dei prezzi e quindi di sostenere le esportazioni. Questa strategia, però, ha due evidenti criticità.
La prima è di immediata comprensione: non
è possibile estendere questo modello di crescita a tutti i Paesi,
specialmente a quelli di un’area fortemente integrata quale l’Eurozona.
Non occorre particolare acume per comprendere che non tutti i Paesi del
mondo possono vivere simultaneamente di export, dal momento che le
esportazioni di qualcuno sono le importazioni di qualcun altro.
Tuttavia, questa ricetta è ormai il suggerimento standard dall’Unione
Europea, che vede nella svalutazione salariale il miglior meccanismo di
aggiustamento degli squilibri commerciali e, in ultimo, il modo più
efficace per uscire dalla crisi.
La seconda concerne il disfacimento della
domanda interna, che in un contesto di diminuzione dei salari viene
erosa dalla caduta dei consumi della classe lavoratrice. Alla
compressione salariale la Germania, similmente a tutti i paesi europei,
ha abbinato delle politiche fiscali restrittive: nel 2012 Berlino ha
raggiunto il pareggio di bilancio, e nei cinque anni successivi ha
addirittura accumulato un avanzo, dove con questo si intende che lo
Stato ha consistentemente speso meno di quanto ha drenato dall’economia
attraverso la tassazione. In altre parole, anche il settore pubblico ha
contribuito a frenare la domanda interna, sottraendo risorse
all’economia, alimentando la disoccupazione ed esacerbando ulteriormente le pressioni al ribasso sui salari.
Tuttavia, fino a che la strategia esportatrice riusciva, il paese
poteva contenere i potenziali effetti deleteri sulla crescita di questo
mix recessivo. Quando l’export frena, però, come sta accadendo in questo
periodo anche a seguito del crollo della domanda estera o delle recenti
scorribande commerciali, il contenimento della spesa pubblica
rappresenta il corollario di una strategia suicida. Rendendo, tra
l’altro, lampante come la questione in gioco non sia tanto una ‘guerra
commerciale’ tra Germania ed altri Paesi esportatori, quanto piuttosto
uno scontro di classe senza confini geografici.
Questo secondo elemento ci porta al punto
più interessante dell’attualità di politica economica. Sta rimbalzando
da qualche giorno la notizia per cui Angela Merkel stia valutando un pacchetto di stimolo dell’economia di 50 miliardi di euro.
Sì, abbiamo capito bene: l’austera Germania, la rigorosa Cancelliera,
quel Governo che si è posto in perfetta continuità con i precedenti
esecutivi che hanno introdotto le più feroci riforme del mercato del
lavoro, starebbe vagliando l’ipotesi di sostenere l’economia reale
attraverso un importante manovra di spesa pubblica. Quanto di più
normale e sano suggerirebbe il semplice buon senso: lo Stato che
interviene nell’economia (specialmente se questa è in difficoltà e
pertanto dilagano povertà e disoccupazione) per garantire crescita e
lavoro. Un tentativo, quello che pare stia per fare la Germania, di
riattivare, seppur minimamente, una domanda interna falcidiata da decadi
di austerità fiscale e salariale. Il tutto, in barba agli spauracchi
dello spread e del debito.
Ed è qui che emergono tuttavia i due
elementi cruciali che rendono l’apparente giravolta tedesca non solo
effimera ma del tutto compatibile con l’ordine gerarchico e classista
europeo. In primo luogo, è evidente come il governo tedesco non stia
elaborando un ripensamento della politica economica in chiave espansiva
di carattere strutturale ma un intervento emergenziale orientato a
sostenere i volumi di vendita delle imprese, in una fase di calo della
domanda estera. Non appena quest’ultima dovesse risalire e la strategia
di crescita trainata dalle esportazioni tornare a funzionare, tornerà
anche l’austerità e il contenimento della domanda interna e dei salari, a
tutto beneficio dei capitalisti tedeschi. In secondo luogo, mentre
questo barlume di temporaneo “buon senso keynesiano” viene annunciato
con disinvoltura in Germania, nei paesi della periferia europea si
discute al massimo sugli zero virgola di deficit, contrattando il peso
più o meno recessivo che le imminenti manovre fiscali devono avere in
ossequioso rispetto dell’austerità.
A nulla vale, del resto, l’argomentazione
per cui la Germania potrebbe permettersi un po’ di cuccagna in deficit
in quanto paese virtuoso, con un basso livello del rapporto debito/PIL e
politiche di avanzo conseguite negli anni più recenti. Il ragionamento è
del tutto fallace per almeno due motivi.
Anzitutto, la Germania non è
il solo paese ad avere un debito contenuto. Ad altri paesi con livelli
di debito/PIL relativamente bassi, come la Spagna, non è stata certo
accordata la stessa libertà di bilancio. Ma, al di là di questo, il vero
punto rilevante è che sono proprio quelle presunte politiche “virtuose”
di contenimento della spesa e del debito, prerequisito retorico per
poter di tanto in tanto aspirare a rompere le regole di bilancio per un
po’, la causa della recessione economica, la stessa crisi che si afferma
poi di voler combattere con un ricorso straordinario al deficit. Che
senso logico avrebbe concedere uno strappo alla regola dell’austerità ai
cosiddetti virtuosi se proprio quelle virtù sono la causa madre della
crisi economica? Oppure, vista in termini opposti: che senso logico
avrebbe imporre austerità di bilancio ad oltranza ai paesi considerati
viziosi promettendo flessibilità solo a seguito del rispetto di una
condotta di politica economica che è alla base della continua
recessione? Insomma: si impone la recessione come prerequisito per
dotarsi degli strumenti per risolverla. Se non fosse tragico,
sembrerebbe il copione di una straordinaria commedia dell’arte degli
equivoci.
La verità, purtroppo, è un’altra e
risiede, oltre ogni tecnicismo, nel fine eminentemente politico degli
strumenti di politica economica che il quadro istituzionale e politico
europeo permette o non permette di usare. Oltre ogni apparente ideologia
o teoria di supporto, ciò che davvero emerge è che una politica di
bilancio espansiva può essere annunciata e consentita ad un paese forte e
che tiene le redini del processo di integrazione europea, senza che ciò
susciti alcuno scandalo, solo e soltanto nella misura in cui ciò
consente un rafforzamento della classe capitalistica in una fase di
recessione economica. Con buona pace della furia ideologica
anti-keynesiana ed antistatalista della commissione europea. La prova
ennesima di come gli spazi di flessibilità politica da poter davvero
usare a vantaggio delle classi subalterne sono solo e soltanto il
risultato dei rapporti di forza e di potere. Rapporti che possono
divenire più favorevoli solo come esito del riaccendersi del conflitto
politico e sociale.
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