di Michele Giorgio
Avigdor
Lieberman è solo un ultranazionalista, con posizioni nei confronti dei
religiosi ebrei e dei palestinesi che sfociano nel razzismo, o è anche
dotato di grande intelligenza politica? L’interrogativo non è nuovo e si
ripropone in queste ore in cui Lieberman ha tra le mani le sorti
politiche di Israele.
«C’è una cosa che lo rende non classificabile: l’imprevedibilità.
Talvolta è capace di spiazzarti», ci dice Aldo Baquis, giornalista
israeliano di origine italiana che si è spesso occupato di Lieberman.
«Non è facile catalogarlo – aggiunge – Lieberman è certamente un nazionalista, senza dubbio è un antagonista della minoranza araba (in Israele). E ha aspetti inquietanti. Come se avesse uno strano alone dietro di lui che non ti mette a tuo agio».
Adesso piace anche al centrosinistra che lo vede come
l’artefice della possibile uscita di scena di Netanyahu dimenticando le
sue posizioni insostenibili in politica estera e verso i palestinesi.
Visceralmente antireligioso, brutalmente antiarabo, Lieberman, 61
anni, nasce come Evik Lieberman in una famiglia ebraica nella Moldavia
ex sovietica. Lì studia e lavora prima di immigrare in Israele nel 1978.
Laureatosi in relazioni internazionali all’Università ebraica di
Gerusalemme, abbraccia l’estrema destra e va a vivere nella colonia
ebraica di Nokdim, nella Cisgiordania palestinese sotto occupazione.
Fa vari lavori, tra cui il buttafuori nei locali notturni, fino all’incontro alla fine degli anni ’80 con Benyamin Netanyahu che condiziona ancora oggi la sua esistenza, non solo politica.
All’epoca l’attuale primo ministro era all’inizio della sua carriera
politica, al termine dell’incarico di ambasciatore israeliano all’Onu.
Fu colpito dalle doti di organizzatore di questo immigrato moldavo
pronto a mettere al suo servizio astuzia politica ed umana.
Nel 1993 Netanyahu prende il controllo del Likud
sostituendosi alla vecchia guardia rappresentata da Yitzhak Shamir e
nomina Lieberman suo stretto collaboratore. Poi nel 1996 lo fa direttore
generale dell’ufficio del primo ministro quando a sorpresa riesce a battere Shimon Peres alle elezioni. Troppo potere in poco tempo.
Lieberman finisce nel mirino di tanti alti dirigenti del Likud.
Nentanyahu non lo difende ed è costretto a dimettersi. «Si fece l’idea
che il premier non credeva più in lui, che il lavoro sporco era fatto e
il servo non era più necessario», ricorda Beny Bitton, sindaco di Dimona
e amico di Lieberman.
Dopo un periodo dai molti lati oscuri nel mondo degli affari, il moldavo decide di investire
in politica fondando nel 1999 un suo partito, Yisrael Beiteinu, punto
di riferimento degli ebrei originari dei paesi dell’ex Urss e di chi
chiede che i religiosi ultraortodossi e i loro partiti siano tenuti alla
larga dal potere. A ciò Lieberman unisce la proposta di
«trasferimenti etnici», ossia del «passaggio» dei cittadini
arabo-israeliani all’Anp di Abu Mazen per rendere Israele ancora più
ebraico.
Negli anni i rapporti tra Lieberman e Netanyahu sono peggiorati
sebbene il premier abbia affidato al suo ex assistente incarichi di
prestigio come esteri e difesa. Il moldavo rimprovera al premier di non avere le doti di leader per invadere Gaza e spazzare via Hamas.
Infine la scorsa primavera si è aggravata la controversia sulla leva obbligatoria anche per i religiosi ultraortodossi
– Lieberman non vuole eccezioni – a cui si oppongono gli altri partiti
della possibile maggioranza di destra emersa dal voto del 9 aprile.
Lieberman ha respinto ogni compromesso e Netanyahu è stato costretto ad
accettare il voto che rischia di condannarlo.
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