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17/09/2019

Grandi giochi a destra. Renzi esce dal PD

Chi guarda ai movimenti della “politica” con la mente e gli occhiali dei decenni precedente in genere non capisce un fico secco di quel che è diventata quella roba lì. Ad esempio, se credi che un’alleanza tattica o occasionale tra grillini e PD possa essere un “argine” al neofascismo a guida salviniana, finisci a fare la guardia ai giochi altrui, come il Prc nell’Umbria.

E invece “la politica” italiana – intesa come gruppi di individui che provano ad interpretare i desideri della grande e piccola impresa, all’interno del recinto disegnato dai trattati europei – è oggi come mai prima assolutamente “gassosa”, più che “liquida”, con travasi continui da una parte all’altra perché, letteralmente, non esistono più, per questo ceto di truffatori, delle “parti” che si possano in qualche modo distinguere in modo stabile.

È questo l’unico senso concreto che si può dare al mantra grillino (e di tanti altri) per cui “non esistono più destra e sinistra”. Sono tutti al servizio di interessi diversi – da quelli giganteschi delle multinazionali o della finanza, fino a quelli dei bottegai in crisi – e si muovono cercando di “coprire” quegli interessi attraverso leggine, emendamenti, pressioni, alleanza momentanee e scambi di favori. La “grande politica”, del resto, viene decisa altrove...

Solo chi lavora o è disoccupato, pensionato, studente povero, ecc, è senza rappresentanza politica. Dunque senza “santi in paradiso”, o almeno nel palazzo. E senza strumenti per farsi valere in modo vincente.

La lunga premessa è necessaria per inquadrare “la notizia del giorno”, ossia la fuoriuscita di Matteo Renzi e una parte dei suoi dal Partito Democratico.

La mossa era nell’aria fin da quando aveva perso il referendum sulla riforma contro-costituzionale e piduista, il 4 dicembre 2016. E del resto anche i sassi sapevano, a Firenze, che il vero padrino della scalata del Matteo Primo al PD era stato l’allora berlusconiano Verdini. Giochi di massoneria (non “deviata”, proprio quella “normale”), che in Toscana ha sempre visto di sera sotto i cappucci gente che di giorno faceva parte della Dc, dei liberali, repubblicani, socialisti e buona parte dei notabili del PCI.

Caduto il Muro, le differenziazioni partitiche sono diventate meno importanti e la “mobilità” massonica assai più alta. Tanto...

Esaurita la fase del declino berlusconiano e anche quella del “riformismo democratico”, anche la posizione degli interessi catalizzati intorno ai renziani non ha più necessità di rispettare almeno formalmente il posizionamento in campi, sulla carta, “avversi”.

Guardando alle mosse di Renzi negli ultimi mesi tutto risulta abbastanza evidente.

Di fronte alla crisi del governo giallo-verde ha avuto un ruolo decisivo nello spostare il PD a favore di una nuova alleanza con i grillini, terrorizzati quanto il PD (e lui stesso) dalle elezioni anticipate. Ha potuto farlo grazie al suo unico patrimonio politico residuo: la massiccia presenza di suoi uomini e donne nei gruppi parlamentari (avendo quasi monopolizzato i candidati alle elezioni politiche del 4 marzo 2018).

Ora che il governo è formato, e tutto il PD sogna un’alleanza di lungo periodo, gestita oltretutto da posizioni di governo, stacca la spina e si mette nella posizione dell’ago della bilancia: il governo starà in piedi finché vuole lui. O meglio: finché l’insieme di interessi alle sue spalle non avrà individuato una configurazione del potere politico più rispondente.

Il resto è pura chiacchiera, com’è nel suo stile e in quello del suo gemello, l’Altro Matteo (uniti dalla famiglia Verdini, guarda caso...).

Uno “stai sereno” a Giuseppe Conte ed al governo, che suona piuttosto macabro dopo l’esperienza di Enrico Letta. Un “meglio così anche per il PD”, che riduce – portandosi via una trentina di parlamentari – da pilastro a comprimario della coalizione di governo.

Nessuno pensa che questa “svolta” produrrà davvero un “nuovo partito”. Di formazioni ce ne sono persino troppe, vista la scarsità di differenze strategiche o valoriali. È il primo di una serie di smottamenti necessari per riconfigurare “la politica italiana” su una linea organicamente “europeista” e “atlantica” sul piano internazionale e delle politiche economiche, anti-democratica su quello costituzionale e delle libertà politiche, classista su quello sociale.

Basta mettere in fila con un briciolo di freddezza le “perle” che ha seminato nell’intervista a Repubblica.

Per quanto riguarda il rapporto con quella che solo i media continuano a definire “sinistra” (ossia le origini del PD): “Mi hanno sempre trattato come un estraneo, come un abusivo, anche quando ho vinto le primarie; è il riflesso condizionato di quella sinistra che si autoproclama tale e che non accetta di essere guidata da uno che non provenga dalla Ditta. Del resto, il contrappasso è semplice: io esco, nei prossimi mesi rientrano D’Alema, Bersani e Speranza. Va via un ex premier, ne torna un altro. Tutto si tiene”. L’ultima coltellata ad una formazione senza senso che l’aveva scelto – lui, ex democristiano in odor di grembiulino – come leader della veltroniana “vocazione maggioritaria”.

Per quanto riguarda gli assetti istituzionali: “sogno che Zingaretti e Di Maio si sveglino un giorno proponendo il monocameralismo, il doppio turno, un sistema in cui la sera sai chi ha vinto le elezioni. Non cambio idea”. Ossia proprio quello che Salvini, ancora domenica dal palco di Pontida, predica per poter disporre un giorno di “pieni poteri” (lui o chi per lui).

E in pratica mette il veto – disponendo della “differenza marginale” in Parlamento – su una legge elettorale integralmente proporzionale. Ci stavano cominciando a ragionare, Zingaretti e i grillini, per disegnare un processo elettorale che desse un po’ più di ruolo al Parlamento e meno alla roulette russa del maggioritario, in cui magari uno che prende meno del 30% si ritrova con tutti gli assi in mano. Ora sanno con certezza che non passerà mai, e anche con una soglia di sbarramento siderale.

La parte più interessante, ancorché falsa, sta nel dichiarare “nemico ufficiale” l’Altro Matteo: “Voglio passare i prossimi mesi a combattere il salvinismo nelle piazze, nelle scuole, nelle fabbriche. Faremo comitati ovunque”. Perché “il PD è un insieme di correnti. E temo che non sarà in grado da solo di rispondere alle aggressioni di Salvini e alla difficile convivenza con i 5 Stelle”. Una constatazione, facile per chiunque...

Qui c’è il nocciolo del “progetto politico” che qualcun altro immagina per risolvere l’instabilità italiana.

Il salvinismo è una modalità troppo rozza per rappresentare in modo efficace gli interessi sia del capitale internazionale sia quelli del piccolo capitalismo in stile Nordest. Se ne è avuta la verifica con i 13 mesi di governo gialloverde, chiusi con una mossa che ancora deve trovare una spiegazione razionale convincente.

Ma aver seminato per tanto tempo così tante idiozie nel “senso comune” nazionale (razzismo, anti-europeismo senza piani alternativi, nostalgie autoritarie, bigottismo integralista, narrazioni pre moderne, ecc.) significa aver riempito di veleni un corpo sociale che va comunque governato, altrimenti impazzisce e può sfuggire di mano.

Questo non può esser fatto né con il salvinismo leghista, né con il finto “buonismo europeista” del PD o – tantomeno – le giaculatorie anti-casta dei grillini, che hanno dimostrato di non essere affatto un’alternativa di sistema.

Ergo, va “rottamato” il tripolarismo imperfetto creato da un decennio politicamente senza legami forti tra politiche di governo (eterodirette) e “popolo” che deve subirle.

La prima mossa è l’indebolimento strategico del PD e del governo appena nato, aprendo una crisi che ne segnerà probabilmente la fine. Le altre arriveranno dalla decomposizione della famiglia berlusconiana, dallo sfarinamento grillino e dalla possibile messa in discussione della leadership di Salvini nella Lega. Ovvio che il Truce non sia d’accordo e che abbia voluto una Pontida da record per fermare, o rallentare, il redde rationem.

Ma di un dj da Papeete, il grande capitale non sa che farsene, una volta usato...

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