Napoli, 19 settembre 2019. Festività di
San Gennaro. Una delle celebrazioni religiose e popolari più sentite in
Italia. Dinanzi al Duomo, alla fine dell’omelia dell’arcivescovo con
annesso miracolo dello scioglimento del sangue del santo (?), quest’anno
sono risuonate, oltre alle campane, le voci indignate dei lavoratori
delle aziende Whirlpool e American Laundry, i quali
hanno voluto consegnare all’arcivescovo una lettera destinata a Papa
Francesco. Un gesto a forte valenza simbolica, da parte di centinaia di
lavoratori le cui condizioni di vita sono appese ad un filo e che da
mesi, anni, lottano per la salvaguardia del loro posto di lavoro, in un
territorio devastato da deindustrializzazione e disoccupazione.
Entrambe le vertenze hanno visto nuovi sviluppi negli ultimi giorni. Sul fronte Whirlpool,
l’azienda ha passato gli ultimi mesi barcamenandosi tra false promesse e
rassicurazioni da parte dell’amministratore delegato. Lo scorso 17
settembre, in occasione di un incontro presso il Ministero per lo
Sviluppo Economico in cui il neo ministro Patuanelli si è prestato
all’ennesimo ridicolo
gioco delle parti, Whirlpool ha nuovamente annunciato la chiusura del
sito di Napoli, che verrebbe venduto alla PRS, una società con sede a
Lugano che si occupa di refrigerazione. Il tutto, naturalmente, senza
alcuna garanzia di continuità occupazionale e contrattuale per i
dipendenti. Tutti i sindacati e i partiti politici non hanno perso la
ghiotta occasione per sottolineare la grave violazione degli accordi
fissati nell’ottobre del 2018 per cui, a fronte di sussidi, l’azienda si
impegnava a varare un piano di investimenti per rilanciare il sito
napoletano. Chiacchiere, annunci, giravolte della multinazionale
nord-americana alternate a presunti pugni sul tavolo e inutili minacce
da parte di governi impotenti,
per giungere infine all’amara verità, che ci dimostra plasticamente,
per l’ennesima volta, chi ha il coltello dalla parte del manico in
questo sistema economico. Come trapela ormai da tempo, la Whirlpool con
ogni probabilità delocalizzerà in Polonia o in Turchia, alla ricerca di
un costo del lavoro infinitamente più basso e di normative più lasche su
lavoro e ambiente.
Sull’altro fronte, un’altra una fosca
vicenda, quella dell’American Laundry, azienda di Melito – cittadina in
provincia di Napoli – attiva dal 1945 nel campo della lavanderia
industriale, in prima fila dagli anni 2000 nell’affare succulento degli
appalti pubblici e fornitrice degli ospedali campani. Finita di recente
sotto procedura interdittiva per infiltrazioni della camorra e sotto
sequestro dei propri beni immobili per una maxi-evasione di 22 milioni
di euro, l’azienda vive una profonda crisi, dovuta soprattutto al
mancato rinnovo di diversi appalti pubblici. In particolare, a seguito
dell’ultimo appalto perso – quello relativo agli ospedali di Napoli nel
giugno 2019 – l’azienda minaccia di licenziare centinaia di lavoratori,
che non avranno alcuna certezza di reintegro nelle imprese che
rileveranno l’attività. Nulla di nuovo sotto il sole, ma semplicemente
la tragica riproposizione delle aberrazioni proprie del meccanismo delle
esternalizzazioni, esplose come funghi nell’ultimo ventennio sulle
spalle dei lavoratori.
Su entrambi i fronti, promesse politiche disattese, lotte sindacali organizzate e momenti di conflitto spontaneo
che proprio negli ultimi giorni si sono intensificati con blocchi
stradali, sit-in, manifestazioni e forme di protesta come la salita sul
tetto dell’azienda degli operai dell’American Laundry, al fine di
ottenere un incontro con le istituzioni. Un coraggiosissimo ed
estenuante percorso di lotte che si trova a fare i conti con l’attuale
contesto istituzionale e politico perfettamente incarnato dai principi
fondativi dell’Unione Europea: la libertà di movimento dei capitali e la
pressoché totale limitazione dell’intervento pubblico nell’economia.
Strumenti, questi, che sono stati pensati, nell’evoluzione del progetto
comunitario, per depotenziare il conflitto di classe e verso i quali un
soggetto politico e sindacale propulsivo, spesso assente, dovrebbe
essere capace di catalizzare tutte le sacrosante battaglie dei
lavoratori.
La soluzione alla deindustrializzazione e
alla disoccupazione, del resto, in linea puramente teorica, sarebbe
‘semplice’: una drastica limitazione dei movimenti di capitali
renderebbe a priori impossibile, o molto difficile, delocalizzare per risparmiare su diritti e salari.
In presenza, invece, di un’effettiva crisi produttiva, uno Stato
avrebbe in linea di principio tutti gli strumenti per rilevare la
produzione o riconvertirla su settori strategici, salvando l’occupazione
e il sistema industriale di un paese, invertendo quello sciagurato
processo di esternalizzazioni e dismissioni che ha determinato la
frammentazione produttiva e la precarietà quale elemento strutturale
delle relazioni di lavoro.
Nella realtà che viviamo ogni giorno
impressiona, invece, il contrasto evidente tra le voci di protesta dei
sindacati confederali e dei principali partiti politici, che si levano a
danno fatto di fronte a vertenze drammatiche come queste, e la
sostanziale accettazione, ieri come oggi, di un quadro istituzionale che
produce necessariamente le aberrazioni da cui le vertenze originano. In
altri termini, la fanfara ‘a babbo morto’ di confederali e partiti non
scalfisce neanche minimamente e non mette in discussione un contesto
istituzionale e socio-economico costruito su due pilastri fondamentali:
i) la libertà di movimento dei capitali, per cui un’azienda può
scegliere di delocalizzare nei paesi a basso costo di manodopera con
costi limitati o nulli; ii) i limiti drastici, dettati sia dai vincoli
di finanza pubblica sia dalla normativa europea per la concorrenza, che
di fatto impediscono ad uno Stato di intervenire direttamente nel campo
della produzione, a tutela dell’occupazione in settori in crisi.
Lotte sindacali, vertenze, conflitti o
qualsiasi altra istanza volta al miglioramento delle condizioni di vita
dei lavoratori e della maggioranza della popolazione in condizioni di
subalternità potranno fiorire e rafforzarsi soltanto al di fuori delle
compatibilità dettate del neoliberismo, inquadrate oggi nei cardini
della globalizzazione capitalistica perfettamente espressa in Europa dall’architettura dei Trattati.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento